SINOSSI

Una “sinossi” anche ad uso di eventuali studenti del primo anno di filosofia
SINOSSI DEL DIALOGO
“LA REPUBBLICA” DI PLATONE

SINOSSI DEL DIALOGO
“LA REPUBBLICA” DI  PLATONE

La Repubblica  fa parte delle opere della maturità. Il dialogo si può considerare, per le sue dimensioni  e per gli argomenti di cui tratta, come la “summa” delle dottrine platoniche.  Il tema  intorno al quale inizia il dialogo è la definizione della giustizia, definizione non altrimenti possibile se non per mezzo della costruzione di un modello ideale di polis (il titolo originale è infatti Politeia).

Ma altrettanto, se non più importante è il tema dell’educazione e, in particolare, della formazione del filosofo, e, quindi, della filosofia stessa. Il dialogo si articola in dieci libri e si svolge in casa di Cefalo, padre di Polemarco, al Pireo.  Personaggi principali: Socrate, Glaucone  (fratello di Platone, come Adimanto), Polemarco (fratello maggiore del celebre oratore Lisia, democratico, fu condannato a morte dai Trenta Tiranni), Trasimaco di Calcedonia (sofista).

 

Il punto di partenza  è la ricerca di una definizione della giustizia, definizione tanto più necessaria dopo che Trasimaco ha sostenuto con veemenza la tesi che è giusto tutto quello che serve al più forte, facendo  così dipendere la giustizia dal potere. Si passa quindi dal piano individuale a quello dell’organizzazione politica, dal momento che la giustizia (o l’ingiustizia) la  si può “leggere” meglio  nell’ordinamento della polis, in quanto è come se lì vi fosse scritta in caratteri maiuscoli..  Così Socrate analizza la genesi e la struttura dello Stato in funzione della ricerca di cosa sia giustizia e ingiustizia. Lo Stato trae origine dalla necessità di soddisfare i bisogni naturali, dato che l’individuo non può essere in tutto e per tutto autosufficiente. Si ha così una divisione dei compiti fondata sulle attitudini, fra coloro che lavorano per soddisfare i bisogni primordiali: artigiani e commercianti. Via via che i bisogni si accrescono e la popolazione aumenta, la comunità ha l’esigenza di estendersi territorialmente, donde la pratica della guerra e quindi la formazione di una classe di guerrieri, o custodi. . A questo punto Socrate abbandona la prospettiva della ricostruzione della genesi dello Stato in generale per passare ai criteri  ai quali dovrebbe ispirarsi la costituzione di una città ideale. Importanza decisiva ha l’educazione dei guerrieri, che Socrate raccomanda sia basata sulla musica e sulla ginnastica;  vanno però messe al bando le favole mitiche narrate dai poeti perché  non rappresentano  la divinità come è realmente, cioè buona e causa di bene ma anzi come causa essa stessa di male. Tale condanna della poesia rientra in quella famosa condanna generale dell’arte che troviamo nel libro X: la realtà è copia del mondo delle idee; l’arte, che è imitazione della realtà, è dunque copia di una copia, quindi allontana dalla verità.  I guerrieri (o custodi)  non dovranno possedere beni personali, saranno mantenuti dagli altri cittadini e vivranno in comune.

Siffatta educazione riguarda anche le donne, poiché la differenza di genere non implica differenza di attitudini. A questa nuova considerazione delle donna Socrate aggiunge la proposta dell’abolizione della famiglia per i guerrieri; uomini e donne si accoppieranno secondo criteri stabiliti dallo stato e i figli non conosceranno i genitori, ma saranno allevati tutti insieme dallo stato medesimo. Non è comunque ai guerrieri che Socrate affida il compito di governare, ma a una terza classe formata da un gruppo di sapienti selezionati tra i custodi.
                         Socrate

Così delineata la città ideale, Socrate riprende l’indagine sulla natura della giustizia. Le virtù necessarie alla bontà dello stato sono quattro: sapienza, coraggio, temperanza e, naturalmente, giustizia. La sapienza è una scienza diversa  dalle scienze e tecniche particolari, in quanto ha come oggetto il corretto comportamento dello stato nei confronti di se stesso e degli altri stati. Il coraggio, o fortezza, cioè la capacità di conservare con costanza l’opinione retta in materia di cose pericolose e non pericolose, senza lasciarsi vincere dai piaceri o dai dolori o dalle paure o dalle passioni, è la virtù dei custodi. La temperanza è l’autodominio o disciplina dei piaceri e dei desideri, è la capacità di moderazione e di evitare gli eccessi. Questa virtù si trova, sì, particolarmente nella terza classe di cittadini, ma non è esclusiva di essa e si estende a tutto lo stato, facendo in modo che le classi inferiori si accordino con le superiori, e quindi armonizzino con esse. La giustizia, infine, è una specie di risultante delle altre tre virtù e coincide con il principio stesso su cui è costruita la città ideale, ossia con il principio secondo cui ciascuno deve fare solo quelle cose che per natura e quindi per legge è chiamato a fare. Quando ciascun cittadino e ciascuna classe attende alle proprie funzioni nel modo migliore, allora la vita dello stato si svolge in modo perfetto e abbiamo la città non solo giusta ma anche bella. E’ chiaro dunque che, essendo questa virtù la disposizione delle facoltà dell’anima per cui ciascuna compie la funzione che le è propria, e di conseguenza, a seconda della sua natura domina o si lascia dominare, la giustizia risulta essere una virtù che non riguarda il comportamento esteriore ma quello interiore, cioè la vita dell’anima stessa. E’ ora possibile tornare alla prospettiva individuale, sul presupposto che la struttura dell’anima di ogni cittadino corrisponde alla struttura della città. Anche l’anima individuale è composta di tre elementi: istinto, emotività e ragione. Pertanto un uomo sarà giusto, e quindi felice, quando ognuna delle tre parti dell’anima adempirà alle sue funzioni e di conseguenza l’elemento razionale, sostenuto dall’emotività, dirigerà l’istinto

L’ingiustizia, al contrario, consiste nel disordine dei tre elementi e della loro gerarchia. (Questa tripartizione dell’anima la troviamo anche nel Fedro, nel mito della biga alata). Definita l’essenza della giustizia e dell’ingiustizia, Socrate riprende il discorso sull’ordinamento della polis, trattando altre questioni decisive. Riguardo alle classi dei governanti e dei custodi-guerrieri, viene proposta la comunanza dei beni e l’abolizione della famiglia, di modo che l’interesse personale e particolare non confligga con quello generale.

          Fedro
In questo contesto viene trattata la questione della differenza di genere  e dello statuto delle donne le quali, anche se più deboli degli uomini, partecipano pur sempre della stessa natura, quindi è giusto che abbiano pari possibilità degli uomini di salire ai vertici del potere politico. L’ultima questione trattata da Socrate nel libro centrale del dialogo, cioè il V, incalzato da Glaucone, è quella relativa alla formazione dei governanti. E’ a questo punto che si profila la tesi principale dell’opera: solo i veri filosofi, distinti dai sofisti, in quanto votati alla conoscenza dell’immutabile, ovvero alla ricerca dell’essenza di ciascuna cosa, sono in grado di guidare e governare una polis giusta e ben ordinata. Il tema della definizione e della formazione del vero filosofo continua e si approfondisce nei libri successivi, soprattutto nel VI e nel VII. All’inizio del libro VII troviamo  la famosa immagine o allegoria della caverna: se in fondo a una caverna si trovassero degli uomini incatenati in modo tale da dover tenere il viso rivolto verso la parete di fondo della caverna medesima; se fuori della caverna ci fosse un fuoco e, tra loro e il fuoco, un muro lungo il quale si muovessero altri uomini che trasportano oggetti diversi, e se questi oggetti sporgessero dal margine superiore del muro, gli uomini incatenati in fondo alla caverna  vedrebbero soltanto le ombre proiettate sulla parete che sta loro di fronte, e le scambierebbero per oggetti reali. Uno di essi, liberato dalle catene e tratto alla luce del sole, si persuaderebbe che l’astro governa tutto quello che esiste nel mondo visibile  e si sentirebbe felice per il mutamento e proverebbe compassione per i suoi compagni rimasti nella caverna e non invidierebbe certo quelli che si attribuissero fra loro onori e lodi. E se mai tornasse nella caverna per liberare i suoi compagni, avrebbe la vista offuscata e farebbe ridere discorrendo di quelle ombre, non verrebbe creduto e anzi verrebbe ucciso se provasse a liberare quegli schiavi ignari di essere tali. L’allegoria è abbastanza trasparente: siamo inizialmente tutti prigionieri nel mondo sensibile, dove scambiamo per realtà le immagini passeggere che ci vengono fornite dai nostri sensi, e solo con enorme fatica alcuni (i filosofi) riescono ad elevarsi alla contemplazione della realtà autentica, cioè il mondo delle idee. Nell’allegoria della caverna, dunque, la conoscenza vera è rappresentata come il processo di emancipazione dal mondo delle ombre (le opinioni), e come scoperta del mondo esterno alla caverna (la scienza), conoscibile solo attraverso gli occhi della mente. Per accedere alla scienza (episteme) è quindi necessario un lungo cammino di liberazione e purificazione intellettuale: dalla conoscenza illusoria del mondo sensibile in cui si possono avere solo opinioni, si perviene per gradi alla scienza del vero, dapprima in modo discorsivo (diànoia) e poi intuitivamente (nòesis). L’intuizione è contemplazione diretta dell’idea suprema, quella del Bene, che illumina con la sua luce l’essere vero, come il sole illumina le cose visibili;  e come il sole conferisce alle cose il dono di essere conosciute ma è al tempo stesso origine e causa della vita, così il Bene è la luce suprema che illumina le idee, ma anche fonte della sua stessa esistenza ed essenza, quindi superiore a tutte le idee per dignità e potenza. La contemplazione del Bene è quindi la meta ultima della conoscenza filosofica, la sola in grado di conferire la capacità di giudicare nel modo più giusto ogni cosa. Il discorso sulla vera conoscenza (episteme) si conclude con una rassegna delle scienze, dalla matematica alla dialettica, propedeutiche alla formazione del filosofo.  Conclusa la descrizione della polis ideale, Socrate passa ad esaminare le forme del potere realmente esistenti (libri VIII e IX): aristocrazia, timocrazia, oligarchia, democrazia e tirannide, mostrando come ogni forma politica nasca dalla degenerazione di quella precedente. Particolare attenzione continua a richiamare, per il suo indubbio significato anche per l’attuale scienza politica, l’approfondita analisi del passaggio dalla democrazia alla tirannide. Nel libro X troviamo, tra l’altro, la condanna ontologicamente motivata dell’opera d’arte, definita come imitazione e copia di una copia. Uniche eccezioni ammesse nella polis ideale disegnata dal Socrate platonico della Repubblica sono gli inni agli dei e gli elogi degli uomini virtuosi. Alla virtù sono riservate grandi ricompense. A questa questione dei premi riservati alla virtù è strettamente connessa quella dell’immortalità dell’anima. Per ogni singolo oggetto c’è un bene. Ora il bene non può dissolvere il male e neppure ciò che non è né bene né male. Un male può rendere  cattivo un essere, ma non può annientarlo, così come niente può dissolvere o uccidere l’anima, nemmeno il disordine e l’ingiustizia che è in lei. Se il male fisico non genera il male dell’anima, non è pensabile che l’anima muoia a causa dell’ingiustizia; e qui Glaucone osserva giustamente che l’ingiustizia, potendo, uccide gli uomini, ma rende anche pieno di vita e di energia chi l’ha in sé, e non gli annienta di sicuro l’anima. Socrate conclude che se qualcosa non muore né per un male proprio né per un male estraneo, allora è evidente che è immortale. Le anime dunque esistono per sempre; ma per conoscere esattamente l’anima è necessario contemplarla con la ragione. Considerata alla luce della ragione , il suo bene supremo è la giustizia, a cui vanno rese quelle ricompense che sono dovute all’anima dagli uomini e dagli dei così in questa come nell’altra vita. La povertà, la malattia o qualunque altro di quelli che sembrano mali, si risolveranno alla fine in un bene per l’uomo giusto. Ma ricompense e doni degli dei e degli uomini sono un nulla a confronto di quelle riservate ai giusti e agli ingiusti dopo la morte. A illustrazione di questa prospettiva ultraterrena, Socrate narra il mito di Er della Panfilia, morto in battaglia  e tornato tra i vivi per raccontare le cose viste e ascoltate nell’aldilà. Con questo mito, che potremmo definire “escatologico”, si chiude l’opera: “E così, Glaucone, il racconto è stato salvato e non si è perduto. E potrà salvare anche noi, se gli prestiamo fede, e così attraverseremo felicemente il fiume Lete e non contamineremo la nostra anima. Se dunque daremo retta a quanto ho detto, ritenendo l’anima immortale e capace di affrontare, nel male e nel bene, ogni vicenda, sempre seguiremo la via che conduce verso l’alto e in ogni modo praticheremo la giustizia accompagnata dall’intelligenza, per essere in pace con  noi stessi e con gli dei, sia nella nostra dimora quaggiù, sia quando otterremo i premi della giustizia, facendo il giro d’onore come i vincitori: e così sia  nel cammino di mille anni, di cui  abbiamo discorso, e staremo finalmente bene”.
FULVIO SGUERSO

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