Qualcosa sulla ventiquattresima Operetta: “Dialogo di Tristano e di un amico”

E’ opportuno per offrire una chiave di lettura di questa Operetta, l’ultima delle 24 che compongono il libro delle “Operette morali” e che perciò assume in qualche misura il sapore di un testamento intellettuale e spirituale, riportare un brano della lettera scritta da Leopardi a Luigi De Sinner nel maggio del ’32:

“[Les hommes ] qui ont besoin d’être persuadés du mérite de l’existence, que l’on a voulu considérer mes opinions philosophiques comme le résultat de mes souffrances particulières, et que l’on s’obstine a attribuer à mes circonstances matérielles ce qu’on ne doit qu’à mon entendement. Avant de mourir, je vais protester contre cette invention de la faiblesse et de la vulgarité et prier mes lecteurs de s’attacher à détruire mes observations et mes raisonnemens plutôt que d’accuser mes maladies”.

ovvero:

” [ Quelli ]  che hanno bisogno di credere al valore dell’esistenza, hanno voluto considerare le mie concezioni filosofiche come il risultato delle mie sofferenze personali, e si ostinano ad attribuire alle mie circostanze materiali ciò che non è dovuto ad altro che al mio giudizio. Prima di morire, io denuncerò questa invenzione della fragilità e della volgarità e chiederò ai miei lettori di impegnarsi a sconfiggere le mie osservazioni e i miei ragionamenti invece di ridurli a conseguenze delle mie malattie”.
[ Traduzione mia ]

E’ una chiave di lettura che aiuta alla comprensione di una tematica del testo. Una, appunto, non l’unica.
Quali poi siano le mentite spoglie di Leopardi è chiarissimo anche dal nome, Tristano, con un richiamo all’étimo più che allo sfortunato eroe di Cornovaglia, essendo l’altro, l’amico, poco più di una comparsa che con le sue domande sempre molto brevi, assolve al compito di offrirgli il destro per risposte articolate, che parlano della propria persona, della società, del mondo, e di come il suo sguardo di filosofo libero e disperato li giudica e li affronta.
L’ironia, esclusa l’ultimissima parte che corrisponde all’ultimo conclusivo intervento del dialogo, pervade tutto il testo.
E siccome su di essa è costruito, anche le primissime battute hanno la funzione di acclimatarci ad un registro diffuso, che solo sporadicamente lascia spazio a tonalità diverse e comunque non incongrue:

Amico – Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro solito.

Tristano – Sì, al mio solito.

Amico – Malinconico, sconsolato, disperato; si vede che questa vita vi pare una gran brutta cosa.

 Tristano – Che v’ho a dire? io avevo fitta in capo questa pazzia, che la vita umana fosse infelice.

 Amico – Infelice sì forse. Ma pure alla fine…

Tristano – No no, anzi felicissima. Ora ho cambiata opinione. Ma quando scrissi cotesto libro, io aveva quella pazzia in capo, come vi dico. [ … ]

Una pazzia perché, pazzamente, egli credeva che i lettori non trovando convenienti le sue osservazioni, le volessero scansare, o oscurare, o ignorare, o tacitare, o nascondere, ma non mai negarne la verità.
Credeva, insomma, che per rendere meno fastidiosa una cosa reputata a torto o a ragione fastidiosa, non fosse normale e condiviso dire che non era vera.
Poi tornò in sé, e capì che invece il normale era che la verità dell’uomo stava nel credere non il vero, ma quello che è o pare più a proposito suo.

Il genere umano, che ha creduto e crederà tante scempiaggini, non crederà mai né di non saper nulla, né di non essere nulla, né di non aver nulla a sperare.

Non aveva capito ( che ingenuità! ) come spesso la speranza sia figlia della paura e forse più ancora della paura di trovarsi a dover un giorno ad aver paura.
E poiché la realtà ha bisogno di tanto coraggio per essere presa così com’è, la codardìa degli uomini la trasforma, fino a piantare nel fondo dell’animo le radici delle credenze in ciò che serve a consolarli e a compensarli per la sorte inemendabile e barbara cui non riescono a trovare assuefazione, mancando del coraggio necessario ad affrontare il deserto della vita e le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera.
Utile, se la dignità ha dell’utile da offrire, a strappare dalle mani del destino umano quel velame di false promesse di cui si ammanta e dietro il quale si cela. 
Tutto ciò parlando degli inganni non creati dall’immaginazione, ma dell’intelletto; che anzi gli inganni dell’immaginazione sono forse i soli veri medicamenti, purché li si voglia mantenere appunto immaginari e pertinenti alla sfera di un dolce, desto sognare, in cui la speranza è la realtà piacevole di ingannarsi che governa l’inganno senza lasciarsene governare.

Tristano dalla riprovazione e dal rifiuto di queste sue idee, fu indotto a pensare che fosse per il loro apparir nuove e quasi sacrileghe, tanto che egli stesso, avendole sentite nascere dal profondo, le sentiva parimenti intime a un punto tale da ritenerle solo sue, impareggiabili e imparagonabili, come accade per ogni grande lutto e per ogni grande amore.
Ma peccava, in questo, di un non invidiabile orgoglio.
Si ricordò dei poeti e dei filosofi e saggi del passato il più remoto, e gli risuonarono nella mente i versi, i motti, gli insegnamenti e le sentenze di chi diceva che l’uomo è il più miserabile degli animali, che è meglio non nascere, che i cari agli Dei periscono in giovinezza… E insomma, dopo aver chiuso gli occhi per pensare, quasi che in quel pensare si fosse addormentato, quando li riaprì comprese di non essere il solo ad aver guardato in faccia la disperazione, e, per quanto possa esser di sollievo, a trovarla in Omero, in tanti filosofi dell’antichità, e in scrittori famosi o pressoché sconosciuti ma onesti e sinceri, e nei proverbi di Salomone il Giusto, i quali tutti, in un modo o nell’altro, avevano ripetuto o confermato le medesime dottrine.
Se ne meravigliò in sulle prime, e poi si meravigliò di essersene meravigliato perché applicandosi ancor più a questa materia, trovò che l’infelicità dell’uomo era un errore sedimentato dell’intelletto, e che la felicità della vita era perciò una delle grandi scoperte del secolo decimonono; e nel riconoscere l’errore che aveva commesso, alla nuova secolare opinione s’accodò e in quella s’acquetò.

A coronamento del discorso, una marcatura, se possibile, ancora più ironica ( e tuttavia non ben intesa dall’ingenuo interlocutore ) secondo cui sarebbe assurdo contrastare le verità del suddetto secolo perché scoperte nel… secolo decimonono che, in quanto tale, è di per sé una garanzia: in esso in sostanza si vede, com’è naturale, quello che non si vedeva nei secoli bui perché… erano bui.

Poi un brano che ci rassicura sulla spietata oggettività di pensiero di cui è capace Leopardi il quale, con fervore nicciano, inaspettatamente per parte di chi come lui dal corpo non ha avuto un occhio di riguardo, si lancia nell’elogio proprio del corpo, dal cui vigore dipenderebbero le passioni, la magnanimità, la potenza di godere e di fare, la salute anche della mente sulla scorta del “mens sana in corpore sano” latino, e insomma tutto quanto rende nobile e viva la vita. Tanto da assimilare il corpo ontologicamente all’uomo, e dire che colui il quale fosse debole di corpo, non sarebbe un uomo ma un bambino destinato a veder gli altri vivere e a constatare, prima o poi, che la vita non fa per lui.
Tenuto lontano dalla vita educandone prima e soprattutto lo spirito anziché il corpo e cioè la sua parte metafisica anziché quella fisica, per l’uomo moderno in seguito non v’è stato né tempo né modo di recuperare la condizione ideale che avrebbe permesso di costruire i grandi sistemi del pensiero e della morale invece di, assuefatto all’astrattezza dello spirito, camparli in aria.
Ma per riprendere l’ironia serrandone le fila, conclude così il suo ragionamento:

Ad ogni modo io non mi lascio muovere da tali piccole obbiezioni, credo costantemente che la specie umana vada sempre acquistando.

Amico – Credete ancora, già s’intende, che il sapere, o, come si dice, i lumi, crescano continuamente.

 A siffatta sintesi-deduzione dell’amico, Tristano mostra di acconsentire con un discorso il quale, ridotto all’osso, recita che tra gli antichi erano in pochi a sapere molto, mentre tra i suoi contemporanei, in molti a sapere poco.
Un discorso piuttosto scoperto, in cui a Tristano non serve più schermarsi ( e schermirsi ) con l’ironia per dire delle verità senza tuttavia deludere eliminando l’illusione di un’idea di progresso incarnata e sviluppata dai tempi nuovi.
Gli basta alla fine sostenere, per ribilanciare un ragionare altrimenti contraddittorio, che le riflessioni alquanto critiche appena fatte erano una sorta di esercizio retorico, e forse sofismi, perché

quando anche vedessi il mondo tutto pieno d’ignoranti impostori da un lato, e d’ignoranti presuntuosi dall’altro, nondimeno crederei, come credo, che il sapere e i lumi crescano di continuo.

All’amico a questo punto non par vero di potersi agganciare ( di nuovo senza mettere la cosa sotto forma di domanda, che sarebbe renderla un poco dubbiosa ) con un’altra ingenua sintesi-deduzione:

In conseguenza, credete che questo secolo sia superiore a tutti i passati.

Tristano – Sicuro. Così hanno creduto di sé tutti i secoli, anche i più barbari; e così crede il mio secolo, ed io con lui. [ … ].

Amico – In somma, per ridurre il tutto in due parole, pensate voi circa la natura e i destini degli uomini e delle cose ( poiché ora non parliamo di letteratura né di politica ) quello che ne pensano i giornali?

Tristano – Appunto. Credo ed abbraccio la profonda filosofia de’ giornali, i quali uccidendo ogni altra letteratura e ogni altro studio, massimamente grave e spiacevole, sono maestri e luce dell’età presente. Non è vero?

Amico – Verissimo. Se cotesto che dite, è detto da vero e non da burla, voi siete diventato de’ nostri.

E invece è detto da burla e non da vero.
Tristano infatti, constatato che la normale ironia non viene colta, passa all’antifrasi, di quella la forma più elementare e ruvida. Utile a testare se chi ascolta non sa o non vuole capire.

 Tristano – Sì, certamente, de’ vostri.

 A questo punto l’amico crede di poter rivolgergli la domanda che ha tenuto in serbo, perché prima doveva accertarsi che senza ritrosie e incertezze Tristano potesse entrare a far parte di quel guppo ideale che si potrebbe denominare genericamente degli ottimisti:

 Amico – Oh dunque, che farete del vostro libro? Volete che vada ai posteri con quei sentimenti così contrari alle opinioni che ora avete?

A Tristano non pare di doversi preoccupare dei posteri, perché di fronte all’imporsi delle masse nel concetto dei pensatori moderni, l’individuo da lì a poco non sarà più considerato e riconosciuto, ma avrà senso solo in quanto costitutivo di esse e in quanto ad esse funzionale.
Più strettamente legando il discorso al libro e ai posteri, Tristano snocciola alcuni pensieri che per icasticità assumono una loro autonomia aforistica, e sostiene che

[ … ] i libri specialmente, che ora per lo più si scrivono in minor tempo che non ne bisogna a leggerli [ … ], siccome costano quel che vagliono, così durano a proporzione di quel che costano.

E [ … ] questo secolo è un secolo di ragazzi, e i pochissimi uomini che rimangono, si debbono andare a nascondere per vergogna, come quello che camminava dritto in paese di zoppi.

E In tutti gli altri [ secoli ], come in questo, il grande [ uomo ] è stato rarissimo; ma negli altri la mediocrità ha tenuto il campo, in questo la nullità.

Finalmente l’amico ha un sussulto intellettuale:

Voi parlate, a quanto pare, un poco ironico. Ma dovreste almeno all’ultimo ricordarvi che questo è un secolo di transizione.

Tristano – Oh che conchiudete voi da codesto? Tutti i secoli, più o meno, sono stati e saranno di transizione, perché la società umana non istà mai ferma, né mai verrà secolo nel quale ella abbia stato che sia per durare. Sicché cotesta bellissima parola o non iscusa punto il secolo decimonono, o tale scusa gli è comune con tutti i secoli. Resta a cercare, andando la società per la via che oggi si tiene, a che si debba riuscire, cioè se la transizione che ora si fa, sia dal bene al meglio o dal male al peggio.

La benevola allarmata raccomandazione dell’amico arriva subito: non ha da fare discorsi di tal fatta pubblicamente. Finirebbe denigrato come persona in scorta ad esserlo come filosofo, perché tra autore ed opera il lettore irritato si sa che fatica a far troppi distinguo.
Dopodiché, e per tornare al dunque:
 
Amico – Ma in fine avete voi mutato opinioni o no? e che s’ha egli a fare di questo libro?

Tristano – Bruciarlo è il meglio. Non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici, ovvero come un’espressione dell’infelicità dell’autore: perché in confidenza, mio caro amico, io credo felice voi e felici tutti gli altri; ma io quanto a me, con licenza vostra e del secolo, sono infelicissimo; e tale mi credo; e tutti i giornali de’ due mondi non mi persuaderanno il contrario.

L’ultima battuta dell’amico è quella che lo riscatta dall’essere stato, pressoché per tutto il dialogo, un uomo che non sa trovare non tanto il senso quanto il tono per un confronto; che ascolta e ne esce confuso; di nuovo, non tanto su cosa ha capito, ma su come deve interpretare ciò che ha capito.
Tuttavia ora esce dall’incertezza. Non ha più da congetturare cosa intenda Tristano.
Sa che l’infelicità così come ognuno la prova è un assoluto.
Non esiste e non può esistere nessuno che si senta infelice e non lo sia. Che provi sofferenza e si sbagli:

Amico – Io non conosco le cagioni di cotesta infelicità che dite. Ma se uno sia felice o infelice individualmente, nessuno è giudice se non la persona stessa, e il giudizio di questa non può fallare. 

E con questa constatazione immediata oltreché decisa, che supera d’un balzo i punti di vista e le preconcette scelte di campo ed è come una resa alle poche verità dell’esistere, dà l’opportunità a Tristano di pronunciare un discorso che è anche una delle pagine più alte e più liriche in questa prosa delle Operette, le quali, forse per caso o forse no, proprio con essa si concludono.
Non più ironia, sarcasmo, eufemismi… ma una confessione a cuore aperto. Diretta, tragica, ferma e fiera nel rivendicare il coraggio di guardare in faccia il destino, senza infingimenti, senza costruire speranze di compensi in altri mondi per non cadere nella disperazione in questo, dove la prospettiva della morte è affrontata con dignità ed è infine segno dell’unica possibile libertà:

Tristano –  Libri e studi, che spesso mi maraviglio d’aver tanto amato, disegni di cose grandi, e speranze di gloria e d’immortalità, sono cose delle quali è anche passato il tempo di ridere. Dei disegni e delle speranze di questo secolo non rido: desidero loro con tutta l’anima ogni miglior successo possibile, e lodo, ammiro ed onoro altamente e sincerissimamente il buon volere: ma non invidio però i posteri, né quelli che hanno ancora a vivere lungamente. In altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di loro. Oggi non invidio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei. Ogni immaginazione piacevole, ogni pensiero dell’avvenire, ch’io fo, come accade, nella mia solitudine, e con cui vo passando il tempo, consiste nella morte, e di là non sa uscire. Né in questo desiderio la ricordanza dei sogni della prima età, e il pensiero d’esser vissuto invano, mi turbano più, come solevano. Se ottengo la morte morrò così tranquillo e così contento, come se mai null’altro avessi sperato né desiderato al mondo. Questo è il solo benefizio che può riconciliarmi al destino. Se mi fosse proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall’altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi.

Fulvio Baldoino

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