Castagne e castagni

Castagne e castagni
Oggi la castagna ci pare quasi un gioco, un passatempo domenicale. Eppure c’è chi presta attenzione al valore che questo frutto ancora contiene, intrinseco, durevole, ricco di storia umana e non solo di prezzo e peso.

Castagne e castagni

 Stamattina, otto novembre, a partire dalle 10, nella frazione di Isoletta di Murialdo (SV) si terrà la festa della battitura delle castagne.

 


Mentre è diventato quasi impossibile sfuggire alle pur buonissime caldarroste (non c’è piazza di paese che in questi giorni non le offra), qualcuno, fra queste valli, riporta la castagna ad una consuetudine antica e diffusa, indispensabile per conservare la dovizia di frutti che una stagione buona ci ha donato: il ciclo di essiccamento ed affumicatura, quindi la battitura e la selezione.

Le castagne bianche, ripulite, così ottenute, si fanno con il latte (possibilmente di una vacca conosciuta di persona, e non di un allevamento d’oltreoceano…) ma si possono usare anche per fare i dolci o altri esperimenti culinari.

Oggi la castagna ci pare quasi un gioco, un passatempo domenicale. Eppure c’è chi presta attenzione al valore che questo frutto ancora contiene, intrinseco, durevole, ricco di storia umana e non solo di prezzo e peso.

 

Le castagne sono state il pane dei valbormidesi. Li hanno sfamati, come hanno sfamato i figli dell’Appennino e delle Alpi italiane. Dolci, versatili, conservabili, riducibili in farina, oppure in leccornia da gran signori (i marron glaces, per intenderci). Possono partecipare in ricette salate o dolci, possono essere prese per cibo volgare, da povera gente; ma anche da gran specialità per palati raffinati: tutto sta a chi si occupa della loro preparazione.

Ma la castagna è frutto di un albero. E quest’albero dà tantissime altre cose: legna da costruzione per farci i tetti delle case; legna da lavoro, per farci mobili e arredi; legna da confezionamento, utilizzando i getti più giovani, spaccati ad arte e lavorati con sapienza, diventano cestini, corbe, cestelli.

Il castagno è legna da ardere, considerato non di elevatissima qualità, ma pur sempre di buona fiamma, un po’ scoppiettante, e quindi pericolosa per i caminetti aperti, e inadatta per il forni da pizza. I ricci sono anche loro un buon combustibile, le foglie venivano utilizzate per il giaciglio delle bestie. I rami più sottili a formar fascine, per scaldare il forno e cuocere il buon pane. Con il legno di castagna si faceva il carbone di legna. Con il tronco di castagno “fadoso” (cioè incipollito, ovvero che si sfalda a cerchi concentrici) si facevano grossolani tubi in cui ospitare sciami d’api. Oppure rudimentali grondaie per portare poco lontano l’acqua di una fonte.

 

 

Il legno di castagno marcisce molto lentamente, si può usare all’aperto. E ha sostenuto e sostiene le vigne delle uve più pregiate. Hanno provato a sostituirlo con il cemento, ma non era proprio il caso: sfiorato da un trattore, il cemento si rompe. Un buon palo di castagno si flette e torna al suo posto. E non marcisce.

Nei vecchi castagni domestici, ormai vuoti, hanno trovato rifugio e scampo disertori, partigiani, semplici ragazzi messi al bando dal regime. Sicuramente queste piante dalla corteccia tanto travagliata hanno raccolto confidenze impronunciabili di chi, per lavoro, si trovava, solo, al loro cospetto. Fra le loro radici sono nati funghi profumati e rari, che hanno dato la possibilità ad una famiglia, di metter da parte due lire in più, da una magra giornata.

Ogni seme, ogni coltura, ogni aspetto dell’agricoltura e del mondo rurale in genere, non è mai SOLO quello di cui si parla. Oggi si chiamano tutti commodities, ed hanno un valore legato semplicemente al prezzo, alla richiesta di mercato, all’offerta, al di là del peso sociale che una sostanza ha.

Il valore di un prodotto dell’agricoltura, del mondo rurale, non è il suo prezzo: il castagno è stato per noi un modo di vivere, le nostre relazioni, il nostro paesaggio. Il castagno è stato per noi come il bufalo per gli indiani d’America. Sono arrivate le fabbriche, ci hanno portato via la nostra terra migliore. Poi è arrivato il cinipide, e noi ce ne siamo quasi disinteressati. Nonostante tutto i castagni superstiti sono ancora lì, verdeggiano prudenti nella tarda primavera, si fanno notare finalmente nell’autunno, quando scopriamo quasi per sbaglio, in quel prato, i ricci e il lucido, dolce frutto.

 

L’ultimo sacerdote consapevole del valore di questo sistema (non di questo frutto, per quello basta un mercante) è Luca Ghisolfo e il suo gruppo di amici e famigliari. Oltre ad essere il principale animatore della festa di oggi, ha recuperato l’artigianalità dei cestini, dell’intreccio delle liste di castagno, e spesso si trova sulle feste dei nostri paesi, per mostrare il suo lavoro, per convincerci che è possibile, e che la parola “ecologia” infine, vuol dire questo: anziché usare una borsa di plastica, bisogna imparare a costruire da sé il cestino che ci serve. È più bello, personalissimo, degno dei materiali e dei luoghi che abitiamo, resistente più del nylon, e se proprio proprio dovesse diventare inservibile, potrebbe essere ancora bruciato nella stufa, per scaldarsi. Ma non succede quasi mai.

Ma siamo sconsigliati dall’usare un cestino: a gran voce tutti direbbero che non è adatto, non è funzionale, non è igienico. Io penso che se ci fosse sopra il marchio di una griffe e costasse tremila euro, faremmo a botte per portar sul braccio un cestino di Ghisolfo, come dire una Chanel 2.55, o uno zainetto di Gucci… Questione di gusti.

E menomale che Luca Ghisolfo fa dei cestini che valgono molto di più, ma costano infinitamente di meno. E soprattutto rivaluta e manifesta il suo amore per la sua terra.

 

 Alessandro Marenco

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