Una corda tesa fra gli eletti e gli elettori

Una corda tesa fra gli eletti e gli elettori
Il movimento Cinquestelle da ariete a stampella per il regime

Una corda tesa fra gli eletti e gli elettori
Il movimento Cinquestelle da ariete a stampella per il regime

  L’onda del populismo ha sommerso l’Italia e spazzato via la sinistra e i cattocomunisti del Pd. Questo è un dato di fatto incontestabile, registrato come tale e con grande preoccupazione da tutte le cancellerie europee e non solo. Le due forze politiche che hanno annientato il regime che ha retto l’Italia dopo la caduta di Berlusconi sono la coalizione di centro destra e il movimento Cinquestelle. I loro programmi elettorali coincidevano nella rivendicazione della sovranità del Paese nei confronti dei burocrati di Bruxelles, con non velati ammiccamenti all’ipotesi dell’uscita dall’Unione o quantomeno dall’euro. Con sfumature diverse ma un denominatore comune le due forze politiche in campagna elettorale si erano impegnate su meno tasse per le imprese e le persone fisiche, sulla fine del business dell’immigrazione “clandestina”, sul ripristino del welfare per gli italiani. 


Che il governo dovesse essere espresso da queste forze era semplicemente ovvio. Dirò di più: anche se la coalizione di centrodestra avesse avuto quel pugno di voti in più per una maggioranza autonoma, il rispetto della volontà popolare avrebbe dovuto imporre un accordo col movimento perché, considerati l’affinità della impostazione programmatica, il comune obiettivo della lotta al sistema, la stessa base sociale, la stessa esigenza di cambiamento, sarebbe stato innaturale confinarlo all’opposizione; per definizione l’opposizione compete ad una forza politica alternativa, non contigua. 

E, in democrazia il capo dello Stato, senza tanti indugi, avrebbe dovuto immediatamente conferire l’incarico di formare il governo al capo della coalizione che aveva ottenuto la maggioranza dei suffragi e una maggioranza relativa alle camere. Non l’ha fatto, grazie anche ad una Costituzione imprecisa e approssimativa, ha menato il can per l’aia, ha dato un l’incarico esplorativo ad una carica istituzionale – per carità, lo poteva fare – ha frettolosamente bocciato quella esplorazione per dare di nuovo un incarico – esplorativo? – all’altra carica istituzionale e qui siamo al limite del colpo di stato. Se l’incarico a Fico non aveva una valenza politica si trattava di una inutile replica, se l’aveva perché non lo ha conferito a Salvini? Quando mai la maggioranza deve essere assolutamente garantita a priori? Mattarella ha inizialmente messo Di Maio nella condizione di doversi confrontare non con la coalizione ma con i tre partiti che la compongono, fornendogli così un comodo alibi per rifiutarsi di sedersi a un tavolo in una posizione di inferiorità: se, come avrebbe dovuto, avesse dato l’incarico a Salvini sarebbe stato con Salvini capo della coalizione e non della Lega che i Cinquestelle avrebbero dovuto accordarsi per una eventuale ma probabilissima compagine di governo. 


Non sono nella testa di Di Maio. Può darsi che abbia colto la palla al balzo, può darsi che dietro questa manfrina ci fosse un accordo, magari maturato durante e dopo il suo tour europeo, può darsi che Salvini sia stato raggirato da un pataccaro, che Berlusconi, Mattarella, Di Maio siano gli esecutori di un piano teso a vanificare il voto popolare già a partire dalla legge elettorale, può darsi che in questi cinquanta giorni sia andato in scena l’ultimo atto della tragicommedia iniziata nel 2011. L’ultimo atto che sancisce il de profundis della democrazia, scopertamente affossata con Di Maio nel ruolo di becchino. Spaventoso il suo sorriso mentre dichiarava che ormai “il dialogo con la Lega è definitivamente chiuso” e la strada per dare un governo all’Italia “passa attraverso l’alleanza col Pd”. D’un colpo il giovanotto napoletano ha ridato smalto e credibilità a tutti i personaggi, anche ai peggiori, che, dal dopoguerra ad oggi, hanno impersonato la politica nel nostro Paese, compreso il venditore di pentole di Rignano. Ho provato un sincero imbarazzo per gli undici milioni di italiani che hanno votato per lui e per il suo partito e un senso di sconforto per il livello di bassezza morale oltre che politica di cui si è dato dimostrazione.


Di Maio aveva già passato il limite della decenza quando aveva cominciato a parlare di due forni, dimostrando così di infischiarsene del voto popolare, dei programmi, della storia e della vocazione politica dei partiti. Poteva essere sgradevole tatticismo, un modo, pessimo, per ottenere il massimo vantaggio nel confronto col centrodestra; se come ricatto rivelava la dubbia affidabilità dell’uomo, quello che è successo dopo, a parte il ruolo di Mattarella, ha mostrato il nulla che stava dietro il suo incedere da manichino, un nulla di cui si potrebbe anche ridere se non fosse che il Paese sta affondando e non si può permettere intermezzi burleschi. Immaginiamolo accanto a Martina, il leader di un partito che non esiste più, quello che sostiene che “non si può consegnare il Paese alla Lega” (è una minaccia?). Il leader del partito che non ha più elettori in combutta col leader che i suoi elettori li tradisce senza fare una piega: nessuno dei due rappresenta più il popolo italiano e pretendono di governarlo, con un unico chiaro obiettivo: che nulla cambi. E intanto continuano allegramente gli sbarchi sulle nostre coste.

A Roma, a Roma!!!

    Pier Franco Lisorini

 Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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