Alcune note su “La farandola dei fanciulli sul greto” di Eugenio Montale

La farandola dei fanciulli sul greto
era la vita che scoppia dall’arsura.
Cresceva tra rare canne e uno sterpeto
il cespo umano nell’aria pura.

Il passante sentiva come un supplizio
il suo distacco dalle antiche radici.
Nell’età d’oro florida sulle sponde felici
anche un nome, una veste, erano un vizio.

Forse non proprio una farandola, cioè un girotondo a ballo, ma semplicemente un gioco comune, chiassoso, vivace.
Essa richiama, per allitterazione, ma soprattutto per i colori della combinazione di fanciulli e vita, prima che una danza, un oggetto: la girandola: spicchi di carta variamente colorati che roteano, e anche in mancanza di vento prendono a frullare, perché il vento viene creato dalla corsa di chi tiene il bastoncino della girandola in mano.
E correre nell’aria stagna e statica, senza brezza alcuna, diventa un allegro sberleffo all’ordine stabilito dalla natura di quell’ambiente così ostico.
Il tutto nell’incoerenza del greto del torrente. Un posto poco ospitale data la sua conformazione di bordo accidentato e ruvido, fatto di ciotoli ed erbe irsute, come sono tutti i greti, per loro stessa natura in lotta continua con la corrente e con le secche.
Non gli acquitrini, non i residui paludosi frequenti delle golene, ma solo il netto accostarsi di acqua e polvere, reale nella natura, ma illogico, contrastante, e di per sé pochissimo plausibile.
Anche il reiterarsi (12 evenienze nella prima strofa, non per nulla descrittiva del luogo) della lettera “r”, tra le più dure e graffianti dell’alfabeto, ce lo suggerisce stridente esplicitando il concetto collegato a “greto”, e ribadendolo nei versi successivi, quando si parla di “arsura”, “rare canne” “sterpeto”. E in modo implicito, perfino “cespo” (la piccola pianta che cresce qua e là, isolata, dove riesce a ritagliarsi a fatica uno spazio vitale).
“La vita, quella del cespo umano, è la stessa che scoppia dall’arsura e cresce tra “rare canne e uno sterpeto”. Come dire che la vita ai bambini è possibile così come (e lì dove) è possibile alle canne, che la fatica del crescere ha reso rare; e allo sterpeto, che la fatica del crescere ha reso povero di foglie e frutti, e ricco di stecchi e spine.
L’arsura che parrebbe portare morte, porta invece vita. C’è il tentativo dell’arsura di interrompere il flusso della vita, ma il termine “scoppia” ci dice che un tale tentativo se non riesce provoca il suo contrario, cioè addirittura vitalità.
A tal proposito a corollario concettuale lascio intrufolare alcuni versi di Bruno Tognolini che paiono copiare la stessa lunghezza d’onda quando scrive:

Il caldo stordisce la pietra e la serpe
Il mondo si toglie le scarpe
E cammina scalza nel corpo che suda
La vita che è nuda.

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In fondo Montale prova una sorta di gratitudine per quell’impasto fatto di calura, aridità, sole impietoso. E’ l’aiuto, forse il solo possibile, che ha per comunicare il suo male di vivere.
Un correlativo che se a volte è messo in risalto tramite la ricaduta che esso ha su altri oggetti più specifici, altre volte fa da sfondo ed assume perciò un’importanza ancora più marcata, perché tutto è in esso e per esso. Basso fondamentale, direbbe Schopenhauer, della vicenda del mondo e degli umani.
Il paesaggio degli “Ossi”, lo sappiamo, è quello delle Cinque Terre. Ma Montale ha bisogno, per renderlo veramente parte del suo paesaggio interiore, di prosciugare persino il mare, trasformandone le onde in scaglie, ed enfatizzandone la caratteristica della salinità, quasi che la microscopica geometria dei cristalli prevalesse per quantità sull’acqua che li contiene, e il mare fosse perciò innanzitutto salso solido e amaro prima che liquido.
Le sue onde-lame sguainate, pronte ad opporsi a chi lo pensasse una via d’uscita, condannano costui ad appartenere alla “razza di chi rimane a terra” e lo privano della speranza di trovare nel mare la porta socchiusa sull’ “ultimo segreto”.
Il luogo isolato, prostrato dalla calura, troppo compresso da un sole impietoso, è la molla che fa scattare (scoppiare) il gioco collettivo, le grida, la felicità inconsapevole e insensata di bastare a se stessa. Senza cause, senza fini.
Esso, forte di quella stessa forza delle poche canne che hanno voluto testardamente sopravvivere e di quello sterpeto, che ancora non cede, richiama la figura della serpe. Lei, spoglia come solo una serpe può essere tra tutti gli animali, a volte spoglia anche della sua stessa pelle, non nominata ma presente a necessario completamento di un quadro essiccato, nascosta (casualità o necessità poetica dei termini?) nello s(t)erpe(to), dichiara l’esistere per quello che è, alla luce spietata del sole.
Elemento quest’ultimo ambivalente, perché portatore di una sofferenza che tutto coinvolge, e a “lettere di fuoco”, come si legge in un’altra celeberrima poesia di Montale, dichiara inguaribile la malattia dell’anima; impietosamente, senza ombra, appunto, di dubbio, dimodoché l’anima “risplenda come un croco / perduto in mezzo a un polveroso prato.”
Cosa che non tocca il vivo gioco dei fanciulli, i quali non si lasciano sfiorare dalla verità che le cose attorno prédicano. Anzi, sembrano ad essa così impermeabili che quasi la negano, o meglio la mettono da parte, fino a che venga ripresa, anni dopo, nella pensosa maturità, da uno di loro che passa e in ognuno di loro si vede, e che in essi stenterà a riconoscersi benché sappia di essere stato anche lui una foglia di quel cespo umano che cresceva nell’aria pura.
Un cespo, adesso, cui sono state tagliate le radici.
Il passante (meno casualmente, l’uomo che passa) non riesce ad essere colui che si libera della nostalgia distogliendo lo sguardo, ad essere il pellegrino antinfernale ammonito dal maestro-guida a proseguire, senza indugiare col pensiero su coloro, colorati dalla voce e dalla danza, che lui è stato e che, ruota del tempo, saranno lui.
La stessa distanza che vi è tra il passante e le sue radici di allora, c’è tra il passante e i fanciulli della farandola di ora; ed è un supplizio certo.
Tutta la lirica è fondata su un duo oppositivo, dove la visione oggettiva è dell’uomo che passa, e quella soggettiva dei fanciulli in girotondo.
Ciò che oggettivamente fissa lo sguardo dell’adulto, è il greto; ciò che fissa soggettivamente in quanto bambino di allora che si rivede in loro, bambini di adesso, è la sponda felice. E così l’aria pura è l’arsura, e il crescere tra sporadiche canne e gli sterpi è l’età d’oro florida.
Il cespo umano è indifferenziato in una coralità spontanea, quasi un accordo segreto e naturale di snobbare, fino a che le stagioni che si avvicendano e il mondo degli adulti non imporranno la loro legge di individuazione, con un nome, una veste (un habitus, uno status) e tutto l’altro che la società richiede all’assegnazione di un ruolo.
Dopo, il ritmo disordinato e chiassoso del canto del gioco e della danza, dovrà fatalmente smettere di avere “in gran dispitto” il messaggio di desolazione offerto, paradossalmente, da quegli elementi, il sole, il calore e la luce, che nella poetica di tanti altri autori sono salvifici o quantomeno consolatori, e ad assuefarsi ad un nome e una veste. E , insomma, al vizio dell’ “inganno consueto”.

FULVIO BALDOINO

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