Un vecchio palazzo abbattuto

Un vecchio palazzo abbattuto

Pochi giorni fa, a Carcare, è stato abbattuto un vecchio palazzo, un edificio ormai abbandonato da molti anni 

Un vecchio palazzo abbattuto

 

 Pochi giorni fa, a Carcare, è stato abbattuto un vecchio palazzo, un edificio ormai abbandonato da molti anni. Lo chiamavano il palazzo “del gallo”, per via della banderuola segnavento con la classica forma, altri lo chiamavano “da Vandoni”, dal nome del gestore del negozio di ricambi auto che fino a diversi anni fa si trovava in quello stabile.


Comunque sia palazzo e capannone artigianale attiguo sono stati presi in carico da una ditta specializzata e preparatissima, e in poche giornate di lavoro hanno letteralmente sbriciolato tutto, selezionato calce e pietra dal ferro, dalla plastica o da altri materiali più o meno riciclabili. A poche decine di metri è stato fatto uno scavo preciso e sono stati interrati gli inerti calcinacci. Pare che l’area sarà occupata da un supermercato, già presente a poca distanza, che si trasferirebbe così in un sito più comodo, ampio, meglio servito anche dal punto di vista della circolazione stradale.

Tutto questo ha molti aspetti positivi: il recupero di un area abbandonata, la creazione di lavoro (sia nell’edilizia, sia relativo all’ampliamento del grande magazzino), l’aumento degli introiti per il comune di Carcare, il miglioramento del traffico, la maggiore scelta nel supermercato eccetera.


Sui social network abbondano le foto delle ruspe mentre distruggono il palazzo. Spuntano anche le cartoline d’epoca con l’edificio appena eretto. Parte quasi una certa operazione nostalgia, ricordando i bei vecchi tempi che non tornano più. La chiacchierata sulla rete verte anche sulla questione “Storia locale”. La maggior parte delle persone liquida la cosa rapidamente: l’edificio era vecchio e pericolante, non si poteva restaurare, questo recupero dell’area porta fatturato e lavoro e quindi nulla deve ostare al progetto, meno che mai le velleità degli storici o appassionati di tradizioni locali. Altri fanno notare che, non essendoci vincoli da parte di istituzioni preposte e non essendo evidentemente un esempio architettonico, non sarebbe stato necessario farsi alcuno scrupolo.

Tutto vero, per carità. Peraltro abbiamo già assistito a numerose demolizioni in valle, alcune più “fragorose”, altre più silenziose: un gruppo di case coloniche di origine probabilmente medievale a Murialdo (erano pericolanti); la cascina nei pressi del distributore della diga Montecatini, dove si diceva fossero state bruciate delle streghe, una parte del convento della Vesima a Cairo, gli edifici della vetreria di Carcare, una buona parte degli edifici della produzione di pellicole a Ferrania, numerosi reparti dell’ACNA a Cengio, l’antica vetreria di Altare, le case della Brignoletta a Cengio… Insomma, il piccone ha colpito, con tutte le buone intenzioni per realizzare una immaginifica “via della conciliazione” tra i demolitori e i costruttori con il giusto guadagno (si spera) anche per l’ente locale, il bene pubblico.


Funziona così, di per sé è anche giusto che per edificare occorra pure demolire. Oppure anche solo per sicurezza: se un edificio rischia il crollo e non si può restaurare, si deve abbattere.

Mi ha sempre stupito però la scarsa sensibilità per la nostra storia: troverei cosa ottima se i demolitori, prima di dar mano alle ruspe, chiamassero storici, appassionati e fotografi, e lasciassero (ove le condizioni di sicurezza lo concedano) la possibilità di documentare quel reperto prima di abbatterlo. O anche la possibilità di recuperare oggetti, ricordi, pezzi di memoria che si possono trovare dentro quegli edifici, prima che vengano rasi al suolo e sbriciolati. Nell’archivio di un paese non ci può essere posto solo per le copie e le minute delle circolari ministeriali e dei registri d’anagrafe. Si potrebbe disporre uno scatolone dove conservare foto, testi, articoli, ricordi delle cose che passano, possibilmente senza retorica. Non si può impedire al fatturato di crescere, per carità, questo non sia mai. Ma possiamo salvare qualche pezzetto di memoria, anche perché noi contemporanei non ne conosciamo l’importanza. Gli etruschi gettarono via dei vasi rotti, raccolti duemila anni dopo da uno storico emozionato, che li ricompone e li mette in una bacheca di cristallo…

 

Concludo osservando un particolare molto doloroso per me: il terreno fertile diminuisce sempre di più. I calcinacci del palazzo sono stati seppelliti a pochi metri dal palazzo stesso. Quell’appezzamento (fino a ieri pascolo per vacche) è diventato incoltivabile. Ma non per un paio d’anni… Per sempre. Nessuno lì ci potrà mai più coltivare. E questo mi addolora, perché vuol dire che non ci interessa quello che vorranno chi verrà dopo di noi, quali bisogni avranno. Ci sono ancora tante aree industriali abbandonate, perché erodere terreno fertile? Il censimento dell’agricoltura ci racconta di una provincia di Savona sempre più deturpata e consumata dal cemento, dalle strade, dagli svincoli. Non potremo mangiare cemento, non possiamo dipendere sempre dall’estero per la nostra sostentazione. Ed è curioso, infine, che in questo contesto si indulga tanto spesso (mai come oggi) a celebrare la vita contadina, il biologico, il “Km 0”, le antiche tradizioni d’allevamento, inventandosi addirittura il “Foro boario”. Temo però che l’unico “foro” che conti sia quello che viene periodicamente riempito di “zetto”.

ALESSANDRO MARENCO    Foto di Roberto Zunino da Savonanews

 

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