Antonio Ricci

FENOMENOLOGIA DI UN SITUAZIONISTA INTEGRATO
Considerazioni sulla carriera “postmoderna”
di un geniale autore televisivo

FENOMENOLOGIA DI UN SITUAZIONISTA INTEGRATO
Considerazioni sulla carriera “postmoderna” di un geniale autore televisivo
 
Strana e imprevedibile può essere non solo la carriera di un libertino ma anche, e forse di più, la carriera di un brillante intellettuale che, da apocalittico quale era al suo esordio, si è cammin facendo tanto evoluto – o involuto, secondo i punti di vista – da diventare uno dei massimi agenti e programmatori “organici” dell’attuale spettacolarizzazione non tanto della società (impresa peraltro eccedente le facoltà anche del più geniale dei registi) quanto degli aspetti meno edificanti, o meglio degradati – per non dire trash – della società medesima, che mai come oggi può essere definita debordianamente “dello spettacolo”.

Eh sì, amici miei, perché l’ingauno Antonio Ricci è entrato nel mondo televisivo da giovane e creativo contestatore situazionista, ammiratore e seguace del pensiero di Guy Debord – al pari di altri liguri come i savonesi Carlo Freccero e Tatti Sanguineti, e il genovese Enrico Ghezzi –   prima alla Rai, nel 1979, con Fantastico – il fortunato varietà ideato e realizzato da Enzo Trapani (in cui, tra l’altro, ebbe il suo momento di popolarità il ballerino Enzo Avallone, soprannominato “Truciolo”) in qualità di coautore dei monologhi di un certo Beppe Grillo, ed è poi asceso ai fasti (e ai fastigi) dell’audience e del successo come autore di Drive In in onda su Italia 1, dal 1983 al 1988, quindi nel pieno del riflusso di quegli Anni Ottanta che hanno così profondamente inciso nel costume degli italiani, e che hanno preparato il terreno, oltre che a Tangentopoli, alla famosa “discesa in campo” del Cavaliere. Ora sarebbe fuori luogo (fuori orario?) disquisire quanto i media, e soprattutto l’onnipresente video, influiscono sui costumi (e sui consumi) e quanto i costumi influiscono sui media (e sui consumi), possiamo comunque tranquillamente affermare che,   se la televisione è stata definita “quinto potere”, qualche buon motivo ci deve pur essere.

Prendiamo proprio il caso di Drive In “il programma simbolo della cosiddetta rivoluzione televisiva italiana”, come scrive Massimiliano Panarari nel suo saggio L’egemonia sottoculturale. L’Italia da Gramsci al gossip, Einaudi, 2010: riprendendo lo schema sperimentato in precedenza da Gian Carlo Nicotra in altri varietà come Non Stop e La sberla dove i comici si alternavano senza la presenza di un presentatore, Ricci intensifica la velocità dei cambi di scena, inserisce monologhetti e spezzoni di film celebri, fa recitare in rapida successione le gag dei cabarettisti tra il pubblico, intervallati da brevi stacchi ballati e da spot pubblicitari che, dato il ritmo incalzante del montaggio, non disturbano più di tanto lo spettacolo, risultando anzi ancor più efficaci nel suggerire un determinato deodorante o aperitivo o digestivo. Ma il suo vincente colpo di genio fu lo sdoganamento dell’esibizionismo sessuale delle “ragazze fast-food” (e simmetrico voyerismo degli spettatori), antesignane delle veline, letterine e, ahimè, velone che imperverseranno negli anni   successivi negli “studi” Mediaset. Chi avrebbe mai osato interpretare così, in chiave kitsch, l’originario, destrutturante e demistificante détournement debordiano?

Ricci non è un autore complessato da anacronistiche pruderie, tanto più che il successo trionfale di Drive In “gli permette di sperimentare, seppur per breve tempo prima dei richiami da parte della proprietà, programmi come il cult Lupo solitario (1987), dove Syusy Blady si occupava delle notizie spettegologiche, preistoria di un genere, Matrjoska (1988), un record, con una sola puntata, L’araba fenice (1988), tutti andati in onda sul canale all’epoca più innovativo della Tv commerciale, Italia 1, e fitti di episodi tragressivi e situazionistici:

da ‘L’angolo della vergogna’, la rubrica tenuta in nude look e senza veli da Moana Pozzi, a un finto funerale (Iddio ne scampi!) di Silvio Berlusconi degenerato in una colluttazione scatenata dall’allora esordiente Gialappa’s Band nelle vesti di promoter di Publitalia.” Fu una breve ma intensa stagione sperimentale e, per quei tempi, ancora troppo osé; ma il dado era ormai gettato e, di trasgressione in trasgressione, Ricci perfeziona il suo stile fino a raggiungere le vette di Striscia la notizia, con l’invenzione del Gabibbo giustiziere, e delle Iene, con l’invenzione della consegna del Tapiro d’oro da parte dell’inviato Valerio Staffelli, “premio di consolazione o marchio d’infamia offerto agli uomini politici reduci da qualche rovescio o sconfitta. “ Questo sì che si chiama coraggio di dire la verità o “parresia”!

Non per niente Ricci avrà letto, da quell’intellettuale che è, oltre alla Società dello spettacolo di Guy Debord, anche Discorso e verità di Foucault, dove appunto viene spiegato come, per i Greci, per poter dire la verità, tutta la verità, era necessario possedere un’alta qualità morale, soprattutto quando si trattava di dirla in faccia a un tiranno, e il dirla poteva mettere in pericolo la propria vita. Fortunatamente oggi si può dire tutto a chiunque, purché sia detto come una battuta in una fiction televisiva o in un reality show. E Ricci lo sa bene: “Sovversione continua, antipolitica, parodia, irriverenza, controinformazione, comprensione concettuale profonda dei meccanismi di funzionamento della società dello spettacolo integrato e loro ineccepibile utilizzo: c’è tutto questo nel lavoro di superautore televisivo di Antonio Ricci. Altrettanti frammenti da un discorso situazionista messo al servizio di un disegno reazionario.”

Così sentenzia il severo Panarari. Ma in fondo, se oggi lo spettacolo del mondo si è trasferito dal mondo allo spettacolo, che cosa può fare di meglio un autore televisivo che spettacolarizzare lo spettacolo? Ha scritto Debord: “Lo spettacolo è il cattivo sogno della moderna società incatenata, che non esprime in definitiva se non il proprio desiderio di dormire”. Proprio come gli schiavi in fondo alla caverna nel famoso mito platonico. Non si pretenderà che sia un situazionista pentito e integrato, che in questa caverna ci si trova benissimo, a risvegliare gli schiavi del terzo millennio.

Fulvio Sguerso

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