Alcune note su “So l’ora in cui la faccia più impassibile” di Eugenio Montale
So l’ora in cui la faccia più impassibile
è traversata da una cruda smorfia:
s’è svelata per poco una pena invisibile.
Ciò non vede la gente nell’affollato corso.
Voi, mie parole, tradite invano il morso
secreto, il vento che nel cuore soffia.
La più vera ragione è di chi tace.
Il canto che singhiozza è un canto di pace.
Faccia, non viso e non volto. Anche se Montale avrebbe potuto optare proprio per uno di questi ultimi termini di registro più elevato.
Una scelta necessaria a conferire un sapore più crudo all’espressione del verso, che infatti ci conduce alla “cruda smorfia” di quello successivo in modo naturale, con binari già predisposti.
Tuttavia possiamo ancora aggiungere qualcosa riguardo una tale scelta lessicale, rilevando come essa sia in grado di impostare (e tanto più in una poesia in cui la brevità non ammette orpelli) la tonalità di fondo che ci guida nella lettura. “Faccia” è parola da cui deriva “facciata”. E anche di questo si vuol dire nella lirica: di faccia come facciata.
Un legame del genere non sarebbe stato possibile con viso o volto. Vediamo:
“s’è svelata per poco una pena invisibile”
cioè, si è svelata (e dunque c’era qualcosa che la faccia nascondeva sotto la facciata) e ha reso da invisibile a visibile il viso, finalmente scoprendolo, sia pure con “una cruda smorfia” e “per poco”.
La faccia è impassibile. Che non significa la nonchalance del gentleman britannico; ma la maschera plautina che esprime sulla cartapesta sentimenti seriali, tanto accentuati da piegare le labbra all’insù o all’ingiù nella fissazione del riso e del pianto. Ma appunto, sulla cartapesta e per la rappresentazione.
La faccia è il sembiante, ovvero quello che deve sembrare alla gente offerto “nell’affollato corso”.
Ora, cosa significa che la gente che andiriviene non si accorge del mutare da faccia a viso? Mutazione che si presenta in un qualche momento anche a chi ha sempre cercato di convincersi che per vivere bastasse continuare ad essere la gente, distaccandosene solo quel tanto di deviazione standard utile per parlarne come del volgo altro da sé?
Significa che ogni singolo individuo ha bisogno della gente per trarsene (tentare di trarsene) fuori chiamando gente il resto del mondo. E il corso è l’immagine migliore per dare l’idea di questo andare senza una meta, avanti e indietro; perché gli altri, altrettanto senza punto d’arrivo, fanno così. Ovvio che in un una situazione in cui la cosa più importante è mostrare di andarsene “sicuro, / agli altri ed a se stesso amico”, la smorfia di chi si è inabissato per un attimo nella verità deve solo traversare il volto, non restargli addosso a dare prova della scoperta di una dimensione scomoda, isolante e disgregante, che improvvisamente espellerebbe l’individuo dal sentirsi come gli altri.
Ma “traversata” è un vocabolo scelto da Montale anche per altro; per un motivo meno concettuale e più connotativo. Richiama il”trafitto” del “trafitto da un raggio di sole”.
Involontariamente, visto che “Ed è subito sera” è posteriore. In questa lirica di Quasimodo si è trafitti perché ciò che è bello si perderà senza quasi avere il tempo di essere assaporato. In “So l’ora…” non si tratta più della felicità che si perde, perché il raggio è la luce tutt’altro che salvifica della verità che traversa (nel senso forse più proprio di trapassa) il volto, deformandolo. La pena invisibile si è svelata per poco, sicché non viene riconosciuta da quella folla che il protagonista non riconosce a sua volta più come la moltiplicata parte di sé, e lui sta con “il nulla alle mie spalle / il vuoto dietro / di me, con un terrore da ubriaco.”
Una situazione insopportabile e che non si vuole sopportare. Così si rassetta la casa, perché ci saranno ospiti; e per farlo bisogna ricorrere ad uno schermo, dove si riproduce in modo solo bidimensionale la vita, e manca la terza dimensione: la profondità.
Quello di “So l’ora…” è un sentire complesso, ma ci sono pochi dubbi che sia prima di tutto e soprattutto esistenziale, e solo di rimando sfiori il tasto della morale, intesa come autenticità di rapporto con gli altri.
In questa casa ricomporremo il volto ancora un poco stravolto dalla “pena invisibile” al fine di evitare domande imbarazzanti perché non si saprebbe come rispondere:”Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto / alberi case colli per l’inganno consueto.”
Che le ultime citazioni siano tratte da “Forse un mattino andando” non è una digressione inopportuna; infatti tra tutti gli “Ossi”, questo è quello che forse maggiormente si avvicina, fino ad intrecciarsi, con la poesia commentata. E non solo per ciò che si è evidenziato. Basti dire che le due liriche potrebbero considerarsi come due…facce…della stessa medaglia. Cosa che si scopre soprattutto dalla sinossi dei seguenti versi:
“[…] ed io me n’andrò zitto / tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto”
messi a confronto con
“La più vera ragione è di chi tace”.
E dunque dove sta la radice comune tra quanto citato da “Forse un mattino andando” e “So l’ora…”?
Nella dichiarazione dell’inefficacia della parola? Non c’è dubbio. Ma c’è di più e di almeno altrettanto importante. C’è che scrivere “me n’andrò zitto […] col mio segreto” e “La più vera ragione è di chi tace”, portano ad un silenzio che in realtà è pìetas per l’alter. Anzi, è un doppio segreto: un segreto che non si riesce a dire, ma che se si fosse in grado di dire, si sceglierebbe di tacere. Sono due sigilli: uno di disperazione, e l’altro d’amore.
Ne deriva che in questo quadro, “vera ragione” è da intendersi “giusta, compassionevole”.
Vediamo che con la seconda strofa, il contenuto lascia il registro della confessione per arrivare a trarre delle conclusioni, per mezzo di un tono che nei due ultimi versi sfiora la sentenza, e la rimarca con la rima tace / pace: “La più vera ragione è di chi tace / Il canto che singhiozza è un canto di pace”.
Sappiamo ormai che per trovare il significato di questi versi è necessario cercarlo negli altri due che li precedono, dove il poeta rivolgendosi con un dialogo muto alle sue parole (“Voi, mie parole…”), sembra accusarle con un “tradite” che ha invece da essere inteso in senso etimologico, ossia nel senso di “trasportate”, “traducete”.
E allora, se ricomponiamo il tutto alla luce di questo verbo liberato dalla sua ambiguità, la parafrasi che potrebbe alla fine offrirsi come declinazione fedele all’intenzione dell’autore reciterebbe:
“Voi, mie parole, comunicate invano il tormento scoperto e coltivato in me; esso mi opprime come un vento che soffia imprigionato nel cuore, senza potersi liberare e dichiarare con il suo impeto la verità. Sarebbe meglio tacere, allora; ma lo scrivere versi fallimentari, che certo non riusciranno a trasfondere negli altri se non in vaghi frantumi l’affanno del mio animo, sarà almeno testimonianza del desiderio del cuore di andar loro incontro”.
Un’altra lettura profonda ed “empatica” come solo chi ha antenne poetiche e scandagli filosofici come te è in grado di formulare. Di nuovo complimenti sinceri..