ALLA RICERCA DEL PRINCIPIO
ALLA RICERCA DEL PRINCIPIO
NOTE IN MARGINE AL LIBRO DI VITO MANCUSO, IL PRINCIPIO PASSIONE, GARZANTI; 2013)
|
ALLA RICERCA DEL PRINCIPIO (NOTE IN MARGINE AL LIBRO DI VITO MANCUSO, IL PRINCIPIO PASSIONE, GARZANTI; 2013) PARTE PRIMA Che cosa significa la parola “principio” (dal latino principium, accusativo di princeps, cioè ‘primo’)? Troviamo una risposta nel secondo paragrafo del Principio passione, là dove l’autore, seguendo il pensiero di Friedrich Daniel E. Schleiermacher (1768 – 1834) che “collega la religione non alla storia, come avviene di solito in Occidente, ma, scendendo più in profondità, alla natura, alla logica dellUniverso, di cui egli invita a intuire il principio”, tratta, appunto, del principio dell’Universo: “Inizio e principio non sono la stessa cosa, già il latino significativamente distingueva initium da principium. La differenza si coglie rispondendo alle seguenti domande: – qual è l’inizio dello Stato italiano? – qual è il principio dello Stato italiano? Nel primo caso la risposta è una data, il 1861, l’anno della fondazione dello Stato unitario. Nel secondo caso la risposta è una legge, la Costituzione della Repubblica, entrata in vigore il I° gennaio 1948. L’inizio quindi rimanda a un punto del tempo, il principio invece è una sfera di valori; l’inizio rimanda alla storia, il principio alla filosofia”. E qui si potrebbero citare titoli di opere famose come Il principio speranza di Ernst Bloch (1959), e Il principio responsabilità di Hans Jonas (1979); in senso filosofico, infatti, può significare tanto idea originaria, criterio da cui discende un sistema di concetti e su cui si basa un’argomentazione o una teoria, quanto massima, norma generale, valore etico fondamentale. “Il principium – osserva ancora Mancuso – si distingue dal mero initium perché non è solo ciò da cui si origina un fenomeno, ma è anche la meta ideale verso cui tende il fenomeno nella sua evoluzione: è cioè la forma che sottostà da sempre al fenomeno perché esso sia tale e che, qualora venisse meno, lo farebbe decadere”. Nel significato di “principio” è dunque compreso anche quello di causa, quello di origine e quello di meta o finalità ideale di un fenomeno: si intravede qui la tipologia aristotelica delle cause: la materiale, che riguarda appunto la materia di cui un ente è fatto; la formale, cioè il modello o l’essenza di un ente o di una cosa; l’efficiente, cioè la causa che produce un ente; la finale, cioè il fine (il “telos”) per cui un ente è stato prodotto. La scolastica medievale, e, in ispecie, Tommaso d’Aquino, insieme ad altre cause minori e secondarie, dirette e indirette, univoche ed equivoche, aggiunse la “causa prima”, necessaria a reggere la struttura fisica, logica e mirabilmente ordinata e armoniosa del cosmo, in cui tutto si interconnette e si tiene insieme, a dimostrazione evidente della sapienza e della gloria di Dio Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, e di tutte le cose visibili e invisibili – cioè di tutti gli esseri spirituali e materiali: angeli (e i demoni chi li creò?), esseri umani, animali e piante – come enuncia il Credo (o Simbolo) niceno-costantinopolitano. Secondo il Magistero e il Catechismo della Chiesa Cattolica, il principio primo, la causa prima e la causa finale, l’Alfa e l’Omega dell’universo, è lo stesso Dio, unico in tre persone (Padre, Figlio e Spirito Santo) che ha creato dal nulla (ex nihilo) e liberamente, cioè non costretto da nessuno, “con sapienza e amore l’universo. Vito Mancuso
Il mondo non è dunque il prodotto di una necessità, di un destino cieco o del caso. Dio ha creato dal nulla un mondo ordinato e buono, che egli trascende in modo infinito. Dio conserva nell’essere la sua creazione e la sorregge, dandole la capacità di agire e conducendola al suo compimento, per mezzo del suo Figlio e dello Spirito Santo”. Così il Catechismo, dove appare evidente la preoccupazione di escludere ogni casualità e ogni negatività dal mondo creato. Tutto chiaro dunque? Lo sarebbe se non constatassimo continuamente il disordine, la violenza, l’ingiustizia, il dolore e la sofferenza (soprattutto degli innocenti) che rendono questo mondo più simile a un inferno che al Regno o alla Città di Dio, inteso come un monarca buono, paterno e illuminato. E’ questo un caso in cui la ragione umana o si arrende con umiltà davanti ai misteri della fede o si arrampica invano sugli specchi cercando di spiegarsi l’inspiegabile. Ma allora che senso ha domandarsi qual è il principio di tutto quello che esiste? O magari mettere in dubbio che ci sia un principio unico, o addirittura che ci sia un principio qualsiasi? Porsi queste domande significa passare dal Catechismo, o dall’apologetica, alla ricerca filosofica che, al giorno d’oggi, non può non tener conto dei risultati, anche se provvisori, della ricerca scientifica. Inoltre, che senso ha per la nostra vita quotidiana e per le nostre scelte comportamentali, affaticarsi intorno a questioni così astratte, lontane e inafferrabili dal nostro comune percepire? “Schleiermacher – argomenta Mancuso – affermava che ‘avere religione significa intuire l’Universo’, significa cioè scoprire quale ‘principio’ lo muove, il che porta a considerare che la religione, con la vita spirituale che essa dischiude, è una modalità particolare di percepire e interpretare la vita del mondo”. Ora, se questo è vero – e Mancuso non ne dubita – interrogarsi sul principio dell’Universo è tutt’altro che una questione astratta o trascurabile per il pensiero e per la nostra stessa vita, “anzi, si potrebbe dire che il compito principale del pensiero consiste proprio nel fornire una risposta al riguardo, ripetendo, con Eraclito, che ‘un’unica cosa è la saggezza, comprendere la ragione per la quale tutto è governato attraverso tutto’. Il pensiero deve avere fiducia in se stesso…”. E quindi può e deve cercare la causa originaria che ha “messo in moto questa stupefacente organizzazione di energia e di materia che è il mondo, che al presente la fa sussistere impedendole di sprofondare nel caos e nel futuro costituirà la meta del suo immenso lavoro”. Mancuso, qui, enuncia in sintesi la sua convinzione e la sua tesi del “lieto fine” non solo della storia universale ma di tutta la vicenda evolutiva dell’universo, dal Big Bang alla conflagrazione e dissolvenza finale dello spazio-tempo nell’infinità senza più spazio né tempo dell’eterno presente che sempre era, è, e sarà, a che i credenti chiamano Dio. Nondimeno sull’inizio e sulla fine dei tempi, come sul principio e sulla legge (o logos) che governa il cosmo e, quindi, anche gli enti che questo cosmo contiene, tra i quali noi, effimeri esseri mortali, non ci sono e non ci possono essere certezze assolute; perché nessuno, che non sia un paranoico, può presumere “di raggiungere la certezza del sapere, perché nessuno, quanto al mondo e al suo principio, dispone del sapere necessario”. Va bene che oggi la potenza della tecnica e delle “macchine intelligenti” o dell’“intelligenza artificiale” è tale da superare in misura enorme e sempre crescente le nostre capacità “naturali” di calcolo, di memoria, di attenzione, di resilienza e di raccolta delle informazioni utili e della loro trasmissione pressoché immediata da un punto all’altro del pianeta; ma nessun super o megacomputer può fornirci informazioni esatte sulla durata e sull’evoluzione futura della vita su questa terra, o su come la stessa natura umana si trasformerà con l’uso sempre più pervasivo e invasivo degli strumenti elettronici di comunicazione, o sull’estensione esatta dell’universo, o sulla durata e sugli esiti finali della sua espansione. Siamo in presenza di “un groviglio di dati, alcuni sicuramente esatti allo stato attuale delle conoscenze, altri probabilmente esatti, altri solo ipotetici, altri che ieri erano esatti, oggi non più e domani chissà, tutti in ogni caso irriducibili nella loro totalità a un sistema compiuto e quindi tali da impedire ogni pretesa totalizzante della mente”. Per quanto vaste possano essere le nostre conoscenze, saranno sempre conoscenze parziali e approssimative, non potremo mai conoscere tutto, sarebbe come pretendere di contenere il contenente che ci contiene. “E’ la situazione di sempre al cospetto della questione sul principio dell’Universo, non a caso già Aristotele osservava: ‘Sulla questione se ci debba essere un unico principio, o se debbano essere molti, e quanti, e sulla loro specie, non tutti dicono la medesima cosa’ (Metafisica, I, 3, 983 B). Per questo la risposta sul principio dell’Universo dipende non solo dalla ragione ma anche e soprattutto dal sentimento, dal modo in cui ognuno sente la vita, dall’emozione vitale che ognuno si porta dentro, dalla disposizione di fondo rispetto all’esistenza e dalla pratica di vita che ne consegue”. E qui si affaccia uno dei temi conduttori dell’intero trattato: l’inseparabilità, nell’attività del comprendere, del ricercare e del conoscere umano di ragione e sentimento, di intelletto e passione, di logica e di ispirazione. Non si conosce mai niente in astratto, cioè in modo impersonale, come se si potesse guardare il mondo da nessun luogo: ogni nostra visione (e, in questo caso, ogni nostra “cosmovisione”) è pur sempre condizionata da un particolare punto di vista, da una precisa situazione esistenziale, da una determinata tonalità emotiva. Insomma, la pura oggettività cognitiva e “scientifica” è una chimera; quanto poi alla pluralitò e diversità delle visioni del mondo e della vita nel passato, Mancuso cita l’ebreo Qohelet, autore dell’omonimo libro dell’Antico Testamento, la cui filosofia di vita è molto più vicina al greco Epicuro e al latino Lucrezio che non all’ebreo Siracide, o il libro dei Proverbi, il cui autore sembra più uno stoico che un israelita, ecc. Ma a questo punto si apre una delle questioni teorico-pratiche fondamentali relative alla natura del principio dell’Universo, che riguarda tanto il pensiero antico quanto il moderno e il contemporaneo, e cioè: l’Universo ha uno scopo, è costruito, formato organizzato in vista di un fine già prefissato fin dalla sua origine, o invece è solo frutto di aggragazioni, disaggregazioni, combinazioni, incontri e scontri casuali di elementi, di atomi, di particelle, di molecole, di cellule, di geni? Ad esempio: “per il fisico Steven Weinberg l’Universo risulta del tutto assurdo (‘quanto più l’universo ci appare comprensibile, tanto più ci appare senza scopo’), mentre per il fisico Freeman Dyson esso è perfettamente sintonizzato per produrre la vita e l’intelligenza (‘quanto più lo esamino e studio i particolari della sua architettura, tanto più numerose sono le prove che l’Universo, in un certo senso, doveva già sapere che saremmo arrivati. Nelle leggi della fisica nucleare ci sono alcuni esempi molto singolari di coincidenze numeriche che paiono essersi accordate tra loro per rendere l’ambiente abitabile…”. Meccanicismo contro finalismo, evoluzione casuale contro “disegno intelligente”, natura cieca, indifferente o persino ostile a noi miseri mortali, o previdente e provvidente, in vista della vita e della sua conservazione e riproduzione, a nostro uso, consumo e piacere? Il capitolo finisce con le “obiezioni” dell’autore a queste due posizioni estreme. Ma di questo dirò nella prossima puntata. FULVIO SGUERSO |