ANDY WARHOL A MILANO

ANDY WARHOL A MILANO
In the future everyone will be world-famous for 15 minutes

ANDY WARHOL A MILANO

In the future everyone will be world-famous for 15 minutes”

           E’ ancora aperta e visitabile fino al prossimo 9 marzo (salvo eventuali proroghe) la bella e importante mostra “Warhol”, allestita a cura del Gruppo Sole 24ORE, al Palazzo Reale di Milano, che espone più di cento opere provenienti dalla collezione Peter Brant, amico dell’artista e mecenate, industriale della carta ed editore di riviste d’arte – che, appena ventenne, gli acquistò un disegno del celebre barattolo Campbell’s Soup, poi tante volte riprodotto –  e insieme al quale  partecipò all’intensa vita artistica e culturale di New York, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Andy Warhol, il cui vero nome era Andrew Warhola, è nato a Pittsburg nel 1928 da genitori slovacchi immigrati, ed è morto a New York nel 1987. Figura d’artista poliedrica e controversa (Jannis Kounellis lo ha definito “un idiota senza talento, un pubblicitario non un artista”) Warhol è comunque assurto a icona dell’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, del consumismo, della diffusione planetaria dei  mass media, dei grandi magazzini, di McDonald’s, della Coca Cola, della moda, del feticismo delle merci, della pubblicità, dell’industria culturale e del capitalismo finanziario. L’Enciclopedia Treccani online lo definisce una “personalità ossessiva ed eccentrica”, alludendo, immagino, al suo perfezionismo maniacale, al suo bisogno  di eccellere per non sentirsi una nullità (“Alcuni critici hanno detto che sono il Nulla in persona, e quasto non ha aiutato per niente il mio senso dell’esistenza. Poi mi sono reso conto che la stessa esistenza  è fatta anche di nulla, e mi sono sentito meglio”), alla sua ossessione per l’ordine e per la pulizia, al suo sguardo distaccato e apparentemente glaciale con cui osserva i fenomeni e le immagini della vita e del mondo in cui viviamo, per il suo “occhio fotografico” in grado di registrare senza alcun turbamento così un amplesso come un incidente mortale, tanto il volto di Marilyn  Monroe quanto uno scatolone di detersivo Brillo o una scarpa da donna in legno dipinto o una banconota da un dollaro moltiplicata per 192 volte,  o  la foto segnaletica di un condannato alla sedia elettrica o la sedia elettrica stessa riprodotta dodici volte (“Credo che mi manchi qualche sostanza chimica della responsabilità e qualcuna della riproduzione”).

 Quanto alla sua eccentricità caratteriale e sessuale basta guardare la serie dei suoi numerosi ed “eccentrici” auto-ritratti, fotografici o dipinti che siano,  per fugare ogni dubbio in proposito (“Avevo tanti impegni, ma ho deciso di restare a casa a tingermi le sopracciglia”). Certo è che la sua fama, già planetaria in vita come uno dei massimi, se non il massimo esponente della pop art, e le sue quotazioni sul mercato dell’arte, non hanno fatto che aumentare dopo la sua morte: recentemente uno dei suoi celebri dipinti-poster che riproduce, a vivaci colori, un grande ritratto di Mao, è stato venduto a un ignoto acquirente da Sotheby’s per 7, 6 milioni di sterline, pari a 9 milioni di euro circa. Scrive in catalogo il critico e curatore di grandi mostre Francesco Bonami: “Come Picasso, Warhol oggi è un marchio. In ogni mostra di Picasso  si scopre sempre quello straccio d’idea che è unica e geniale, illuminante. Ma se, per avere un Picasso, e non il migliore e solo il più caro, oggi si devono sborsare più di cento milioni di dollari, per avere un Warhol basta spendere venti dollari e qualcosa di Warhol, del suo spirito, della sua anima, si riesce a possedere. Un manifesto con la Marilyn di Warhol non è semplicemente un manifesto, bensì un frammento dell’idea originale che Warhol aveva dell’arte, della sua riproducibilità, della sua accessibilità”. Bonami ci dice, in sostanza, che le opere di Warhol nascono già per essere riprodotte in serie e immesse sul mercato mondiale dell’arte a prezzi stracciati per andare incontro alle masse; ma la cifra record raggiunta dal ritratto “ritoccato” di Mao di cui sopra non sembra proprio essere alla portata di chiunque (si mormora che  sia stato acquistato su commissione del comitato centrale del partito comunista cinese, al fine di toglierlo dalla circolazione e addirittura distruggerlo perché giudicato lesivo dell’immagine del Grande Timoniere!); può darsi che sia l’eccezione che conferma la regola, ma c’è da dubitarne, mi piacerebbe sapere il prezzo anche di uno  solo  dei ritratti fotografici in piccolo formato  di personaggi famosi esposti nella mostra milanese! No, più  che per essere riprodotte le opere di Warhol sono, per la maggior parte, esse stesse riproduzioni e rielaborazioni di fotografie (di attori come James Dean e Liz Taylor, o di cantanti come Elvis Presley, o di artisti amici come Jean-Michel Basquiat ), di immagini popolari tratte dai fumetti (come Dick Tracy, poliziotto integerrimo e leale, difensore dei deboli ma implacabile contro criminali e gangster) o di dipinti celebri (come l’Urlo di Munch, o la Monna Lisa e l’Ultima Cena di Leonardo), oppure veri e propri oggetti di consumo come i panini del McDonald o le bottigliette di Coca Cola, a proposito delle quali ha scritto: “Una Coca Cola è sempre una Coca Cola e non c’è quantità di denaro che possa farti comprare una Coca Cola più buona di qualla che l’ultimo dei poveracci si sta bevendo sul marciapiede sotto casa tua. Tutte le Coca Cola sono sempre uguali e tutte le Coca Cola sono buone. Lo sa Liz Taylor, lo sa il Presidente degli Stati Uniti, lo sa il barbone e lo sai anche tu”.


Come si vede Warhol mette sullo stesso piano immagini umili, immagini di gente famosa, immagini di opere d’arte, immagini simboliche come la grande $ del Dollar Sign e immagini mortuarie come quelle della serie dei Disaster e degli Skull (Teschi).  Così come l’obiettivo di una macchina fotografica o di una cinepresa non distingue uno stile da un altro per Warhol non c’è uno stile migliore di un altro: “questo o quello stile, questa o quella immagine dell’uomo non fa nessuna differenza”. Nel senso che l’industria culturale, a cui l’arte di massa (o meglio, per la massa) appartiene, non si pone problemi di stile, o etici, o pedagogici (caso mai retorici, per reclamizzare al meglio i  suoi prodotti), e la pop art intende fotografare e interpretare la condizione esistenziale dell’uomo-massa contemporaneo così come si presenta, senza abbellimenti o sentimentalismi. Giusto.

E tuttavia una differenza fondamentale tra le immagini dell’uomo è diventata ineludibile anche per Warhol, ed è la differenza che passa tra un uomo vivo e un uomo morto; di questa differenza ha fatto esperienza, è  il caso di dire, sulla sua propria pelle: il 3 giugno del 1968, la scrittrice e regista undergound, Valerie Jean Solanas, che frequentava la famosa Factory. autrice di un manifesto rivoluzionario in cui muove accuse feroci alla società patriarcale e, come soluzione, prospetta nientemeno che l’eliminazione del maschio, irrompe armata di pistola nel suo atelier al 33 di Union Square, e  spara a lui colpendolo al ventre, e al suo compagno di allora, Mario Amaya, ferendolo di striscio. Warhol fu dato per morto, i medici dovettero praticargli diversi massaggi cardiaci per rianimarlo. Uscito dal coma rimase un mese e mezzo in ospedale e poi potè riprendere la sua attività, ma di sicuro non era più lo stesso di prima, e per il resto della vita fu ossessionato dal timore che la Solanas, contro la quale si rifiutò sempre di testimoniare,  potesse di nuovo tentare di ucciderlo. Nel 1987, dopo aver allestito la mostra The Last Supper (l’Ultima Cena) a Milano, il 22 febbraio decide di farsi operare di calcoli alla cistifellea, di cui soffriva da tempo,  al New York Ospital. L’intervento riuscì bene ma, nella notte, pare a causa di una dose eccessiva di sedativo, Andy Warhol muore per collasso cardiocircolatorio,  a 59 anni.

FULVIO SGUERSO

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