Una destra senz’anima e soprattutto senza bussola

Una destra senz’anima
e soprattutto senza bussola
Un avant-propos un po’ pedante

Una destra senz’anima e soprattutto senza bussola
Un avant-propos un po’ pedante

 In politica, come nella vita, capita continuamente di dover fare delle scelte: di qua o di là, nei comportamenti come nei giudizi. Ma non ci si può affidare all’esprit de géométrie, non c’è un algoritmo che metta aprioristicamente al riparo dagli errori e dalle deviazioni. Una regola però c’è, ed è quella della coerenza, che nel buon vecchio Cartesio compare come seconda massima della sua morale provvisoria: una volta che si è presa una posizione mantenerla anche se sotto il profilo della possibilità logica potrebbe essere sostituita da un’altra. Scegliere una posizione significa infatti adottare un criterio che unifica in una visione d’insieme significativa i dati dell’esperienza. Quando questa visione d’insieme manca ci si trova nella condizione di un viaggiatore che si muove a casaccio in un territorio sconosciuto senza una bussola con cui orientarsi. Il problema è che non esiste un polo magnetico per quella bussola, tantomeno c’è un navigatore che suggerisce il percorso. Se così non fosse non ci sarebbero posizioni diverse e contrastanti: tutti seguiremmo lo stesso percorso, daremmo le stesse valutazioni, le cose ci apparirebbero in un modo univoco, saremmo liberati dalla responsabilità e dal rischio della scelta. Nella vita, e nella politica, le scelte si situano in una zona intermedia fra il caso e la necessità; sono esse l’ordine che sappiamo dare al mondo e, nella vita e nella politica, siamo noi a fare della strada che si è intrapreso quella giusta, rendendola tale proprio con la nostra determinazione.


E vengo al caso concreto: la responsabilità del collocarsi a destra

Se è vero, come penso, che i giornali che si dichiarano di centrodestra esprimono le posizioni dei partiti che si oppongono al regime della sinistra e del Pd, devo riconoscere che spesso su questioni cruciali ci sono incertezze, sbandamenti e clamorosi abbagli. Belpietro, sulla Verità da lui fondata e diretta, ha insistito per settimane su un presunto conflitto fra Renzi e Gentiloni, finendo così per attribuire al secondo un credito assolutamente ingiustificato. Gentiloni, con la sua aria dimessa, è esiziale per il Paese esattamente come Renzi, al quale deve il posto che occupa. Si dirà: ma esiste il precedente di Letta brutalmente estromesso da palazzo Chigi, che è la prova di una rivalità e di un conflitto autentici nell’ex Pci. Non è così. Letta e Renzi stavano sullo stesso piano, entrambi selezionati e imposti da poteri esterni al Paese, quegli stessi che hanno creato Macron per i francesi. Letta però non funzionava tanto bene, rischiava di fare la fine di Monti, e gli è stato contrapposto il parolaio di Rignano, che pareva in grado di bucare lo schermo e godeva di un certo appeal. Gentiloni, al contrario, è una creatura di Renzi, è interno al sistema e non solo non ha un’anima propria, non ce l’ha nessuno a sinistra, ma non è neppure animato da Bruxelles, dalla finanza mondiale, dai manovratori di Obama che hanno fallito con la Clinton ma sono ancora saldamente al loro posto.

E se è un grave errore prendere sul serio l’idea che Gentiloni intenda fare le scarpe a Renzi, ancora più grave è entrare nel merito dei conflitti interni al Pd e alla sinistra. Tolta una quota di antipatia personale che spiega qualche uscita del decotto D’Alema, quei conflitti sono solo un trucco per occupare più terreno possibile, per poter giocare il più alto numero di parti in commedia. Ma Sallusti, Feltri e Belpietro sembra che non se ne rendano conto. I compagni, alla frutta, possono solo sperare in un gran polverone, cercano di fare in modo che l’elettore che vuole affossare il governo voti per loro come se fossero loro l’opposizione e in questa furbesca schizofrenia oltre che dai media di regime, che fanno il loro mestiere, trovano una sponda anche a destra.


E che dire dell’incredibile assist a Minniti, fatto passare per uomo di destra non solo da giornalisti smemorati ma addirittura dalla versione nostrana di Marine Le Pen. Sentirlo applaudire alla festa tricolore mi ha creato un certo imbarazzo ma mi auguro che un imbarazzo anche maggiore lo abbiano provato i leader di Fratelli d’Italia quando il vecchio braccio destro di D’Alema ha cominciato a spingere convintamente per lo ius soli. Possibile che non abbiano capito che col nuovo ministro dell’Interno la sola cosa che è cambiata è che di sbarchi non si parla più ma continuano allegramente come e più di prima.

Il referendum è stata l’occasione perduta per finirla una volta per tutte con la contrapposizione nord-sud, come se si trattasse dei due emisferi. Il nordismo è il peccato originale e il limite della Lega bossiana, che Salvini si sforza di riscattare, con i giornali del centrodestra, escluso, ovviamente, il Tempo, che gli remano contro. In un tardivo tentativo di rimediare si è sostenuta la posizione del compagno pugliese: autonomia per tutte le regioni, come se non bastasse il danno che fanno con i poteri che hanno ora e in palese contraddizione con l’idea originaria del nord trainante e del sud parassita. Non è solo questione di opportunità politica: se qualcuno crede seriamente che ci siano regioni italiane antropologicamente migliori di altre dovrebbe farsi vedere da un bravo psichiatra. E non mi importa se quel qualcuno gode di grande prestigio sul fronte mediatico, per altro assai sottile, che dovrebbe opporsi alla sinistra.


Poi c’è la posizione sulla Catalogna. Dimentichi della circostanza non fortuita che a capo del governo di Madrid c’è un esponente dei popolari europei, visto come il fumo negli occhi dalla sinistra, e soprattutto dimentichi che per tradizione e coerenza la destra italiana dovrebbe sostenere una Spagna libre, grande y una, naturale alleata dell’Italia nel mediterraneo sia nel contrasto all’invasione africana sia come contrappeso alla mitteleuropa, politici e quotidiani dell’area liberale si sono stracciati le vesti per la povera Catalogna che aspira a diventare Stato. Chi si è dato più daffare in questa direzione è probabilmente Libero che titolava così un articolo di Giuliano Zulin: “L’Europa perseguita la democrazia, arrestati i leader della Catalogna”. Dipendesse da me metterei al bando per qualche decennio i termini democrazia e democratico, più screditati e vuoti della revolución sudamericana; ma vorrei chiedere all’articolista cosa ci sia di democratico in una secessione, al di là del fatto che sia una minoranza o una maggioranza a chiederla. Il sistema dei diritti-doveri è definito all’interno dello Stato, non è un dato assoluto e lo Stato non prevede, non può prevedere, il proprio smembramento attuato con le proprie leggi. Senza dire che a incriminare il secessionista e a volerlo arrestare non è l’Europa ma la giustizia spagnola, cioè lo Stato spagnolo. E a Bruxelles, checché se ne dica, una penisola iberica indebolita non dispiacerebbe affatto.


Il nordismo che sta di casa nel medesimo quotidiano si accompagna puntualmente all’attacco contro gli statali. Non contro i politici corrotti, e più che corrotti assolutamente inutili, ma contro poveri cristi di cui tutti abbiamo bisogno e che mandano avanti una macchina scassata non per colpa loro ma di quei politici. E speciali stoccate sono riservate agli insegnanti, confondendo sein e sein sollen, lo stato in cui sono ridotti scuola e insegnanti per colpa, ancora, di quei politici, con ciò che scuola e insegnanti rappresentano in un Paese serio, con ciò che scuola e insegnanti dovrebbero, anzi “devono”, essere. E attaccare la scuola e gli insegnanti nella loro essenza è demenziale, come è demenziale screditare il travet con la storiella ricorrente dei “furbetti del cartellino” mantenendo però un occhio di riguardo per le forze dell’ordine, che, viste da destra, da sinistra e dal centro, fanno sempre e comunque il loro dovere. Altrettanto incomprensibile l’atteggiamento verso la magistratura: se i giudici vanno attaccati, e io dico giustamente, quando si accaniscono contro il Cavaliere utilizzando intercettazioni scopertamente preparate ad arte da personaggi assolutamente inattendibili non ci si fregano le mani se gli stessi giudici si attaccano ai polpacci della Raggi. Proprio sulle intercettazioni si ripropone lo stesso atteggiamento ondivago, aggravato dalla circostanza che un giornalista dovrebbe sapere che al comune cittadino della questione delle intercettazioni con cui aprono le prime pagine non gliene importa nulla.

Insomma a destra, come nella berlusconiana casa dei moderati, c’è una gran confusione. Il giornale di famiglia prende tranquillamente in considerazione l’ipotesi di un accordo postelettorale fra Renzi e Berlusconi, rafforzata dal modo cauto col quale viene smentita. Sembrano lontani i tempi in cui il Cavaliere faceva dell’anticomunismo la sua bandiera, e i fatti avevano dimostrato che si trattava di una bandiera vincente. Con la faccia di bronzo che li distingue i compagni ironizzavano sostenendo che il comunismo non esiste più, gli stessi compagni che continuano ancora oggi la lotta contro il fascismo, notoriamente attuale; ma gli italiani evidentemente non la pensavano così e si affidarono a Berlusconi proprio perché anticomunista e capace di sconfiggere la sinistra. Ma ora per lui il nemico non sono più i comunisti più o meno travestiti ma il populismo dei Cinque stelle. Mentre Salvini finalmente ha capito che bisogna guardare oltre l’impreparazione e, purtroppo, anche lo scarso acume, non solo quello politico, dei loro rappresentanti per cogliere il significato positivo della loro presenza nel panorama politico italiano, Berlusconi sembra ventilare la possibilità di una santa alleanza contro i populismi, riferendosi ai Cinque stelle ma forse con un pensierino anche per gli alleati. Lo dico con grande amarezza perché l’uomo di Arcore è stato un gigante nella politica italiana dal dopo guerra ad oggi, l’unico dotato di una statura internazionale. Ma ora si deve mettere da parte, e non per ragioni anagrafiche. Aveva insieme le doti di uno statista e quelle di un leader politico, aveva carisma, intelligenza e cultura ma, ahimè, teneva famiglia e non ha saputo rinunciare ai suoi interessi privati. Non sono le olgettine che lo hanno mandato a fondo; gli scandali sessuali, quando il bersaglio è posto troppo in alto, sono inoffensivi: Mussolini ne faceva un vanto, sui Kennedy rimbalzavano senza lasciare un segno, Clinton ne è uscito con un rabbuffo, anche perché nessuno di loro dava a intendere di essere un bigotto o un moralista. Ora, tornato ad occupare il centro della scena, il Cavaliere rischia di fare molto male alla destra, o centrodestra, se si preferisce, e la sua stessa caratura è una zavorra per la coalizione.


Non mi piace l’espressione centrodestra, e non mi piace perché non riflette la posizione dei suoi potenziali elettori. Non mi piace perché assegna indebitamente a Fratelli d’Italia un peso che non hanno, come se fossero loro a giustificare il “destra” della coalizione. In realtà gli elettori di destra negli ultimi settanta anni non hanno avuto altro riferimento credibile che Forza Italia e il Popolo delle Libertà. Il Msi era un partito di nostalgici di non si sa bene cosa; secondo me semplicemente usurpavano una parte di un patrimonio non loro. Giorgia Meloni, per fortuna, non guarda più indietro ma non sembra nemmeno capace di vedere abbastanza avanti: al confronto i ragazzi di Casa Pound hanno una carica ideale e una visione strategica di tutto rispetto ma senza un leader non andranno da nessuna parte. Il centro del centrodestra non si sa cosa sia: il centro, i moderati, quelli del sì, però, un po’ di qua e un po’ di là, ci sono già, il loro campione è Casini, lasciamoli vegetare all’ombra della sinistra e del Pd.

Non mi piace l’espressione centrodestra perché pare fatta apposta per indicare un ponte attraverso il quale transitare allegramente da destra a sinistra. Se c’è una speranza per l’Italia questa è subordinata ad un taglio netto con la sinistra, con i suoi stereotipi, la sua retorica, la sua leziosaggine salottiera. Il Paese ha bisogno di chiarezza, di qua o di là, da una parte o dall’altra. Non è un caso che se per il Pd di rito renziano, che punta tutto sulla diaspora in parlamento, è centrodestra per i bersaniani, che nella commedia del Pd interpretano la parte dell’ortodossia, è la destra, anzi sono le destre, di cui il romagnolo, accarezzandosi la zucca per attivare le sinapsi, avverte, dice lui, la minaccia da almeno tre anni. E allora si ricordi a Berlusconi, e dovrebbe ricordarglielo la stampa d’area, che i voti che ha preso in Sicilia non sono voti di moderati, di conservatori, di benpensanti: questi continuano a votare per il Pd e la sinistra. Sono voti di gente arrabbiata, arrabbiatissima, che non si fida dei Cinque stelle e non vota in massa per la Lega perché odora ancora di bossismo e di padania. Sono voti di gente che vuole un cambiamento, che è disgustata dalla politica ma si è presa la briga di andare a votare e dare un’altra carta alla coalizione perché sia alternativa al regime, alla sinistra, alla stagnazione, all’invasione, alla quale l’isola paga da troppo tempo il prezzo più alto di tutto il Paese.


Attaccati stupidamente per una polizza vita e per le malefatte di chi li ha preceduti nell’amministrare Roma, Torino o Livorno, i Cinque stelle rischiano di passare indenni da tre clamorosi infortuni confezionati in un paio di giorni: la fuga di Di Maio dal confronto con Renzi, che sarebbe stata la cartina di tornasole per vedere se il designato vale qualcosa almeno sotto il profilo dialettico, l’aver preteso l’allontanamento di tre giornalisti dal ristorante palermitano dove intendevano cenare al riparo da orecchie indiscrete, il rifiuto di riconoscere la secca sconfitta elettorale per la presenza nella lista avversaria di “impresentabili”. Una mancanza di stile sulla quale un giornalismo serio avrebbe dovuto battere senza pietà e che è invece stata appena sfiorata. Dall’altra parte, non potendo minimizzare la batosta della sinistra, la stampa di regime ha cercato anch’essa di ridimensionare l’affermazione della coalizione puntando però sull’astensione. Siccome ha votato meno della metà degli aventi diritto, ci sarebbe un problema di rappresentanza, quasi quasi di legittimità democratica. Come se chi non ha votato, se l’avesse fatto, avrebbe scelto la sinistra. Gli editorialisti dei giornaloni non hanno capito molto: il non voto è uno sfregio alla politica, ai partiti, alla democrazia e in Italia oggi la politica, i partiti, la democrazia, di fatto coincidono con la sinistra, che è riuscita a farne una poltiglia indistinta; e il non voto è molto più eloquente del voto di protesta dato ai grillini o alla destra. Una protesta contro il regime che ha soffocato la dialettica politica, ha occupato tutte le istituzioni, la Rai, le grandi aziende di Stato, gli organismi di controllo e ha imposto il pensiero unico in tutti gli ambiti della società civile.

E proprio su questo l’ultima perla, che purtroppo vede come protagonista la migliore firma del quotidiano di Belpietro, quella che da sola vale il prezzo del giornale per la campagna contro gli sbarchi, le Ong e tutto il marcio dell’invasione. Ora però leggo “Lerner e Veltroni confessano che la sinistra è morta trenta anni fa” e mi cascano le braccia. La sinistra non solo non è morta ma non riusciamo più a distinguerla perché ci viviamo dentro, ci ha sommerso nella sua massa gelatinosa, ha permeato di sé il costume, il linguaggio, l’ethos, gli atteggiamenti collettivi, le istituzioni tutte.

  Pier Franco Lisorini

 Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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