Signoraggi a confronto

Il termine signoraggio è ancora poco compreso, causa la censura dei media e il dileggio cui è sottoposto per esorcizzarlo
Signoraggi a confronto

Signoraggi  a  confronto

Il termine signoraggio è ancora poco compreso, causa la censura dei media e il dileggio cui è sottoposto per esorcizzarlo, come si usa fare con tutte le  scoperte “scomode” da parte di quanti dallo status quo lucrano enormi guadagni.

Eppure, il suo significato è molto semplice: esprime la differenza tra il valore intrinseco di una moneta e il suo valore nominale, di facciata. Quando la moneta era metallica, la differenza tra il peso di una moneta –valore intrinseco- in oro, argento, rame, e l’importo impresso dal “signore”, ossia dall’autorità che la coniava e ne imponeva forzosamente l’accettazione, era, appunto, il signoraggio.

Dopo l’avvento, nell’ultimo secolo, della moneta prevalentemente cartacea e poi elettronica, di valore intrinseco prossimo a zero, l’importo di facciata è tutto signoraggio.

Chi approfittò su scala mondiale di questo distacco tra valore impresso e valore reale della moneta furono gli USA dopo il 1971, quando la convertibilità delle banconote, che ne garantiva il corrispettivo in oro, fu abolita d’imperio dal presidente Nixon. Da allora gli USA si dettero a fare signoraggio internazionale, imponendo i dollari per tutti gli acquisti di petrolio: i c. d. petrodollari. Questi divennero così la valuta di riserva internazionale, consentendo agli USA di fare shopping in giro per il mondo, pagando i beni esteri con i loro greenbacks. In pratica, il mondo intero si dette a lavorare per loro, alcuni Paesi accumulando enormi quantità di dollari, che poi impiega(va)no per acquistare buoni del tesoro americani, finanziando così il loro parassitismo.

Anno dopo anno gli USA presero talmente gusto a far lavorare gli altri a loro beneficio che gradualmente venne a calare la motivazione di mantenere una propria produzione industriale: che senso aveva faticare a casa propria, pagando alti salari, quando le stesse merci potevano essere acquistate a debito, pagando con semplice carta stampata, da nazioni così volenterose di accontentare ogni loro capriccio? L’intera nazione si deindustrializzò, trasferendo anche le proprie fabbriche dove la manodopera costava un decimo che a casa propria; e rimasero in patria di preferenza le fabbriche di armi, per ragioni di sicurezza, con l’obbligo non dichiarato di attizzare guerre in vari teatri mondiali per giustificare tanta produzione bellica e lo smisurato budget del Pentagono.

L’asfissia dell’industria domestica fece ingrossare ogni giorno di più le file dei disoccupati, mentre crescevano quelle degli immigrati clandestini, che occupavano i decrescenti posti rimasti, in spietata concorrenza con i lavoratori americani, per le loro ben minori pretese salariali: è ben noto che il capitalismo si nutre di alta disoccupazione e salari minimi.

 Nel contempo, le industrie languenti si trasformavano da centri di produzione a conglomerati finanziari, nell’illusione di poter sostituire la fabbricazione di merci con quella di denaro virtuale, che genera se stesso, dopo aver vanamente accarezzato l’idea di sostituire il primario e secondario con il terziario.

 Diciamo che la finanza era assurta a “quaternario”.

Sappiamo tutti cosa è successo sull’onda di questo bel sogno di vivere di rendita, cercando al tempo stesso di moltiplicarla ad libitum.

Questo precario bengodi tracimò persino nella più conservatrice Europa; ed oggi tutto l’Occidente è in depressione dal 2007, con lo scoppio della più grande bolla finanziaria dal lontano 1929.  Vediamo dunque chi e come ne uscì nei successivi anni ’30.

È molto illuminante il pensiero di un economista australiano, naturalmente eretico per la dottrina tuttora prevalente nelle Università e nei circoli finanziari e governativi: il professor Steve Keen.

Keen ha fatto un articolato raffronto tra l’economia americana e quella tedesca dopo la crisi del 1929, per constatare che, mentre gli USA non ne uscirono se non a partire dal 1941, grazie ad un’economia di guerra, la Germania contrasse all’osso la disoccupazione e vide fiorire l’unica vera ripresa economica degli anni ’30 nel giro di soli 4 anni, a partire dal 1933: isola felice in un mare di miseria. (L’Italia fascista forse non comprese appieno o non ebbe la forza di imitare la rivoluzione finanziaria di Hitler).

Il 1933 fu un anno di spartiacque per entrambi i Paesi: a tre mesi di distanza salirono al potere due personaggi tra loro antitetici: Franklin Delano Roosevelt e Adolf Hitler.

Entrambi ricorsero però alla dottrina keynesiana per affidare alla costruzione su vasta scala di opere pubbliche il compito di combattere la disoccupazione e rinvigorire un mercato stagnante. I risultati, come ho appena detto, furono deludenti in America e formidabili in Germania.

Keen ha allora indagato sulle cause di questi così diversi risultati, pur col varo della medesima cura. E le ha scoperte nei loro sistemi finanziari, basilarmente diversi.

L’America -e con essa le varie democrazie occidentali- adottava quello che è rimasto tuttora il sistema di finanziare lo Stato mediante indebitamento sui mercati, anche esteri, tramite la banca centrale privata –in America la Fed– che crea moneta a debito. Lo Stato la ripaga alla scadenza coi titoli di Stato che ad essa o tramite essa ha dato in cambio di quella moneta, peraltro creata dal nulla, ad esclusivo vantaggio della Fed stessa.

il professor Steve Keen

Al contrario, la Germania adottò un sistema misto nazionale e socialista, nel senso che fu lo Stato a creare la propria moneta, senza debito verso terzi -e men che meno verso terzi stranieri-, con la quale finanziò un rivoluzionario progetto di opere pubbliche, e addirittura i giovani sposi, per dar loro credito e fiducia nel futuro. 

Tutto questo nel volgere di un quadriennio, durante il quale il morale della nazione passò da depresso a riconoscente verso uno Stato col quale sempre più i cittadini si identificarono.

Il poderoso sviluppo industriale della Germania nazista non fu dovuto all’economia di guerra, che purtroppo prese invece l’avvento a partire dalla fine del decennio. I viaggiatori delle varie democrazie che visitarono la Germania in quegli anni furono incantati dal clima di ritrovato orgoglio nazionale, di ottimismo e di fiducia  che vi trovarono, in stridente contrasto con quello da cui provenivano e nel quale erano rimasti impaludati i tedeschi dopo la mortificazione della guerra persa. History Channel di Sky ha appena trasmesso un obiettivo servizio sull’umiliante situazione dei tedeschi negli anni ’20, oppressi da un insostenibile debito di guerra, con l’appropriazione delle miniere di carbone da parte dei francesi, che ne scacciarono i minatori locali, obbligandoli anche a comportamenti servili al loro passaggio. Ferite che non si rimarginano, se non con una cocente volontà di rivincita. Che il nazismo offrì loro.

Il regime si chiamò nazional-socialista, in quanto era lo Stato a governare l’economia mediante il controllo del denaro, di sua proprietà, quindi esente da debito; mentre il suo lato socialista si esplicava nel porre come obiettivo prioritario la piena occupazione e quindi il benessere generale, che oggi chiamiamo welfare, nonché il controllo di prezzi e salari, quando accennavano a prendere strade inflative.

Un simile modello era troppo imbarazzante per le democrazie capitaliste “a debito perenne” che circondavano quell’isola così immune dalle angherie bancarie grazie al fatto di anteporre all’ingrasso dei finanzieri la salute dei bilanci familiari. La coalizione capitalista, unita alla progressiva, smodata ambizione di Hitler, portarono alla sua distruzione; con un istruttivo particolare: che la Germania del 1945, rasa al suolo, era quasi esente da debito pubblico.

 
Franklin Delano Roosevelt

La naturale scarsità di materie prime della Germania, accentuata dapprima dalle sanzioni e poi dalla guerra aperta, spinsero i tedeschi a sopperirvi attraverso quel connubio di ricerca, innovazione e sviluppo che fece fiorire nuove tecnologie in ogni campo.

 Le atrocità contro gli ebrei che Hitler ordinò o permise portarono, anche grazie ad un incessante martellamento mediatico, alla condanna di qualsiasi egli cosa avesse fatto, compreso il suo sistema economico e finanziario, nonostante la nazione ne avesse tratto immensi vantaggi, dando per automatico che fosse migliore il sistema capitalistico: un po’ come accadde nel 1989 nei riguardi del comunismo, dopo la caduta del muro di Berlino.

Tornando al concetto di signoraggio, gli USA negli anni ’30 lo fecero a vantaggio esclusivo della Fed privata, a scapito dei loro stessi cittadini, nonostante i grandi piani keynesiani di Roosevelt. Dopo la guerra, continuarono a praticarlo in forma sempre più esasperata, non più tanto a danno degli americani -se non dal 2007- quanto del resto del mondo; mentre le altre nazioni occidentali, Europa in testa, lo continuano a fare a danno dei propri cittadini e a vantaggio della BCE (ossia di un’oligarchia di banchieri privati, ovviamente non scelti dal popolo, che sovrastano una costellazione di stati vassalli e relativi sudditi). 

Chi invece ha preso in eredità il sistema germanico degli anni ’30 e fa signoraggio interno alla grande sono la Cina, il Giappone (sino agli anni ’80, quando ripresero il sopravvento i banchieri e inaugurarono la stagnazione), e poi la Corea, Taiwan e altre nazioni asiatiche. Le loro banche centrali stampano moneta propria, senza debito né interessi; e le loro economie ne hanno di conseguenza tratto enorme sviluppo.

Keen ne conclude che solo regimi con forte senso di identificazione con lo Stato, meglio se retti da dittature orientate al popolo anziché al proprio tornaconto personale, sono in grado di scacciare i mercanti dal tempio (un tempio entrato oggi a far parte del mercato stesso). In mancanza, prevale la dittatura delle banche, dietro il paravento di sedicenti democrazie.

Qualcuno vede la situazione attuale con lenti diverse?  

Marco Giacinto Pellifroni;             29 gennaio 2012 

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