Cattivi maestri e mosche cocchiere
Senza tanto clamore qualche settimana fa se ne è andato Toni Negri, che in Francia aveva trovato la sua seconda patria, sicuramente a lui più congeniale. Da noi ormai praticamente dimenticato, era stato a lungo considerato il “cattivo maestro”, anzi il padre di tutti i cattivi maestri che avevano ispirato l’eversione rossa e indirettamente anche quella nera.
Si era alla vigilia o, se si vuole, nella fase preparatoria degli anni di piombo, icasticamente rappresentati nella copertina dello Spiegel con una fumante P38 sopra un piatto di spaghetti, e io, che – anche se un lavoro già ce l’avevo e pure una laurea – frequentavo a Padova la neonata facoltà di psicologia ricordo il compagno Petter asserragliato dentro l’università assediata, più fortunato del compagno di partito buttato giù per le scale del prestigioso liceo romano che presiedeva. Guardavo a quello che accadeva accanto a me con un certo distacco, anche per la distanza generazionale, e un po’ di fastidio per la pretesa di ragazzotti sprovveduti di assistere agli esami e di garantire il 18 “politico” (sempre meglio della spesa proletaria ai danni dei grandi magazzini).
Era un calderone in cui ribolliva un po’ di tutto e a distanza di tanti anni devo riconoscere che accanto ai germi di quella che sarebbe stata la canaglia iperconformista dei centri sociali e dei collettivi studenteschi c’era una gran voglia di uscire dalla palude dei partiti postbellici, da una politica ingessata e notarile e dall’invadenza clericale. Poca nostalgia, poco o nulla che richiamasse al passato, e tanta volontà di rompere col presente, con idee poco chiare sul futuro.
Non per niente Dominio e sabotaggio era il testo di riferimento, quello col quale il cattivo maestro metteva fuori gioco tutta la dialettica politica e implicitamente l’antifascismo dei nuovi partigiani utile solo a castrare la lotta di classe. Poi la sinistra è corsa ai ripari, ha fatto della contestazione – e del terrorismo – il suo braccio armato e della sua falsa terzietà lo strumento per rientrare nel Palazzo dalla finestra dopo esserne stata cacciata dalla porta proprio quando si era illusa di avervi messo le tende. Un passaggio che richiedeva il ritorno a un passato in buona parte inventato, la resistenza, l’antifascismo e tutto il fiume di chiacchiere e di menzogne che ha continuato a ingrossarsi fino ad oggi, inaugurato proprio negli anni della cosiddetta lotta armata dal rancoroso Pertini. Agli smemorati ricordo che nei primi due decenni di storia repubblicana si parlava più del presente e del futuro che del passato, anche perché fra i più prestigiosi leader democristiani e comunisti molti avevano un passato fascista, come Fanfani o Ingrao. Nella sinistra, e in particolare nel Pci, era inizialmente prevalente, anche in una roccaforte rossa come Livorno, una corrente di pensiero ispirata alla riconciliazione: i conti col passato si sono fatti, badiamo a quello che ci unisce e guardiamo avanti. Un filone che si è via via assottigliato nonostante l’autorevolezza di Violante, che tentò il passo decisivo del recupero dei ragazzi in camicia nera, idealisti a modo loro, innamorati dell’Italia e desiderosi di salvarne l’onore.
Ma, ripeto, spostare lo sguardo sul passato, distoglierlo dal presente, svuotare con la retorica la lotta politica ha fatto comodo alle vecchie e nuove borghesie: il problema è che questi tatticismi e convenienze contingenti hanno provocato il disastro culturale etico e identitario che ha travolto la nazione. Una nazione intossicata da migliaia di cattivi maestri, di fronte ai quali Negri è forse un provocatore, forse uno fuori squadra, ma ce ne fossero come lui in questo Paese infestato di mosche cocchiere. Nei momenti d’ozio mi capita di girovagare per la rete: un esercizio alla lunga snervante ma che qualche volta può essere istruttivo. Come mi è capitato l’altra sera leggendo sul Fatto di tre anni fa un attacco a Mattia Feltri che, scoprendo l’acqua calda, aveva scritto nell’editoriale del 25 aprile sull’Huffington Post di cui aveva appena assunto la direzione che i costituenti apparentemente intendevano mettere al riparo l’Italia dal defunto fascismo ma in realtà si premunivano contro il vivo e vitale comunismo. Un’ovvietà e chi non se ne capacita perché si fissa sulla firma di Terracini in calce alla Carta o sulla presenza di Togliatti ed è fermo al Cln o non è particolarmente acuto – amo la litote – o è semplicemente disinformato e non sa che guerra latente si combattesse fra i protagonisti della politica italiana dopo la disfatta, una guerra che si palesò appieno nel 1948. La Chiesa, la Dc, buona parte dei socialisti, per non dire dei liberali e degli azionisti, erano ferocemente anticomunisti. Questo è un fatto, non un’opinione. Temevano il comunismo, la Russia sovietica, il rischio di una guerra civile: non c’era traccia di antifascismo, anche perché sapevano bene che il fascismo era morto e sepolto.
È vero che Scelba nel 1952 dette attuazione, rinvigorendole, alle norme transitorie – ripeto transitorie – della costituzione che vietano la ricostituzione del “disciolto partito fascista”, dicitura ambigua e imprecisa che richiama due partiti diversi, il Partito Nazionale Fascista e il Partito Fascista Repubblicano. Il primo era stato sciolto il 27 luglio del ‘43, due giorni dopo l’ultima seduta del Gran Consiglio che sfiduciò Mussolini, il secondo si dissolse il 28 aprile del 1945 insieme con la Repubblica sociale, con la quale era nato. Una mossa un po’ strana, quella di Scelba, tenuto conto che nessuno, al governo, aveva messo in dubbio la legittimità del Msi fondato sei anni prima da vecchi fascisti come Almirante, un partito che, a differenza del Pci, non suscitava nessuna apprensione fra i liberali come Einaudi. Una mossa un po’ strana che sembra un avvertimento, un dire a nuora perché suocera intenda: se impediamo per legge la ricostituzione di un partito, quello fascista, perché incompatibile con la democrazia parlamentare, domani potrebbe toccare al Pci, che per natura e storia è incompatibile con il parlamentarismo borghese, se non rinnega la sua dottrina; chi pensa che questa sia un’interpretazione capziosa o strampalata si ricordi che a prendere manganellate dai “celerini” sono stati per decenni i compagni con le bandiere rosse, non i nostalgici, e che nelle questure si schedavano i simpatizzanti di sinistra (è successo anche a me, dirigente locale dell’Unione Goliardica). Per decenni l’Italia centrista e democristiana usò il pugno di ferro contro qualunque segno di sedizione comunista vanificando con una sistematica azione di ripulitura il tentativo di infiltrare questure e poliziotti compiuto nel dopoguerra dal Pci.
Dunque, ripeto, Feltri jr aveva semplicemente scoperto l’acqua calda affermando che l’Italia repubblicana non nasce antifascista (non ce n’era bisogno) ma anticomunista e avamposto dell’occidente contro le forze del Patto di Varsavia. Un anticomunismo largamente presente nell’opinione pubblica, spaventata dalle manifestazioni di piazza e ancora memore dei disordini e delle violenze che avevano preceduto – e causato – l’avvento al potere di Mussolini. Quanto alla Chiesa, Pio XII non perdeva occasione per condannare dottrina e prassi del marxismo ateo e materialista.
Poi tre anni dopo lo stesso Feltri nella sua rubrica fissa sulla Stampa commenta i saluti romani di Acca Larentia e bonariamente li assolve col plauso compiaciuto del Tempo, il più meloniano dei giornali della cosiddetta destra o centrodestra che sia. Già che c’è feltrino prende l’occasione per un panegirico a Togliatti – la versione italiana di Beria – tanto per confermarsi uomo libero da pregiudizi o addirittura fuori dal coro; subito dopo si scaglia contro il “fascistissimo” Putin, che con l’argomento non c’incastrava nulla.
Eh no, non costa nulla sorridere dei saluti romani o rivolgere un deferente omaggio al “Migliore”; non costa niente e forse serve a tenere saldamente i piedi in due scarpe. Ma scagliarsi con un azzardato volo pindarico contro il “fascistissimo” Putin questo sì che serve, eccome; ti rimette in linea, ti rende inattaccabile e non metti a rischio il posto di mosca cocchiera del mainstream. Semmai ci sarebbe da chiedersi com’è che in un giornale composto come la Stampa si trascuri la circostanza che l’art. 297 del nostro Codice Penale reciti: “Chiunque nel territorio dello Stato offende l’onore o il prestigio del Capo di uno Stato estero è punito con la reclusione da uno a tre anni”. Ma in questo mondo incanaglito si dà per inteso che le leggi, e di leggi più ce n’è meglio è, sono armi da usare alla bisogna per mettere a cuccia gli avversari.
Il giornalista senza padroni, e a sentirli sono tutti senza padroni, è critico, con moderazione of course, con la Meloni, con la Schlein, ovviamente – escluso Travaglio – con Conte, e, fuori casa, col discolo Netanyahu; ma ci sono fili ad alta tensione che non vanno neppure sfiorati. Il primo è Zelensky, tanto indifendibile quanto intoccabile. Può aver avallato le peggiori menzogne, può essere palesemente responsabile del sistema di violenza e corruzione gabellato come legge marziale ma non si deve dire e, simmetricamente, guai spendere una sola parola a favore di Putin.
Se nel Donbass vengono scientemente bombardati edifici civili si lascia intendere che sono i russi a farlo, contando sulla circostanza che il pubblico non ricorda che nel Donbass ci sono proprio i russi, se a essere colpiti da missili sono civili nella città russa di Belgorod si tratta di legittima difesa ucraina (chi si difende notoriamente porta la guerra in casa di chi lo attacca). Il giornalista senza padroni recita la lezione impartita dai padroni del mainstream, che su questo tema non transige. Così come non consente che ci si facciano domande sul filo che collega lo smacco occidentale in Ucraina con l’esplodere della crisi israelo-palestinese e lo smacco di un mancato allargamento del conflitto – che i media davano per cosa fatta – con gli attacchi dei ribelli Houthi che rendono impraticabile il mar Rosso; Houthi diventati da un giorno all’altro una potenza temibile tanto da “costringere” gli angloamericani (toh, ritorna il vecchio collaudato binomio) a bombardare il regno yemenita (che, detto per inciso, è uno Stato sovrano). Ma di nuovo l’incendio rimane circoscritto, lo Yemen incassa e non reagisce e non ci resta che attendere dove i piromani collocheranno la prossima esca (in Pakistan?). Intanto per i media, per i giornalisti senza padrone, per lo sciame delle mosche cocchiere il problema è il blocco del traffico mercantile e guai sollevare la flebile obiezione: ma non era sufficiente, come succede ormai da decenni, scortare i cargo con una corvetta? No, ti dicono, non ci sono più semplici pirati ma una potenza militare con basi nello Yemen e al soldo dell’Iran.
Ma non c’è da qualche parte un cattivo maestro che rompa le uova nel paniere dei signori dell’informazione, che spazzi via le menzogne, le mezze verità, i sussurri a mezza bocca e che sia capace di dire pane al pane e vino al vino? le cui parole siano sì sì no no, perché quello che è in più viene da coloro che ci vogliono non servi ma morti viventi, spettatori inebetiti della preparazione di una catastrofe che mette a rischio il pianeta per salvare un sistema economico che ha le ore contate.
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Caro Lisorini, ho vissuto anch’io quegli anni ’70 che tu sinteticamente dipingi e concordo con te, non foss’altro perché io in quegli anni agitavo un ideale libretto verde, di contro al libretto rosso dei maoisti. Detto questo, vorrei fare solo un appunto laddove qualifichi La Stampa come un giornale “composto”. Devo aggiornarti: lo era, come lo era il “Corrierone”. Ma entrambi negli ultimi anni sono scivolati sempre più a sinistra; in particolare La Stampa, dopo che la direzione fu affidata all’ex redattore de La Repubblica, Massimo Giannini. Qui in Liguria La Stampa e il suo più locale Secolo XIX, sono i due quotidiani più letti, se ancora si può parlare di lettura dei quotidiani cartacei. Dopo Giannini, per la sua sempre più spiccata partigianeria, ho smesso di leggerlo. Requiescat in pace. La cosa strana è che -se sono aggiornato anche su questo- sono entrambi di proprietà degli Agnelli. Proprio vero che la sinistra è diventata l’ideologia ZTL.
Caro Giacinto hai perfettamente ragione; il mio “composto” voleva essere ironico e dovevo virgolettarlo. Gli Agnelli-Elkann sono stati una sciagura per l’Italia e anche per il giornale di famiglia. Poi c’è Travaglio che continua a scagliarsi contro Berlusconi anche da morto. Non ci sono parole.
PFL