Alcune note su “Debole sistro al vento” di Eugenio Montale

Debole sistro al vento
d’una persa cicala,
toccato appena e spento
nel torpore ch’esala.

Dirama dal profondo
in noi la vena
segreta: il nostro mondo
si regge appena.

Se tu l’accenni, all’aria
bigia treman corrotte
le vestigia
che il vuoto non ringhiotte.

Il gesto indi s’annulla,
tace ogni voce,
discende alla sua foce
la vita brulla.

Le ultime tre strofe non fanno altro che spiegare la prima, e la prima non si comprende se non si è a conoscenza di cosa sia un sistro.
Perciò ci premuriamo di definirlo servendoci del lemma relativo a vocabolario:
Sistro: “Oggetto rituale di bronzo o di più nobile metallo, caratteristico del culto egiziano della dea Iside, che ne era considerata l’inventrice e che lo aveva perciò (così come i suoi sacerdoti, sacerdotesse o fedeli) come attributo; nella forma tipica (ne esistono numerose varianti), consisteva in una lamina a ferro di cavallo, con fori per il passaggio di asticciole mobili trasversali (3 o 4), ripiegate all’estremità, e con manico dritto assicurato alla base, agitando il quale le asticciole, urtando contro la lamina, producevano un suono”.
Ma non è comunque sufficiente. Serve anche sapere che funzione avesse.
E allora dobbiamo aggiungere come esso, tra le altre cose, facesse parte del cerimoniale per il culto della dea Iside affinché propiziasse la resurrezione dei defunti.
Orbene, qui siamo in presenza di una persa cicala, il cui frinire si dissolve nel vento.
Lei, anzi lui, poiché solo i maschi producono il verso che si sente nella campagna e che è un richiamo d’amore per la femmina, osa appena intonare il suo canto, soffocato da quel misto di calura e sonno che dà il torpore e che costituisce una barriera acché la voce della cicala venga percepita e accolta e la salvi dalla solitudine e dall’abbandono.
Appena, s’è detto, quasi en passant. Invece dobbiamo soffermarci su questo avverbio perché occorre mostrare che ritiene in sé un significato sia modale (lievemente) che temporale (fugacemente).
Si può optare per l’uno o per l’altro o, ancor meglio, per un significato dato dalla miscela di entrambi.

Si constaterà il collegamento con l’ottavo verso, dove si regge appena sta a testimoniare il minimo di quantità di sussistenza accordato. Infatti il verbo “esala” individuato per la sua semantica di solito legata ad un contesto di morte, rende l’idea che Montale vuole trasmetterci, ovvero della preghiera che si eleva alla divinità (se ci fosse), che custodisce il mondo dei morti nell’al di là (se ci fosse), e che, se ne aprisse le porte, sarebbero anche le porte della verità (se c’è).
E quindi il poeta è sacerdote, intermediario fragile con i suoi versi che vorrebbero convincere con il vibrare tinnente del sistro, la dea-luna ad esser luminosa e a far chiaro il suo regno fin oltre la notte. Il canto del poeta nasce dal profondo della sua mente, come quello della cicala dal profondo misterioso del suo corpo.
Non si può non pensare, in termini intertestuali, all’ “Assiuolo” di Pascoli:

[…]
Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento;
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento

(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?…)
e c’era quel pianto di morte…
chiù…

che Montale sicuramente qui tiene presente: c’è il vento e ci sono i sistri, e le cavallette che ricoprono la medesima funzione della cicala.

Parimenti, in termini questa volta intratestuali, si può cogliere una certa similarità, metrica e tonale ancor più che contenutistica, variamente accavallata tra prima e seconda strofa di “So l’ora in cui…”:

[…]
s’è svelata per poco una pena invisibile.
Ciò non vede la gente nell’affollato corso.

Voi, mie parole, tradite invano il morso
secreto, il vento che nel cuore soffia.
[…]

con l’intera prima metà di “Debole sistro…”:

[…]
toccato appena e spento
nel torpore ch’esala.

Dirama dal profondo
in noi la vena
segreta: il nostro mondo
si regge appena.
[…]

La cicala, da sempre allegoria del canto come espressione del sentimento immediato, spontaneo e persino improvvido, ci induce a riflettere su cosa rappresenti un poeta e su cosa sia il suo dire che si perde nel vento, come per destino.
Egli lo sa, ma non può fare lo stesso a meno di creare i suoi versi.

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Perché, come tutte le cose che nascono nel profondo (Dirama dal profondo / in noi la vena / segreta) anche le più inani, i versi hanno diritto alla loro epifania; ma sa anche che si disperderanno, riassorbiti dal silenzio.
Quest’ultimo è la conseguenza dell’ascolto che manca, ma più della riluttanza a dichiarare che il nostro mondo / si regge appena [per poco, a fatica].
In altra sua lirica Montale sarà più drastico e definitivo: il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro / di me.
E allora ecco rivelarsi una paradossale dialettica per cui il nulla è identificabile sia nel nostro vivere in e di superficie, dove non si respira niente, sia nell’esatto suo contrario, la profondità del vero poeta, dove si respira il niente.
A dirla, questa verità, si provoca la rovina. Un accenno ed è già troppo: l’aria si farebbe grigia, pesante, pulviscolo metaforico di cenere che del reale risparmia solo tracce incerte, calchi infedeli.
A che dunque lottare con il vento? Il tintinnìo del sistro si ripete come un’ossessione, e la risposta manca.
Forse al fondo di tutto sta la scoperta che è meglio smettere la domanda, e lasciare che la vita faccia ciò che comunque farebbe: spoglia di senso giungere alla sua foce, quindi sboccare al mare in cui per Montale tutto muore e, questa l’unica speranza (non è detto benefica), da cui tutto rinasce.

FULVIO BALDOINO

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2 thoughts on “Alcune note su “Debole sistro al vento” di Eugenio Montale”

  1. Caro amico, anzitutto grazie per queste tue analisi stilistico-filosofiche dei testi montaliani che proponi ai lettori di “Trucioli savonesi” di domenica in domenica, e che sono diventate quasi un appuntamento settimanale con l’opera di uno dei più grandi poeti del Novecento, non solo italiani. Il testo che commenti oggi è ricco di echi pascoliani , come hai puntualmente osservato, e anche dannunziani (“nel torpore che esala”), oltre che, come sempre, leopardiani, soprattutto riguardo alla concezione della parola poetica (come anche della musica e dell’arte in genere) come ultimo schermo ed estrema difesa contro il nulla e la morte. Molto acuta e pertinente la notazione sull’anfibologia dell’avverbio “appena”, che non per caso compare due volte nel testo. Avverbio sempre attuale e tanto più oggi, che il nulla e la morte ci sembrano ancor più incombenti in questi tempi bui (Brecht).

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