C’era una volta … via Tasso
Vegia Savonn’a
quaexi sparia
no gh’è ‘na pria
che n’agge in cheu
che’a no me parle
di giorni belli,
di cui castelli
quand’eo figgieu.
(Beppin d’a Cà)
Via Torquato Tasso, Savona. La facciata operaia dell’OltreLetimbro di un tempo, il mio. Il lato B del rione di Santa Rita, raccolto intorno e soprattutto dietro la Chiesa dedicata. Un quartiere residenziale e popolare che ad ogni passaggio richiama insistentemente mie memorie di fanciullezza. Coperte di polvere. Che nemmeno a soffiare se ne va. Come sulle vecchie consunte galosce di gomma di mio padre che mi porto dietro in ogni trasloco senza il cuore di lasciarle scivolare nel silenzio dell’ordine troppo gelido dell’inutile.
Via Tasso si trovava a due passi dal mare. E a non più di 100 metri dal Letimbro, il fiume fantasticato delle nostre avventure più esotiche; nella realtà un largo torrentello pietroso per lo più secco, ma verde di erbe e di canne. A 200, nella direzione opposta, c’erano i prati spelacchiati della “ferrovia” accessibili per noi da due brevi crose, prima in lieve poi in più brusca salita, strette fra muri di pietre rigati ogni tanto da fusti d’edera rampicante e macchiati qua e là, nelle screpolature dell’avara calce irregolare, da ciuffi d’erbe appiccicose verde-scuro.
La strada, ampia nella curva verso monte, sboccava su alti muraglioni che nascondevano gli orti. Ma non abbastanza, direi, visto lo spettacolare successo delle nostre sfrontate, ma sostanzialmente tollerate (cioè non sanzionate con farfugliati rosari di avemarie neppure dal prete) “rapate” di fave, fichi, uva, secondo la stagione.
Era una strada sterrata e gobbosa, ancora nei primi anni ‘50. Per nostra grande fortuna. Nella nostra infanzia perfetta ci si poteva giocare a bije anche per tutto il pomeriggio, prima che le mamme ci chiamassero con insistenza, in un teneramente minaccioso crescendo di toni, sporgendosi dai poggioli. Molto più che un gioco di biglie.
Certamente oltre la nostra permanente competizione d’abilità. Piuttosto, un rituale magico complesso celebrato insieme quasi ogni giorno. Un’elaborata avvincente liturgia solo da sospendere, paziente- mente, al rarissimo passaggio di qualche automobile che avanzava scoppiettando, incerta, in una nuvola di polvere, ansimando e caracollando nelle innumerevoli buche della strada mentre ci sorrideva, tossicchiando, dal radiatore e ci interrogava con quei suoi grandi occhi a pera piantati nei parafanghi, esterni, mai più rivisti. Rimandavamo semplicemente la “bicelata” (la mossa, il colpo delle dita) risolutiva della partita a dopo quell’accidentale, rumoroso, polveroso passaggio. Impensabile, allora, inveire contro l’intrusione meccanico- spaziale alzando al cielo la maledizione buzzurra del dito medio.
Via Tasso, Savona. La nuvola rosa sostegno e rifugio impolverato dei nostri sogni. Lo spazio colorato della nostra innocenza. Il luogo fatato della prima apertura, timida ma nient’affatto timorosa, al mondo. Era lì il nostro eternamente reiterato convegno. Lì ci trovavamo per fare, dire, desiderare, immaginare cose.
Una strada appena post-contadina elevata dalle cose in rapida evoluzione e dai fatti incalzanti del dopoguerra ad esemplare meccanismo d’inaugurazione della vita d’insieme per cittadini finalmente liberi. Epicentro della comunicazione, anche fra adulti, con i primi scambi-social fra poggioli e i lunghi dibattiti-talkshow in Latteria. Una strada innalzatasi prodigiosamente a Centro Sociale e nel contempo Oratorio, sempre aperti e, insieme, clandestini.
Infanzia perfetta dicevo sopra. Massì, lo so anch’io! So che una sto- ria messa giù così non fa ascolto! So che sarebbe ben più accattivante raccontare di un’infanzia triste e sofferta, inchiodata ad ambienti tormentati e desolati chiusi al mondo. Idealmente dickensiana. Con genitori violenti o assenti o, ben che vada, distratti; con fratelli, zie, nonne e cugini intriganti o distaccati; con amici falsi; con educatori inetti; con adulti sconci. Senza compagni di gioco; senza prati né strade; senza fiumi; senza poter arrivare in due passi di corsa a posa- re i piedi nudi sulla sabbia fredda della spiaggia per respirare lo sbuffo regolare e tiepido del mare d’inverno; senza giocattoli, né libri; senza pomeriggi al cinema; senza una radio con cui addormentarsi nelle melodie attutite della “Boheme” o della “Cavalleria rusticana” ascoltate di là in cucina dai grandi…
E raccontare di un’adolescenza infelice, vissuta disperatamente giorno per giorno, nel girone infernale degli inascoltati, nel cerchio maligno dei sopportati, nel buio morale della mancanza d’amore.
E così far risaltare all’ormai immalinconito interlocutore che la condizione raggiunta è merito solo e pieno delle nostre individuali, esclusive, determinanti capacità: coraggio, volontà, tenacia, risolutezza (sull’intelligenza mette male barare); e che nonostante qui, nonostante là.. Nell’ingrato ripudio di tutti quei momenti magici scolpiti nel marmo profondo dell’anima, inestirpabili. Nell’instancabile sconsolata ricompilazione di un curriculum vitae miseramente truccato. Come un’iniezione ininterrotta di anabolizzanti al proprio ego spergiuro.
Ma non mi va. Voglio dire, invece, soprattutto per il grande rispetto che si deve ai tanti che quelle tremende condizioni le hanno vissute per davvero, che per me e per la gran parte dei miei amici, non è stato affatto così. Al netto delle differenti condizioni economiche, parametro qui di scarsissimo rilievo e del quale, peraltro, a noi non arrivava eco, e naturalmente delle diverse particolari situazioni contingenti, fondamentalmente dalla famiglia e da quel suo semplice ambiente in esuberante fioritura abbiamo avuto tutto.
Spero che la vita non sia una faccenda a somma zero. Sennò mi aspettano anni terribili.
Giulio Save
Il Cortile
La testa posata sulle braccia
il balcone del quinto piano
il vaso del basilico soffocato dal tempo.
Ho visto ragazzi correre
le scarpe battere la terra nera
la fionda in tasca
le biglie nell’altra .
Faccia sporca
cerbottana in vetro
fazzoletto legato al ginocchio.
Il gruppo fuma
sigarette alla menta
nella capanna fatta
con legna rubata al cantiere.
Odore di gatti
di lenzuola pulite.
Mi volto
nessuno mi cerca.
Mamma lavora e cuce
tira un filo con i denti.
Non so cosa continuo ad aspettare.
Come sono grandi i grandi.
Le rondini
come girano veloci le rondini.
Vivo il calore familiare
del cortile di via Tasso.
Non è una mattina come le altre
ho paura di qualcosa .
Non sarò più bambino.
Grazie Pedro.
La capanna di legna rubata al cantiere è un tocco gentile che mi mancava
Giulio via Tasso……un ricordo di tutti noi …