CINEMA: Killer Joe
RUBRICA SETTIMANALE DI BIAGIO GIORDANO
In sala nella Provincia di Savona
Killer Joe
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RUBRICA SETTIMANALE DI BIAGIO GIORDANO
In sala nella Provincia di Savona
Killer Joe
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(Killer Joe, 2011, Usa) Regia: William Friedkin Con: Matthew McConaughey, Emile Hirsch, Thomas Haden Church, Gina Gershon, Juno Temple, Marc Macaulay, Scott A. Martin, Kylie Creppel, Danny Epper, Edward J. Clare Distributori: Bolero Genere: Commedia, Drammatico Durata: 103′ Data di uscita: 2012 Recensione di Biagio Giordano In sala nella Provincia di Savona
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L’ultra ottuagenario William Friedkin (L’esorcista 1973, Jade 1995) non finisce di stupire, sfoderando con questo film vitalità e invenzioni formali di sicuro pregio. Con Killer Joe, Friedkin compie la seconda magica trasposizione teatrale di un’opera di Tracy Letts attirando l’attenzione di critica e pubblico soprattutto per gli aspetti innovativi del modo di narrare, legati in questo caso alla logica spettacolare dei paradossi per estremi: somma di situazioni straordinarie che sopraggiungono, senza essere annunciate e previste, in un finale dolce-amaro che rimane volutamente insoluto.
Il regista, con sorprendente intelligenza artistica, riesce sempre ad imprimere ai suoi film ritmi nuovi e idee spettacolo efficaci che raramente cadono nel banale o nel volgare truculento tipico nella commedia drammatica, del far cassetta, in modo sicuro. Le idee di Friedkin si muovono all’interno di un pensiero dinamico, vasto ma stringente nel realizzare un progetto, un modo di riflettere altro (da tener presente che il regista statunitense esponente della New Hollywood è considerato anche un profondo innovatore del film poliziesco e del genere horror) rispetto alla più conosciuta tradizione cinematografica hollywoodiana, un pensare per immagini sorretto non solo dall’amore verso il cinema ma anche da una empatia verso lo spettatore, in particolare verso il pubblico più vicino al mondo cinefilo, quello che è un assiduo frequentatore di sale cinematografiche, con cui instaura a distanza un rapporto immaginifico particolare che lo spinge, sollecitato dai sondaggi sociologici territoriali, a creare instancabilmente nuove modalità narrative inglobanti richiami esca per il minimo necessario, in stretta relazione con i più rilevanti gusti cinematografici esplorati o intuiti.
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Sono pensieri a lungo coltivati che nell’applicazione pratica danno spessore anche artistico ai suoi film: perché lo spettacolo intelligente svela o sa cogliere più direttamente tratti di connessioni profonde delle logiche dell’animo animo togliendo in parte la prima censura operata dal pudore per sé e gli altri. Friedkin rinuncia, forse per indole o forse per un’etica professionale propria avvalorata da una solida formazione culturale di base, a rimanere nel cinema nelle vesti di anziano con una funzione esclusivamente di consulenza o di produzione filmica, il suo comportamento artistico sembra voler togliere ogni dubbio sulla sua idiosincrasia per la vita di rendita e il quieto vivere più meschino: quest’ultimo legato ad una sorta di pigra rinuncia ad elaborare le proprie ossessioni senili.
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Friedkin sembra voler rimanere desto fino all’ultimo con la testa e col cuore magari provando qualche volta l’emozione di darsi in pasto al pubblico e alla critica, offrendo su un piatto di argento le proprie nevrosi senili più subdole e ostinate toccate qua e là da impulsi creativi geniali non facilmente riconoscibili dai critici poco colti, nevrosi prese comunque sempre in un gioco di elaborazione artistica che le allontana dal sintomo chiuso e gretto dell’anziano incattivito dagli eventi finali della sua esistenza. Sintomi che, diversamente operanti – lontani cioè dal campo artistico – sarebbero ritenuti, per convenzione medica e agevolazioni verso gli interessi farmaceutici, più di tipo neurologico che psichico-esistenziale.
Friedkin si ripropone perciò ancora con una straordinaria forza giovanile, costituita da coraggio e determinazione, e correlata da lucidità ed esperienza, tutti aspetti in grado di facilitare al meglio il suo desiderio di lavorare con uno stile di ripresa sempre nuovo. In questo film Friedkin usa a grandi linee la stessa modalità narrativa della precedente pellicola dal titolo Bug – La paranoia è contagiosa (2006), un thriller originale dai modi espressivi forti, inframmezzati da fantasmagorie irriverenti, insolite, inquietanti, un film che alla fine ha accontentato, forse inaspettatamente, gran parte della critica e quella parte più abitudinaria del pubblico amante del genere, Friedkin è con quella pellicola che ha dimostrato di saper toccare le misteriose e delicate corde visive e sonore del gusto che cambia riferito al mondo giovanile popolare più recente, un cambiamento a volte improvviso dalle apparenze irrazionali, immediatamente indecifrabile, intuibile solo con l’esperienza e la conoscenza della storia del cinema. |
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Ad esempio ha esibito prove del suo acume nella costruzione scritta dei codici visivi da lui selezionati come bozze dal libro, opportunamente scelti per essere messi in immagini in movimento, ed ha facilitato, per chiarezza compositiva e formulazioni di situazioni ideate per un sicuro effetto psicologico, la loro successiva messa in opera in forma fotografica da parte del cast del regista Friedkin.
Sono codici quelli della sceneggiatura opportunamente studiati per rilasciare emozioni e forme di spettacolo appartenenti allo statuto dell’immagine, vista quest’ultima non tanto in modo ontologico quanto fantasmagorico-inconscio, valorizzata cioè non come essere in sé da conoscere in tutta la sua costituzione filosofica per renderla ad esempio meno misteriosa o oscura, ma per i suoi poteri nel saper rilasciare effetti emotivi consistenti, di valenza anche esistenzialistica che non possono prescindere mai da un gioco di identificazione e proiezione dello spettatore con essa. Lo sceneggiatore Letts ha ricavato per questo film il senso cinematografico più fantasmagorico dalla trasposizione scritta del testo teatrale, lavorando per immaginazione come se stesse vedendo il film stesso che aveva in mente scrivendo, offrendo al regista Friedkin un binario sicuro su cui far scorrere la narrazione. Il film si sbizzarrisce, senza mancare di una imparziale ironia, nell’esibire un’umanità caricaturata, deformata, che galleggia meschina in un territorio-sociale dominato dalla povertà e dalla miseria, nella quasi assenza di ogni istituzione eccetto le forze dell’ordine che nel film per paradosso sembrano essere le prime a tendere a delinquere, forse per una sorta di fissazione nevrotica, un’ossessione tipica del militante dell’ordine pubblico che rimane sempre molto preso dal contrasto bene-male di cui è quotidianamente forzatamente testimone fino al punto di essere spinto, quando sorge un forte conflitto con le istituzioni, a trasgredire da esse provando piacere nell’opposto dei valori della morale che normalmente sono costretti a difendere. Il film Killer Joe usa la deformazione dei personaggi dalla realtà più ovvia come solido strumento di comunicazione grottesca, ma poggia i piedi sul duro terreno di un realismo dilagante, ineccepibile, riconoscibile attraverso il denso spettro filmico dagli occhi – ricordo dell’esperienza penetrante di ciascun spettatore. Un realismo diretto, pragmatico, dove la mediazione speculativa non ha più posto, dove funziona solo l’interesse brado che accetta forme di mediazioni utili alla sopravvivenza, scevra da ogni forma etica e moralistica. Esso ben si staglia sullo sfondo della narrazione, dimostrandosi assai credibile sia per forma che per contenuto, sia per l’ambientazione che per la mentalità del luogo dove viene storicizzata la vicenda inserendo anche codici linguistici espressivi della cultura più sfilacciata tipica della globalizzazione. Friedkin si libra, con la mente, nel mondo della fantasia più impregnata di irrazionale, quella incapace di trovare agganci nel reale senza sconvolgere qualcosa di essenziale, ma dopo un volo inebriante nella follia dei paradossi umani più contemporanei, si cala in un crudo reale contagiandolo di nuove emozioni che ne modificano irrimediabilmente il profilo. Egli con ironia e qualche forma ricercata di umorismo che fa venire in mente quello serioso- freudiano teoricamente elaborato dal famoso psicanalista nella prima parte del ‘900, garantisce al film di non fuggire da se stesso, di non prendere il volo verso una non voluta e nuova forma di fantascienza, quella vuota di oggetti certi, impregnata di oggetti solo possibili che sovente non riesce più a trovare la via di casa del reale. Friedkin connette l’immaginazione con un inconscio reale e riconosciuto dalla coscienza stessa, unica garanzia questa di essere nella condizione di contribuire a dare al cinema un senso di vero credibile e divertente. |
Biagio Giordano |