Alcune note su “Cigola la carrucola del pozzo” di Eugenio Montale

Cigola la carrucola del pozzo,
l’acqua sale alla luce e vi si fonde.
Trema un ricordo nel ricolmo secchio,
nel puro cerchio un’immagine ride.
Accosto il volto a evanescenti labbri:
si deforma il passato, si fa vecchio,
appartiene ad un altro…
Ah che già stride
la ruota, ti ridona all’atro fondo,
visione, una distanza ci divide.

Il cigolìo è già un segno di allerta.
Uno stridore che ammonisce sulla tenuta che ciò che si sta eseguendo possa andare a verificarsi senza che qualcosa ceda.
E’ una lirica che fin dall’inizio ci mette in allarme e ci induce a trattenere il fiato.
Sembra che accada la cosa più normale: appare un secchio ricolmo d’acqua, e questa si fa limpida per la luce che la colpisce una volta raggiunto il bordo del pozzo. Quindi la sorpresa non sta lì, ma nel ricordo che si materializza in un’immagine che ride.
Dopo il primo, che ci aveva allertati, i versi dal secondo al quarto sembrano cambiare rotta.
Tutto in essi parrebbe dirigersi nel senso della positività. Il secchio, che per essere “ricolmo” richiama una cornucopia alma e strabordante, per cui ciò che porta è un’immagine che quasi vorrebbe continuare la sua ascesa, venir fuori, e staccarsi dallo specchio del puro cerchio in cui è imprigionata-offerta, e andare oltre, verso l’alto, verso l’altro; quell’altro in attesa nell’al di qua per salvarla dalla morte con un bacio che le risusciti vita.
Il cerchio, figura perfetta, a ribadire, confermandola, l’idea di purezza-salvezza.
E a compimento, l’altro verbo: ride.
In tre versi, tutto sembra contribuire a un esito fausto.

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Ma la poesia ha un brusco scarto dal quinto endecasillabo, un cambio di direzione che non muterà più fino alla fine.
Anzi, per quanto alla prima lettura quel “ride” che conclude il breve inserto idilliaco possa sembrare un elemento che in termini di felicità induca ad un esito positivo, col senno di chi è alla seconda lettura si capisce che il ridere dell’immagine prepara la distanza che divide dichiarata alla fine del testo.
Se l’immagine sorridesse, dovrebbe sorridere al poeta; ma ride. E siccome si ride per qualcuno, o di qualcuno, ma non si può ridere a qualcuno, ella ride indipendentemente da lui. Per fatti passati che lo escludono, che al passato per sempre appartengono, che non si possono condividere.
E’ così che egli constata di essere un intruso che credeva di essere un ospite.
Quelle labbra non sono per lui; e se non fosse che quella è l’immagine di un amore, o lo stigma di una profonda “eredità d’affetti”, quasi parrebbe schernirlo con lo svanire proprio nel momento del bacio, lasciando che siano per paradosso proprio le labbra del poeta che sfiorano la superficie dell’acqua, a constatare drammaticamente che è, appunto, una banale insulsa superficie, un inesistente spessore.
In esso sprofonda l’illusione non appena la bocca, lambendolo, intorbida e increspa quello specchio e il volto ridente viene disperso in minuscole onde concentriche.
Il ricordo che aveva preso forma sfuggendo al passato, si deforma, e si perde. Perché il passato è il suo sito decreto, e là è costretto a ritornare a causa dell’amante che ora si piega amoroso su allora.
Non come Narciso che nella sua immagine muore, non come la Bestia che col bacio della Bella si libera, non come Amore che salva Psiche dal sonno perpetuo, ma piuttosto come Orfeo che condanna Euridìce e se stesso.
E intanto la ruota del tempo già stride (oltremodo geniale la triade di rime: ride, stride, divide), “ti ridona all’atro fondo”, cioè al nero luogo che ha opposta collocazione, ma medesimo tono psicologico ed esistenziale del poeta.
Quell’immagine che ora viene risucchiata nel regno dei morti, forse, non più disturbata dal bacio che ha interrotto la continuità del velo d’acqua, a sua volta non più perturbata, nello scendere a mano a mano nelle viscere della terra e nelle viscere dell’acqua, si ricompone, riprende a ridere, in una scena un po’ luttuosa e un po’ grottesca.
E’ invece il vero volto del poeta, che in alto, nella luce, immaginiamo deformarsi in una smorfia, sconvolto perché messo di fronte ad una realtà dissolta per sempre, ora che la ruota del tempo, inesorabile, ha sancito che quel viso era una visione.
Ed egli, la voce narrante protagonista di questa breve vicenda circolare, chiusa con un secchio che restituisce al fondo quanto dal fondo ha per un istante sottratto, resta solo con se stesso, svuotato, a rimproverarsi di aver ceduto all’illusione e con un grumo dentro che non sa ancora delineare. Quando ci riuscirà, scriverà: “Tu non ricordi la casa di questa / mia sera. Ed io non so chi va e chi resta”.

FULVIO BALDOINO

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