Addio al quartiere Fornaci

Addio Fornaci
 Morte sociale di un quartiere-1

 Addio Fornaci

Morte sociale di un quartiere-1

 

Ho vissuto nel quartiere Savona Fornaci dalla nascita, tranne un breve periodo appena sposata. Mio padre era orgogliosamente fornacino, mia nonna ebbe un negozio in via Saredo per più di mezzo secolo.

Perciò ho visto accadere tutte le trasformazioni, dagli anni ’60 ad oggi.

 Non voglio farne un discorso viziato dalla nostalgia, dal ricordo dei “bei tempi” o simili. Sono cresciuta nel periodo del boom edilizio, in cui il quartiere fu sconciato a forza di case popolari e non, tirate su alla bell’e meglio, senza troppo rispetto non dico dell’armonia urbanistica, ma neppure delle distanze fra i palazzi. Poi vennero i casermoni di lusso sul mare. Insomma, non è che allora porcherie edilizie non se ne facessero, anzi, c’è da dire che c’era meno sensibilità in proposito e nessuno protestava.

Però almeno avevano uno scopo: dare casa alle persone, appunto, che agli inizi del boom ne avevano bisogno. Non come ora, che si pensa al costruire fine a se stesso, tanto la speculazione i suoi soldi se li rifa’ , indipendentemente dal risultato e dalle cattedrali deserte nel deserto. Finora, almeno. In seguito, al peggiorare della crisi, non si sa. I segnali già si vedono.  

Diciamo quindi che il mio è un discorso non particolarmente intriso di  sentimentalismi. Piuttosto un paragonare epoche diverse, con pregi e difetti.

Il quartiere Fornaci era del tutto peculiare a Savona: vissuto come una borgata, un paese a sé dove tutti si conoscevano. (E magari si mugugnavano dietro, perché siamo dei gran selvatici brontoloni).

Una borgata con i suoi precisi punti di riferimento e i suoi simboli: la farinata “ Spurcacciunn-a”, locale tipico ora divenuto mega hotel ristorante sul mare, i negozietti, la sede del “partito” , detto così per antonomasia, essendo chiaro che si intendeva il PCI,  la Società di Mutuo Soccorso Serenella con il suo profondo carico di storia solidale, la parrocchia di N.S. della Neve, e il cuore di tutto, lo scaletto dei pescatori. In seguito vennero anche le elementari, le XXV aprile.  Tutte queste realtà collaboravano, collegate fra loro in una armonia creativa. Ricordo feste sulla spiaggia, politiche e religiose, stand gastronomici, iniziative solidali, mostre, attività con i bambini, … A fasi alterne, con momenti di maggior fervore e altri di stanca.

Quando mia figlia iniziò la scuola,  feci in tempo a vedere un bel periodo, in cui questa vita di quartiere ancora si percepiva, portava allegria, sinergia fra i gruppi e fra le età.

Ma eravamo negli anni ’90. Sul nostro Paese si stava abbattendo il cataclisma del berlusconismo, una mentalità simile a un Attila che non lascia nulla alle sue spalle, soffermandosi a fare a pezzi, con disprezzo, ogni traccia di solidarietà, di comunità civile, tutto ciò che si opponga a un frivolo e avido individualismo consumista. E nulla vuol dire proprio nulla: la peggior colpa di questo strisciante lavaggio del cervello, di questo quasi ventennio che ripete in farsa la tragedia di quell’altro ventennio, è di aver distrutto anche ogni criticità, ogni opposizione consapevole, creandosene una a proprio uso e consumo, immagine e somiglianza, capace di ripetere in peggio le sue gesta, che arriva a farci rimpiangere l’originale.

A poco a poco ci siamo rintanati nelle case con le nostre tv, i nostri mille cellulari e tutti i gadget per scimmiottare le figure oltre lo schermo.

Il  sociale, il tessuto urbano di un quartiere, è come una pianta, che se non la curi nei modi e nei tempi giusti, se appena la dimentichi un attimo, avvizzisce.

 Vediamo cosa accade alle scuole, spogliate dai tagli e circondate da assembramenti di inutili SUV nelle ore canoniche, del “partito”, catturato da tutte le trasformazioni pds ds pd con calo vertiginoso di presenze fino a disarmo sede per affitto troppo alto; osserviamo impotenti lo scempio dello scaletto raso al suolo col pretesto del rifacimento, distruggendo la memoria e il senso del passato, la SMS coi suoi alti e bassi, più che altro di ristorante, sempre meno ritrovo di famiglie e anziani.

 Trasformazioni. Anche piccoli segnali positivi, come la raccolta fondi per le scuole, sponsorizzata nei negozi – pochi e sempre più in difficoltà – con manifesti realizzati dai bambini, che riattiva un minimo di senso sociale, o i tentativi di riproporsi e diversificarsi delle offerte commerciali e artigiane.   

Però, nel frattempo, al posto di molti negozi vediamo spuntare appartamentini a pianterreno. Da vendersi a caro prezzo in relazione alla metratura, come seconde case al mare, investimenti per affittare, o abitazioni di ripiego per chi non ha troppi soldi da investire.

Stessa sorte ha seguito, e qui si dovrebbe aprire un capitolo a parte, uno stabile storico di via Saredo, di proprietà delle Opere Sociali. Cioè, lasciti a suo tempo per beneficenza, per dare case a chi ha bisogno. Sfrattati, per fortuna con calma e rispetto, gli inquilini, venduto il palazzo, queste case ristrutturate sono in vendita, al solito, per fare cassa. I nuovi proprietari hanno realizzato una ristrutturazione con il tipico frazionamento.

La tendenza è che, in cambio di opere che portano a risparmio energetico, si debba frazionare per guadagnare di più. In pratica, ciò che dovrebbe essere condizione necessaria e imprescindibile per tutte le ristrutturazioni ed edificazioni, nel nostro sistema distorto a uso e consumo dei costruttori, si fa apparire come un lusso estremo che fa lievitare i costi e le aspettative di guadagno. Vale per le case ex-Enel alla foce del Letimbro, e vale per questo palazzotto. Si prendono case popolari e le si trasformano in residenze di lusso. Mai più torneranno a essere quel che erano, cioè residenze pensate per chi non aveva troppi mezzi, un sacrosanto ammortizzatore sociale, una risposta a un chiaro bisogno dei cittadini. Si aggiungeranno invece al già folto ammasso di edilizia sovrabbondante.

Dice: ma proprio per contenere i costi e renderli comunque accessibili, si fraziona.

Infatti ci spiega la nota di una agenzia immobiliare i “monolocali e bilocali (sono) tipologie molto richieste ma poco presenti sul mercato. “

Ma sono accessibili, questi prezzi? Sempre la stessa nota ci informa che, dalle parti di via Saredo (non so se si riferisca al palazzo di cui sopra, ma suppongo di sì), “il prezzo di un monolocale nuovo è di 150 mila euro, quello di un bilocale è compreso tra 200 e 220 mila euro. “

La nota completa è visibile… qui:

Un affarone alla portata di tutti. Perfettamente acquistabile dal tipico inquilino di casa popolare. Oppure, se comprata da qualcuno che vuole investire un gruzzoletto, l’inquilino di cui sopra non avrà alcuna difficoltà a pagare minimo 500 euro al mese per un comodissimo bilocale.

Dato che poi, mentre le case popolari scarseggiano, questo tipo di offerta comincia ad abbondare, nel ristrutturato, sono destinati a lievitare gli alloggi vuoti di pura speculazione, seconde o terze case, e l’invenduto.

Quanto stazionano, ormai, i cartelli VENDESI, fuori da queste costruzioni?

Ai tempi del boom edilizio una casa era già praticamente tutta venduta prima ancora di essere completata. Perché, bella o brutta che fosse, serviva a dare alloggio alle nuove famiglie.

Ora no, ora le famiglie, le persone, sono praticamente cacciate fuori dai quartieri in cui sono nate e vissute, se questi sono ambìti, come è il caso delle Fornaci, e costrette ad esiliarsi altrove, in zone più a buon mercato, lasciando al loro posto distese di case semivuote. Dove i palazzi non interessano alla speculazione, cominciano a deteriorarsi, perché i proprietari non hanno i soldi per la manutenzione.

In compenso si parla tanto, adesso, in fregio al nuovo PUC, di social housing ed edilizia convenzionata. Naturalmente, ça va sans dire, in più, consumando sempre nuovi spazi via via che quelli esistenti sono lasciati o al degrado o al rifacimento pseudolusso.

E’ questa la tendenza. Ed è qui, secondo me, che si consuma il nodo anche politico: perché non è difficile pensare che questa edilizia sociale divenga l’alibi o la giustificazione, da parte delle sinistre, per consentire nuove inutili costruzioni speculative mercanteggiando questi spazi.

Così si continua lo scempio di una città e lo sperpero di territorio, con questa dubbia real politik di corto respiro. Presto, con la crisi, come ho detto in Consiglio Comunale, dopo l’invenduto inizieremo ad assistere anche all’incompiuto.

Ma torniamo alle Fornaci. Di quelle realtà locali che accennavo prima, ho lasciato fuori la Parrocchia. Infatti merita un discorso a sé. Alla prossima.

Milena Debenedetti, consigliere Movimento 5 Stelle Savona 

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