Un sogno. Gerusalemme, 10 maggio 2035

Un sogno

Gerusalemme, 10 maggio 2035

Un sogno
Gerusalemme, 10 maggio 2035

La parte vecchia di questa città è molto ambita dai turisti. Ognuno ci vede un po’ quel che vuole, ma soprattutto, da quando hanno cominciato a girare dei film, queste pareti un po’ scalcinate, queste vie strette e anguste, le pietre, le palme, le scale, gli archi, tutto è entrato in quell’immaginario collettivo che vorrebbe ritrovare i sapori più antichi nelle suggestioni del paesaggio.

         E in effetti è un gran bel paesaggio il tramonto da questa terrazza. Che poi sarebbe più giusto chiamare pianerottolo. Comunque ci stanno un tavolo  e quattro sedie.  E la tavola è apparecchiata, e il sole è agli sgoccioli. Però sono voltato verso ovest, a sentire la brezza marina profumata (profumata per definizione ché l’uomo lascia le sue tracce e non hanno sempre un buon sentore…) e vedo di fronte a me le stelle sorgere sul degradare dei colli e sopra di me il cielo ancora quasi chiaro.

         Il terrazzino è assediato dalle altre case: si sostengono a vicenda, si appoggiano e si sospingono. Ogni tanto, fra mura altissime, spunta la chioma che sai verde, e degnamente si staglia contro altre mura facendosi riconoscere.


 

         Nella buona stagione la pubblica amministrazione riempie queste vie di luci minute e giallognole, non disturbano e consentono appena di muoversi, lasciando ai gatti e agli amanti furtivi l’oscurità che auspicano. Tutto ha un colore di fiaba, se non fosse che qualche metro di sotto fanno abbrustolire sulla brace della roba inesplicabile, il cui fumo giunge dritto sul terrazzino, appena calmierato dalla brezza. Il terrazzino stesso sembra sia stato costruito per dare occasione a chi sale al piano di sopra di ficcanasare un po’. Ogni quei tot minuti passa uno. Ne passano alti, bassi, barbuti e glabri. Ne è passata una coi capelli neri e lucidi raccolti sulla nuca, gli occhi affilati come lame di Damasco. “Buonasera” le ho detto, lei ha sorriso appena, ha chinato il capo: “Buonasera e buon appetito”. Poi ha continuato a salire. Italiana? Ho pensato. Che ci fa qui? Turista. Vabbè.

         Compiuto il tramonto è spuntato fuori da dove non saprei il buon vecchio Bin.  La camicia immacolata sulle braghe nere, le maniche risvoltate, i capelli bagnati di chi s’è appena fatto la doccia.

         “Cominciavo ad aver fame Bin, non avevamo detto alle sette?”

         “Avevamo detto, non avevamo detto. Tu hai in tua testa il tempo. Tu pensi sempre a ora. Non pensare: tutto più semplice. Quando hai fame mangia. Se sei bene educato tu aspetta. Se sei maleducato o muori di fame tu mangia. Semplice no?”

         “Già, semplice. Tanto manca anche Ben. Voi semiti siete tutti uguali!”

         “Senti, non-circonciso, stasera sei ospite e sei in minoranza. Non è meglio che taci? Che hai portato tu da mangiare? Io ho di là un sacco di buone cose. Tu che sei taliano portato spaghetti eh? Sempre solo spaghetti capumarola eh? Ah ah ah!”

         “Macchè spaghetti. Il dolce ho portato. Che non è il vostro mestiere con tutti quei paciughi di fichi secchi e datteri. Li infilate dappertutto i datteri. Ma che fantasia… E poi il vino. Non fare quella faccia. Tanto lo so che è tutta scena, che un bicchiere lo bevi. Io e Ben lo beviamo, tu stai a guardare”.

         “Io lo bevo così è veleno in meno per voi: mi sacrifico per la vostra salvezza, sono o non sono buono? E poi non conosci tu l’imam Umar Khayyam? Più di mille anni dietro cantava nelle Ruba ‘iyyat: “Dovendo bere vino, fallo con i sapienti / o con una bella dal volto di luna; / dovendo bere vino fallo con dovizia, / bevine poco, ogni tanto e in segreto”. Bello no? Se dice così l’imam io posso bere un bicchiere. Voi siete sapienti? Non credo. Ma bella con volto di luna stasera non poteva, per cui io mi accontento.”


 

         E’ arrivato Ben, è fermo e regge gli involti. Guarda su per le scale e sembra allibito. Si volta verso di noi già seduti a tavola in cerca di approvazione. Ma per cosa? Appare nella penombra un piedino femminile che viene da su e va verso Ben. E’ la fanciulla di prima. Si volta verso di me e mi saluta con un cenno e un sorriso. La scala è ripida e stretta. Guarda Ben, come dire, ti togli o ci facciamo le radici? Ben si scosta, vorrebbe fare qualche gesto plateale, tipo salutarla o inchinarsi, ma i pacchi lo impacciano. Bofonchia un saluto in ebraico e poi gliene appiccica svelto uno in arabo, si sa mai. E lei: “Buonasera e buon appetito”. Poi discende. E chi la rivedrà più?

         “Potevi, o Figlio d’Israele che non sei altro, invitare la signorina a bere un bicchiere ad assaggiare un qualcosa, a sedersi con noi, sorta di un maleducato che non sei altro?”

         “Potevi far qualcosa tu, sei buono a parlare adesso. Ero pieno di pacchi e dovevo ancora parlare, col fiatone. Tutto ti devo dire… E poi lui che la conosce, non poteva invitarla lui? Tanto più che mi sembra parli delle tue parti. Oh! Taliano! Ce l’ho con te, sai!”

         “Non la conosco. L’ho salutata mentre saliva e lei mi ha salutato. Tutto qui. Ma non cambiare discorso: ti sembra l’ora di arrivare? Lo sai la fame che abbiamo?”

         “Taliano noioso! Tu non sarai mai degno di abitare la Città Santa. Calma ci vuole: che importanza c’è se mangi a ora o altra ora. Non puoi aspettare? Muori di fame? Ti sembra che Bin si lamenti? Eppure più magro di te! E allora?!”

         “Senti, città santa o meno, cerca di posare e preparare che adesso è proprio ora di mangiare. E lascio volentieri la santità per un buon piatto e un buon bicchiere a quest’ora. Non mi interessa la religione, adesso.”

         “Bin, spiegaglielo tu perché è santa, questa città, io preparo e torno subito che almeno mangiamo. Però ricorda taliano: filosofia si fa dopo mangiato, mai prima.”

         “Taliano ascolta adesso parola di palestinese che non raffinata come quella dell’ebreo ma buona anche la mia. Tutti pensa che santa perché tre religioni monoteiste qui si sono sbudellate come si deve, perché muri e strade impregnate di insulti di uni verso altri, perché sciabole, bombe, pistole, pietre, editti, muri e leggi hanno ammazzato tutti quelli che poteva ammazzare. Secondo me non buono motivo per fare santo un posto o una città. Fortuna che ora da anni basta sangue, basta bombe o fucili, basta posti di blocco, pietre, martiri o missili. Ora è città più bella del mondo. Ci si viene per innamorarsi, per contrattare, per imparare, per mangiare. Le quattro cose che fanno l’uomo degno. Ma lo sai perché è santa? Perché per Islam non si lavora il venerdì, per i Giudei non si lavora sabato, per i Cristiani non si lavora domenica. Trova altro posto dove si lavora solo quattro giorni a settimana!”

         “E si, ma se al venerdì ho bisogno di un po’ di pane, per dire, mi tocca aspettare fino a lunedì! Che vita è? Che civiltà è?”.

         “E’ civiltà che tu bussi a tuo vicino e dici: “Ahmed, hai un po’ di pane che sono senza?” E lui dà. Semplice! Altra volta sarà lui da te!”

         “E poi ci sono i furbi che se ne approfittano! Lo so come va a finire”

         “Lascia i furbi che possono approfittare fin che vogliono! Mai sentito di uno andato in rovina perché prestava un pezzo di pane o una tazza di zucchero”.

         “Ma non è giusto!”

         “Ma sei duro allora! Se non giusto tu dici a chi viene a chiedere che NO. E bon. Semplice no? Vai a stare in Putaniburgo, come diceva quell’altro taliano, che mi faceva ridere, vai a stare dove tu vuoi, basta che non rompi i maroni, come dite voi. Giusto?”

         “Giusto, giusto. Per carità.”

         Ben, dal passo affrettato, ha deposto sul tavolo una pignatta di terracotta col suo coperchio che ora solleva. Uno sbuffo di vapore e un profumo speziato invade l’aria.

         “Minestrone!” dico io: “Con questo caldo!”

         “Taliani tutti noiosi come te o tu hai fatto una scuola speciale? Taci. E’ cholent, tu sai cos’è?”


         “Sicuro che so cos’è: è minestrone. Solo che voi per darvi delle arie siete impagabili. Lo faceva anche mia nonna, il minestrone, cosa credi…”

         “Questo è cholent, non minestrone, ed è il mangiare ebraico del sabato, quando non si deve cucinare. Si portava la pentola al forno al venerdì pomeriggio, il fornaio la metteva dentro e al sabato si poteva andare a prendere ed era cotto e caldo. Tutto senza toccar niente di sabato. Questa è cultura, belina, mica la tua del basilico pestato nel mortaio!”

         “Ma va là, che il minestrone nel forno lo facevano anche da noi, che quando c’era poco tempo per cucinare uno preparava tutto prima. Lo abbiamo insegnato noi ai Figli d’Israele!”

         “Non credo. Poi qui c’è il manzo e le uova e le spezie che te e tua nonna non avevate. Comunque qui c’è anche l’ hummus.  Saggia taliano, ti piace?”

         “Massì che mi piace. Noi si chiama panizza e a me piace fritta, magari. Così com’è invece che metterci tutto quel cumino e peperoncino a me piace con la cipolla cruda sottile.”

         “Poi, per i palati più raffinati, ecco la midya shorbat, che ne dite?”

         “Zuppa di cozze?! Ma ti sembra kasher? Non è che mangiate solo pesci con pinne e squame?”

         “E’ piatto tradizionale. Sei tu forse contro le tradizioni, taliano?!”

         “Per carità. Se piace a Bin, poi…”

         “Buono anche quello. Adesso vado io, intanto che cominciate a mangiare, e prendo mie pietanze, che non è per dire, ma sono meglio di giudaiche e cristiane messe insieme.”


         Mentre io e Ben ci gustavamo cholent, midya shorbat e hummus con un buon bicchiere di rosso (il dolcetto l’ho portato io…) Bin s’è addentrato nella cucinetta al piano del terrazzo. Lo sentiamo rimestare e preparare. Io mi volto ancora una volta a vedere la bella città, enorme e delimitata dalle poche luci minute come stelle. Nell’aria ci sono tutti gli odori possibili, a saperli discernere, anche quelli che solo vorresti sentire nell’oriente di cui sai e non sai.

         Brilla la cupola di Omar, biancheggiano le case più nuove e l’aria vespertina carica dell’umido del mare mi restituisce la stessa opacità del maggio dei miei boschi. Ma qui boschi niente, qui alberi pochi. Stanno ricominciando a crescere i cedri del Libano ma ci vorranno più vite d’uomo per farli arrivare a com’erano un tempo.

         Torna Bin sorridente, reca un vassoio alto oltre la sua testa. L’appoggia e ci illustra: “Khubz bij-jibin. Una pasta da forno con pomodoro, formaggio, olio, origano e spezie. Buonissimo!”

         “Stai calmo, Bin. E’ pizza margherita”.

         “Uff… Taliano tu taci e assaggia prima di parlare. Se no sai taci. Allora assaggia questo: fakhda dani mashwiya, che ne dici?”

         “Buono, ma è agnello arrosto, lo fanno anche in Sardegna e in sud America”.

         “Taliano sei noioso e basta. Lo sappiamo che alla fine la roba che si mangia è quella. Magari c’è più spezie dove fa più caldo ma la musica non cambia mica di tanto. Poi sei un po’ duro di comprendonio vero? Sei ancora di quelli che crede alle nazioni, all’appartenenza ad una nazione. Sei convinto di essere taliano più di altri, vero? Eppure da quando hanno inventato il lettore genetico dell’iride queste storie sono tutte passate, vanno bene per far quattro chiacchere, ma mica di più. Solo tu ci credi ancora.”

         “Ma non è che ci credo… Dicevo per dire, insomma, si fa per chiaccherare…” (ma quanto sono permalosi questi arabi…).

         “E come funziona esattamente questo lettore dell’iride?” chiedo a Ben, che è lo scienziato di questa tavolata.

         “Mah, di preciso non so. Però so che è un raggio che si punta nell’occhio e acquisisce dati e li incrocia con le banche dati del mondo e fin dove può ti dice di chi sei figlio, nipote, pronipote, e se non c’è archivio di nomi ti dice da quale terra viene il babbo, il nonno, la mamma, la nonna e avanti così fin che vuoi. Da morire dal ridere: i primi tempi sono scoppiate delle carneficine nelle famiglie. Poi hanno scoperto che in ogni linea di ascendenza c’erano dei “clandestini”, per dire, e neanche tanto lontani nel tempo.  E siccome tutti li avevano qualcuno è caduto in depressione, qualcun altro (i più, per fortuna) hanno capito e vivono meglio di prima. E con questa storia nel giro di qualche anno gli stati nazionali non valgono più niente. Restano i nomi perché dire Italia è come dire un posto preciso, come dire Monte Bianco, o isola Gallinara, ma la nazione non c’è più. Bello no? E se non c’è nazione non c’è più guerra e non c’è più etnia e tradizione sacra e inviolabile e non c’è più religione di stato o meno. Ognuno prega se vuole. Semplice no?”


         “Un momento” interviene Bin: “Non direi che non c’è più guerra. Se lunedì prossimo il Gerusalemme si fa soffiare un’altra volta lo scudetto dall’Hebron altro che guerra… Non vorrei mancare. Ierosolimitani forever!”

         “Senti che roba: anche senza le nazioni c’è qualcuno che non può fare a meno dell’appartenenza a un blocco, a un gruppo. E pensare che nel Gerusalemme ci giocano ebrei, palestinesi, un cipriota e due turchi, un italiano e un finlandese. Mi dici che cosa c’entra Gerusalemme?”

         “Massì” gli dico, “Stavo scherzando anch’io… Non si capiva? Lo so come e cosa è successo, è stata la cosa migliore che poteva succedere al mondo. Così smettiamo di guardare alle nostre antiche origini millenarie e ci mettiamo a pensare al domani, a quel che c’è di buono da fare e da mangiare. Mi ricordo benissimo quando è arrivato in Italia quel raggio, a quel tempo c’era pieno di gente che rivendicava legami inesistenti col terreno, quasi fossero vegetali. Mi ricordo di uno… Aspetta, ne avrete sentito parlare anche voi, era un irriducibile, urlava il suo radicamento alla  terra con tutta la voce che avea in corpo… Aspetta… Borghezio! Ecco! Vi ricordate, vero?”

         “…Noi…”

         “… Veramente no… Era un personaggio storico?”

         “Storico magari no, ma era un politico, un deputato al parlamento europeo.”

         “Tu aspetta, taliano, che io ho il “Who ‘s who?” di ultimi cent’anni su mio palmare, e ti dice subito tutto di tuo Broghesio”

         “No, scusa, è Borghezio, non Broghesio. Allora? Che dice il tuo palmare?”

         “Dunque: Aristide Borghezio, campione regionale di freccette.”

         “No, non è lui. Ce ne sono altri?”

         “Ah! Ecco: Erifranio Borghezio, rimase famoso perché riuscito a incastrare dito in macchinetta tikets del parcheggio. Che sagoma!”

         “No, non è neanche lui… Ma possibile che non ci sia?”

         “Strano ma non c’è. Dimenticato. Ma perché dovrebbe essere ricordato?”

         “E’ rimasto negli annali perché gli hanno puntato il raggio nell’iride, quello genetico, lui tremava tutto al pensiero dell’esito. Poi l’addetto ha letto il responso sul video, ha scrollato la testa. Non ci credeva. Ha ripetuto l’esame altre tre o quattro volte, è andato a chiamare il capo, poi il responsabile tecnico, poi l’addetto alle riparazioni. Borghezio era atterrito: non sapeva che dire. Poi hanno ripetuto la misura, hanno letto. Il capo s’è avvicinato a Borghezio e gli ha detto come stavano le cose: lui era veramente padano. Ma proprio padano-padano! Da innumerevoli generazioni, frutto dell’incrocio di ascendenti a loro volta assolutamente padani. Un caso incredibile! Unico al mondo! Il capo si stupiva anche perché diceva che a generare sempre tra consanguinei non è che si abbiano dei frutti poi molto buoni. Poi il capo aveva guardato Borghezio negli occhi e non ha detto più niente. Comunque ne avevano parlato parecchio i giornali. L’avevano portato in una clinica molto bella dove gli avevano fatto tutti gli esami del caso, tutte le misure, compresa la corsa nel labirinto come quello dei topolini. Non so come sia andata a finire, comunque un caso veramente notevole. Mi stupisco che non sia registrato nel tuo palmare!”.

         “Mah, potrebbe essere difettoso: sai questa micro tecnologia somala, non è che sia tanto affidabile…”

         Intanto su Gerusalemme è piovuta lieve un’altra notte. C’è un bel silenzio, se non fosse per noi che mangiamo, beviamo e chiacchieriamo. Mi ricordo, quand’ero più giovane, che in notti come queste, da queste parti c’era chi vestiva cinture piene di tritolo, e c’era chi, nello stesso momento, si alzava in volo su di un elicottero. Avevano entrambi una missione da compiere, convinti di quel che facevano per la salvezza della loro anima, per la gloria della loro nazione. Loro e chi ha armato le loro mani dormono da tempo sonni tranquilli. Che mai più sangue versato discenda tra le pietre a funestare quel sonno.

ALESSANDRO MARENCO

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