Alcune note su “Gloria del disteso mezzogiorno” di Eugenio Montale

Gloria del disteso mezzogiorno
quand’ombra non rendono gli alberi,
e più e più si mostrano d’attorno
per troppa luce, le parvenze, falbe.

Il sole, in alto, – e un secco greto.
Il mio giorno non è dunque passato:
l’ora più bella è di là dal muretto
che rinchiude in un occaso scialbato.

L’arsura, in giro; un martin pescatore
volteggia s’una reliquia di vita.
La buona pioggia è di là dallo squallore,
ma in attendere è gioia più compita.

“E più e più”. Questa inusuale locuzione per riuscire a dare l’idea iterativa di uno sguardo che si spinge a più riprese oltre per avere la conferma che davvero questa è l’ora del trionfo del mezzogiorno, del suo distendersi e imporsi per ogni dove.
E gli alberi che non proiettano luce, e il giallo opaco e sgranato che tinge le cose e, si starebbe per dire, le rende parvenze, l’idea la danno.
Tuttavia, a ben vedere, anche se l’atmosfera che il poeta vuole trasmetterci è questa, bisognerebbe aver coscienza che “le parvenze” non sono tali per effetto del mezzogiorno che dilaga la sua secchezza e la sua afa di canicola.
Le parvenze appaiono falbe per la troppa luce, ma non appaiono parvenze per la troppa luce. Sono parvenze. Si mostrano nella loro essenza.
Montale non le individua in quanto cose che la luce con la sua forza rende meno definite trasformandole in oggetti incerti tra l’inganno e il miraggio.
Esse semmai nel quadro in cui sono inserite, dimostrano con la massima chiarezza, senza titubanze simboliche (il correlativo oggettivo è altra cosa dal simbolo) di essere a pieno titolo quelle, proprio e solo quelle.
Sono parvenze non perché dietro nascondano una loro verità, ma perché la loro verità dalla parte di qua della muraglia “che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia” è davvero spudoratamente quella che si vede, senza…ombra di dubbio.
Perché, allora, l’uso di un termine sviante come “parvenze”?
Perché prima l’ombra ne testimoniava la consistenza fisica, e questa a sua volta ne faceva presumere una di consistenza ontologica; ora, in quest’ora in cui il sole è allo zenit, ogni cosa schiaccia l’ombra sotto di sé; e di sé, ricambiata, non dà niente al mondo circostante.
Così riesce a dimostrare il nulla e il vuoto.

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L’ombra dunque a rappresentare la morte nel topos della tradizione; qui, invece, a rappresentare la traccia (mancante) di vita.
E’ come se l’autore ci dicesse che fino a quando gli oggetti generavano ombra, si poteva sperare che quest’ultima fosse il segno esteriore di qualcosa ancora nascosto, una possibile salvezza. Ma quando i raggi sono a picco sono altresì spietati nell’illuminare e nel “chiarire” la situazione temporale della realtà, la più valida rispetto alle altre delle altre ore del giorno per fissare la relazione ontologica dell’incontro di essa realtà con lo spirito dell’uomo.
Non ci sono più lati oscuri che mettono dinnanzi alla fatica di affrontare il mistero, ma che nello stesso tempo gratificano con la speranza che quel mistero apra ad un senso, ad un significato.
Senza di esso, paradossalmente, gli enti, nella loro esatta illuminata nudità, non allungano la loro identità, scura quanto si vuole, attorno a sé, ma restano su di sé incartati, privi di sinapsi spirituali che leghino o colleghino, relazionino, coinvolgano, diano consistenza.
In essi non c’è nulla che somigli a una ragione, e, verrebbe da dire, purtroppo neanche ad un torto. Qualcosa che dia adito ad un sentimento: amore, rabbia, malinconia, paura…
“Parvenze”: l’essere del nulla, o, a scelta, il nulla dell’essere.
Questo vede il poeta nella troppa luce.
Nella seconda strofa una nota minimalista alla, anche questa inusuale, doppia punteggiatura, una virgola seguita immediatamente da un trattino.
Che tipo e che quantità di pausa vuole indicare?
Un più canonico punto e virgola non poteva andare bene?
Una spiegazione potrebbe trovarsi nel fatto che la virgola serve per concludere l’inciso: “Il sole, in alto,” mentre il trattino serve per contrapporre, come in una bilancia a doppio piatto, le quattro parole a sinistra con le quattro a destra, le quali ultime sarebbero la conseguenza necessaria delle prime in una sorta di breve deduzione logica: se c’è il sole in alto, allora ecco il secco greto (in basso).
Conferma di ciò la si ha confrontando questo stesso 5° verso al 9°:

“Il sole, in alto, – e un secco greto” rispetto a “L’arsura, in giro; un martin pescatore”.

Identica la struttura, ma stavolta il binomio virgola e trattino, viene sostituito da un unico segno di punteggiatura: il punto e virgola canonico. Infatti non c’è come prima da sottolineare la dipendenza del secondo termine: “un secco greto”, dal primo: “Il sole, in alto”, in quanto il martin pescatore non dipende dall’arsura che c’è in giro.
La differenza interpuntiva, dunque, è perché nei versi 8 e 9 si descrive; nel verso 5 invece si traggono delle conclusioni.
Sempre nella seconda strofa, si rileva la difficoltà creata dal verbo transitivo “rinchiude” usato intransitivamente. Unica difficoltà a interrompere un testo sostanzialmente scorrevole.
Montale ha potuto farlo confidando nella collaborazione del lettore a sottintendere un complemento oggetto congruo: me. Cioè, alla fine: che mi rinchiude in un occaso scialbato.
Quel che dobbiamo chiederci è perché egli non abbia fatto ruotare in modo esplicito il verso attorno al verbo inteso, come sarebbe stato normale, transitivamente. E le ragioni sono due. Una di ordine metrico: il verso sarebbe risultato ipèrmetro; e una di ordine concettuale: il messaggio di ritrovarsi rinchiuso da un muretto “in un occaso scialbato” vale erga omnes, lo si sappia o no. Quindi non “che rinchiude me” (o “che mi rinchiude”) in un occaso scialbato, ma “che rinchiude”. E ce n’è per tutti.
Veniamo all’ultima quartina. Vi compare un martin pescatore, uccello che in effetti è presente nella fauna delle Cinque Terre. Ma con tanti altri. Perché la scelta che sia proprio lui che “volteggia s’una reliquia di vita”? Sono state avanzate due ipotesi.
1) Egli tradizionalmente annuncia la pioggia, evocata poco dopo, nell’11° verso.
2) E’ una citazione d’annunziana in quanto il suo vero nome è alcione (il Vate preferì “alcyone” mantenendo la più aristocratica “y” del nome greco), come testimoniato dalla terminologia scientifica di Alcedo atthis (ad evitare equivoci: anche il gabbiano, in special modo quella particolare famiglia a cui appartengono gabbiani marini di grandi dimensioni, viene spessissimo, ma in modo improprio, indicato con questo nome).

Ne aggiungo due io in maniera augurabilmente non azzardata:

3) L’alcione, con il suo piumaggio così vivace e colorato, non arreso a farsi, come tutto il resto, falba parvenza, rappresenta l’esempio a cui affidarsi, in ciò apparentato nella scenografia al pascoliano “passero saputo [che] in cor già gode / e il tutto spia dai rami irti del moro”, e nel messaggio a “La ginestra” leopardiana, dato che egli ha individuato una preda la quale non è niente più di una “reliquia di vita”, ma gli basta per sopravvivere all’oggi e prepararsi al domani. E’ lì e volteggia in attesa del momento più propizio per carpirla, e già pregusta il frutto della sua caccia come si pregusta il frutto della “buona pioggia” che è “di là dallo squallore”.
4) E’ una citazione di Gozzano, altro padre nobile del Nostro, dalla poesia “L’assenza” in cui il martin pescatore guizza in “un bagliore / d’acceso smeraldo, di brace / azzurra”.

E’ evidente che queste ipotesi in larghissima parte si integrano, e ciò rende ancora più opportuno da parte del poeta l’aver riconosciuto proprio in questo uccello il catalizzatore di una stratificazione di significati i quali convivendo o, almeno, coabitando, testimoniano lo spessore del testo. La cui conclusione non si cura di farci sapere se la reliquia di vita del 12° verso è un animale vivo (la poca vita che ancora si aggira nell’ambiente circostante), morto (come dovrebbe essere secondo l’étimo più rigoroso, che la vuole una carcassa o una parte di animale avanzata, un rimasuglio), o un animale che ha ancora un residuo di vita perché sta morendo.
Però “reliquia”, ha anche un significato sacrale storicamente a mano a mano acquisito e approdato alla sfera religiosa, le reliquie essendo limitate ormai a quelle dei beati e dei santi. In tal senso l’espressione “reliquia di vita” pare attribuire alla vita un’importanza che per il martin pescatore è chiaramente solo alimentare, ma che reinterpretata dal poeta, altrettanto chiaramente assume una valenza di rispetto ontologico.
Al di là dell’enfasi posta su un modo o l’altro di valutare la presenza di questo unico essere davvero vitale nel testo, si nota l’ammirazione mista a stupore del poeta per questo uccello variopinto, che lotta ignaro della sua lotta eroica. Determinato, risoluto.
Ultimo a combatterla, da solo, nel sole e nel sale.

FULVIO BALDOINO

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One thought on “Alcune note su “Gloria del disteso mezzogiorno” di Eugenio Montale”

  1. Un altro prezioso e originale contributo agli studi montaliani , che unisce alla precisione filologica i riferimenti esatti al significato filosofico di quel particolare momento del giorno e della vita, meglio, dell’attesa della vita piena che è ancora (sempre?) “di là dal muretto”. Se fosse al di qua, che senso avrebbe più la vita? Grazie a Eugenio Montale e a Fulvio Baldoino per avercelo ricordato., non per niente due poeti di ascendenza leopardiana.

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