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UOMINI E BESTIE

8: Prospezioni dell’immaginario

Le Sirene

Quinta  parte

 

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Si diceva prima (nella terza parte) che delle Sirene dobbiamo andare a cercarci notizie presso gli auctores postomerici. Che sappiamo dunque di esse dalla nostra ricerca? Si suicidarono per non esser riuscite a stregare Ulisse, “non sopportando la sconfitta” (schol. LYCOPHR. 712). Entrarono in gara colle Muse nella città cretese di Attera per la primazia del canto e, disfatte, “si strapparono le ali di dosso, divennero canute [leukaí] e si buttarono in mare, da cui il nome della città [Attera, cioè senz’ali] e delle vicine isole Bianche”. STEPH. BYZ. ethn. s. v. Áptera 107:

 

"Attera [Palaiókastro]”: città cretese il cui nome deriva dalla gara fra le Muse e le Sirene che avvenne nel luogo vicino alla città e sul mare chiamato Museo, in cui dopo la vittoria delle Muse nel canto le Sirene, afflitte, si strapparono le ali dalle spalle e, incanutite, si gettarono in mare, donde il nome della città, che significa “Senz’ali”, e delle isole vicine, che si chiamano “Bianche” [nella Baia di Soúda].

 

Entrarono in gara anche con Orfeo al tempo della spedizione degli Argonauti, ma ne uscirono vinte.

 

Un vento ben temperato portava la nave; súbito l’isola
bella di Antemoessa fu in vista, dove le melodiose
Sirene figlie d’Acheloo perdevan stregando
con dolci canti chi alla lor volta piegasse le vele.
Congiuntasi ad Acheloo le generò
la stupenda Tersicore Musa, ed esse un tempo alla figlia
eccellente di Demetra, dal maschio ancora non doma, servivano
cantando all’unisono. Allora invece talvolta pari
ad uccelli talaltra a fanciulle si palesavano,
e sempre da un poggio portuoso apparendo
certo spesso il grato ritorno toglievano a molti
struggendoli di consunzione. Improvvisa ora anche su di essi
sgorgò dalle bocche la voce di giglio, e già sulla nave
volevano volgere al lido le vele,
se il figlio di Eagro, il tracio Orfeo,
spiegando fra le mani la lira bistonia [tracia],
non avesse intonato il timbro impetuoso d’un’aria veloce
a gara incalzando, finché nelle orecchie echeggiò
solo il suono delle sue corde: la lira sconfisse la voce virginea,
la nave insieme Favonio ed il flutto crosciante levato
da poppa portavano, il loro grido già s’era fatto indistinto.
Ma pure cosí il prode figlio di Teleonte, Bute, solo
dei commilitoni fu lesto a tuffarsi nel mare dai banchi
politi, deliziato nel cuore dalla voce argentina delle Sirene,
e nuotava sul fervido flutto lo sventurato
sino alla costa, e certo gli avrebbero tosto tolto il ritorno,
ma pietosa la dea Ciprigna [Venere] cui Erice è a cuore
benigna apparendo fra i gorghi lo levò in aria
e lo salvò ad abitare il capo di Lilibeo [Capo Boeo in Sicilia]
(AP. RHOD. IV 891 sqq.)

 

A commento del passo qui sopra tradotto dirò che durante il viaggio di ritorno gli Argonauti percorrono un cammino assurdo, in sostanza perché Apollonio volle catalogare in una successione piú o meno logica tutti i miti epicorici che nei secoli su di essi s’eran formati: partono perciò dalla Georgia e attraverso il Mar Nero risalgono il Danubio sino ad un suo inesistente braccio occidentale che sfocia nell’Adriatico, di qui per il Po sino ad un altrettanto inesistente lago nella Sciampagna donde nasce anche il Rodano, disceso il quale costeggiano Francia e Italia sinché arrivano all’isola di Antemoessa nel Golfo di Sorrento, dove stanno le Sirene (si veda la carta alla fine della scheda). In tal modo Apollonio contamina almeno due fonti: la tradizione omerica ed esiodea (Antemoessa), e Timeo (il Golfo di Sorrento). L’eroe Bute, mitico progenitore della famiglia magnatizia degli Eteobutadi in Atene, viene qui a quanto pare confuso con un altro Bute, paredro di Afrodite, di nazione sicula, il quale ebbe dalla dea un figlio di nome Erice, che fondò il celebre santuario (DIOD. SIC. IV 83, 1).

 

Certo allora noi veleggiando sopraggiungemmo non molto da lungi
uno scoglio proteso, un dirupo di sopra scosceso
da nudi crepacci che sorge sprezzante
nel mare, e dentro vi freme alle falde il flutto glauco.
Colà sedendo la voce argentina garriscono
le fanciulle, stregando l’ascolto ai mortali che non torneranno.
Certo allora ai Minii164 piacque la conoscenza del canto
delle Sirene né piú da loro forse si superava
la voce funesta, di mano lasciarono i remi,
Anceo [il pilota di Argo: AP. RHOD. II 894 sqq.] già dirigeva al poggio proteso,
se io [Orfeo] la cetra tentando colle mie dita
non avessi sciolto la dilettosa bellezza d’un’aria materna165.
Cantavo, acuta levando la voce d’un inno divino,
che un tempo essi contesero per turbinosi cavalli:
Zeus che tuona nell’alto e il marino Scuotitor della terra,
ma il Dio chiom’azzurra sdegnato con Giove padre
colpí la terra di Litto [Creta: schol. Od. XIX 174 H.Q.] coll’aureo tridente
e súbito la disperse nel mare infinito,
ne nacquero isole salse, le chiamano
la Sardegna e l’Eubea e inoltre Cipro ventosa.
Certo allora mentre arpeggiavo, sullo scoglio canuto
sbigottirono le Sirene, cessarono il loro canto
e ad una il flauto di loto, all’altra cadde di mano la lira di tartaruga,
alto gemettero perché giungeva per loro fato luttuoso
di morte dalle Parche voluto: dall’erta cima
si precipitarono nel fondo del mare che scroscia il suo flutto,
mutarono il corpo in pietra e la forma arrogante
(Arg. Orph. 1264-90)

 

Una di loro, Partenope, rimasta sempre insensibile alle profferte dei maschi, innamoratasi del frigio Metioco si tagliò i capelli per punirsi e si trasferí in Campania, dove fu venerata dopo la morte per la sua purezza (EUSTATH. in DION. PER. orb. descr. 358; schol. in DION. PER. orb. descr. 358, tradotto qui di séguito).

 

“La dimora di Partenope”: non è riferito, come ritennero alcuni che s’occuparono di storia della danza, a Partenope di Samo che andava in giro in cerca del marito Anassilao [storia ignota], bensí ad una delle Sirene, che secondo il mito si gettò in mare in quel luogo. La storia completa si legge nell’Alessandra di Licofrone. Si chiamava Partenope perché, pur essendo finita in potere di molti uomini, conservò la parthenia, ossia la verginità. Ma poi, innamoratasi di Metioco, si tagliò i capelli, lasciò la Frigia e si trasferí ad abitare in Campania. Alcuni invece dicono che fosse una delle Sirene e che il suo corpo dilaniato sia stato sbattuto dal mare in questo luogo, dove fu considerata una dea. Infatti, quando Odisseo ruscí a passar oltre colla sua nave e né lui né alcuno dei suoi compagni furono stregati dal loro canto, Partenope, una delle Sirene, uscita di senno perché non era riuscita a stregare Odisseo ed i suoi uomini, si gettò in mare. Questi sono i nomi delle Sirene, ricordati anche da Licofrone: Partenope, Leucosia e Ligea.

 

Resta oscuro in qual modo questa storia si colleghi al romanzo di Metiochus et Parthenope, noto da frustuli papiracei (O. Bodl. 2. 2175, P. Berol. inv. 7927 + 9588 + 21179, P. Oxy. 3. 435, incerto: STEPHENS-WINKLER, Ancient Greek novels: the fragments, 82 sqq.).

 

 

 

 

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