Un melo, un confine, due case

Un melo, un confine, due case

Un melo, un confine, due case

Mio zio si chiamava Edoardo e abitava una casa indipendente, sul fianco di una collina esposta a sud, nel comune di Dego. Viveva con la moglie nella casa che era stata dei suoi genitori, dei suoi nonni, forse ancora dei suoi bisnonni.

La cucina aveva, anticamente, una sola porta che conduceva direttamente all’esterno. Il cortile fangoso era limitato da un basso muretto. Sopra il cortile la “lobbia”, ovvero il camminamento coperto ma aperto per raggiungere le camere e porre il granoturco ad asciugare; più in basso rispetto al cortile c’era il pollaio, nel mezzo un grande fico, dal quale nella stagione giusta era facile spiccare alcuni frutti neri e dolcissimi, salendo sul basso muretto.

Oltre il fico null’altro si vedeva che colline coperte di boschi. Nudi nell’inverno o coperti di foglie nell’estate; variegati di verdi nuovi e gioiosi in primavera; lussureggianti di calde tonalità d’autunno. Boschi sempre diversi, sempre più estesi, inarrestabili fagocitanti pascoli.

Sopra la casa di mio zio c’era la casa di Berto. Stessa età, stessa vita (più o meno). Anche lui con la moglie, anche lui contadino. Ma Berto e mio zio non si parlavano.

Io non so dire per quale motivo si fossero tolti il saluto. Forse non se lo ricordavano neppure loro. Si odiavano semplicemente, come se l’odio fosse naturale, come se non fosse anzi possibile far altro che odiarsi a vicenda e quindi, come d’uso da queste parti, si ignoravano signorilmente.

Esiste in dialetto un termine per designare questa condizione, questo comportamento che due persone possono tenere reciprocamente, oppure anche adottata da una sola persona nei confronti di un’altra. Questo termine è anek (si dice: “Ha l’anek con Tizio, non si parlano”). Si tratta di togliere dalla percezione del mondo reale quella persona, di non vederla, non considerarla, non parlare a… È di fatto uno dei sistemi più perversi e raffinati per dimostrare odio in maniera estremamente sobria. Non essere “parlati” equivale a sentirsi scartati, ignorati, equivale a non esistere. Nella condizione di non-esistente non c’è possibilità di emendarsi, di salvarsi, di essere perdonati. È una strada senza ritorno verso l’Ade. E tutto senza manifestare idee, proposte, apologie di reato in genere. Non che questa situazione sia poco faticosa: anzi. Basti pensare alla situazione che si crea quando due persone abitano vicine e, praticamente, sole. Si saranno incrociati, mio zio e Berto, decine di volte al giorno e ognuno avrà fatto di tutto non tanto per mostrare disinteresse, ma per non permettere alla presenza stessa dell’altro di cambiare il suo comportamento: tanta aveva da essere l’indifferenza che non si sarebbe potuto prendere in considerazione neanche la possibilità di scansarsi se l’altro fosse caduto al vicino. Sublime, sofisticatissima indifferenza.


Se uno dei due avesse avuto bisogno di una mano per reggere una tavola, per piantare un chiodo, se fosse scappato il tappo al tino mentre il mosto fermentava, il malcapitato sarebbe dovuto partire di gran galoppo, alla volta della casa vicina, pur sempre ad un chilometro e in salita, per chiedere aiuto.

Le stesse galline avevano percepito la sacralità dei confini: nessuna gallina di Berto fu mai vista razzolare nel cortile di Edoardo e viceversa. Forse gli stessi fili d’erba se ne guardavano bene di invadere la invisibile linea di confine.

Perché all’origine della incomunicabilità dei due c’era una questione di confini, sicuramente. Su quei colli, a quel tempo, la terra aveva un valore che andava al di là del prezzo. Possedere la terra voleva dire possedere un diritto: il diritto di seminare, di raccogliere, di passare; e quindi di mangiare, dare mangiare alle proprie bestie, scaldarsi. La terra era la vita e soprattutto era vita da uomini liberi. Il diritto necessita però di regole, di limiti, di accordi scritti e non scritti. Oltre a questo è da ricordare che la terra non è tutta uguale. Abbiamo oggi perso questa percezione, ma la parola “terra” non era neppure pronunciata direttamente. Ci si riferiva semplicemente a: “Un pezzo”, per dire appezzamento. Oppure ancor meglio: “Nel suo di…” per riferirsi più a un diritto che a un oggetto. La stessa costiera, lo stesso campo, che oggi appare corrotto da gaggie e castagni selvatici, era luogo d’elezione per l’aglio, per le prime patate, per le rape o per i piselli. Quella tale costiera andava per il grano e quest’altra era d’uso coltivarla a mais. Quando avvenivano le divisioni si cercava di attribuire ai comparenti appezzamenti adatti per costruirsi una dispensa più completa possibile. Per questo le mappe catastali ancor oggi rappresentano curiosi confini che ignorano spesso i limiti orografici (cime delle colline, ruscelli, scogliere), ma seguono un disegno complesso, che non sappiamo più leggere, e che comprendeva appunto l’idea di fornire a tutti gli eredi la terra necessaria per essere liberi.

Da questo discendeva l’importanza per i sacri confini, perché nessuno avesse l’ardire si spostare un terma (cosa quanto mai riprovevole, disdicevole e innominabile, anche solo come accusa), ma anche di contestare un passaggio, una lenzuolata di fieno, un ramo in più o in meno. E spesso si tratta di più d’una di queste cose, che accatastate e tenute da conto da una persona, diventano motivo di livore, di odio appunto.


Tra la casa di mio zio Edoardo e la casa di Berto c’era un melo. Un melo non molto grande, per la verità. Un melo che ogni anno produceva la sua modesta quantità di mele botazze.

Pochi conoscono questa qualità di mele, io ne ignoravo l’esistenza fino a qualche giorno fa. In realtà oggi conosciamo solo più le mele del supermercato: bellissime, perfette, tutte uguali, gialle o rosse, stark o fuji. Al limite le renette. Eppure esistono ancora bei meli nelle nostre campagne, alberi non grandissimi, spesso inselvatichiti e dimenticati, che nelle annate adatte si caricano di frutti. Spesso si tratta di mele piccole, non abbastanza “belle” da essere commercializzate, o con qualche altro difetto che le rende inadatte alla commercializzazione su vasta scala. Ma è sorprendente, passeggiando, raccoglierne una dalla terra fredda d’autunno, mondarla con un piccolo coltellino a serramanico, ed assaporarla. Scoprire così che esistono tantissime varietà e di conseguenza tantissimi gusti di mela, tante consistenze e tanti usi. Le migliori sono, secondo me, le piccole mele di un albero che possiedo (nel suo dei marenchi, io e mio fratello) a Giusvalla, e di cui non conosco la specie o il nome tradizionale. L’albero è vecchio, l’ha forse piantato mio nonno. Produce piccole mele, non più grandi di una clementina. Il frutto è duro e quindi poco attaccato dai parassiti. Il colore va dal giallo tenue a qualche velata macchia di rosso. La forma è tonda e liscia. La vera sorpresa è il profumo: all’olfatto ricorda indiscutibilmente il vino moscato. È addirittura curioso, e fa sorridere, a pensarci, che una mela sappia di vino dolce. Ma tale è. E spero solo che questa pianta non s’ammali.


Ma stavo raccontando delle mele bottazze di Berto: L’albero si trovava quindi sul declivio tra le due case. Non so se per vizio della pianta o della specie in particolare, passato Ognissanti le mele cascavano quasi tutte. Rotolavano, come la loro forma e la nota legge vuole, verso il basso, e cioè nella cunetta della casa di Edoardo. Berto non le avrebbe mai raccolte, così vicino alla casa della persona che ignorava. Edoardo non le raccoglieva: ignorava le mele come il suo legittimo proprietario. Per motivi diversi, e forse perché si sentiva un po’ trascurato il melo aveva praticamente smesso di farne. Certo, Berto avrebbe potuto raccoglierle sull’albero appena passate le tempora, diciamo dopo il giorno di San Matteo, quando, come tutti sanno benissimo, le mele si possono cogliere perché è finito il processo di maturazione sulla pianta; ma disgraziatamente salire sull’albero con la scala equivaleva inevitabilmente a ficcanasare in casa di Edoardo, visto che l’albero era troppo vicino alla casa. Insomma: non c’era soluzione. Le poche mele che Berto mangiava erano quelle che, cadendo, restavano incastrate fra un ciuffo d’erba e una pietra, o rotolando nel cortile a monte, per puro caso. Ma nonostante le mele fossero da entrambi ambite ed apprezzate QUELLE mele andavano perse, sgheiroie, o come si dice in riviera: scentate.

Fortunatamente le donne non erano tanto sprovvedute. Quando i due mariti andavano (ognuno per proprio conto) a caccia o nel bosco, loro sortivano guardinghe e prendevano qualche mela nel grembiule, fermandosi a commentare il tempo o il prezzo delle uova. Per le mogli, che portavano lo stesso nome: Pina, non era il caso di far questioni di fronte a quella roba messa lì a marcire, se ne prendevano un paio, intanto chiacchieravano, se le sarebbero fatte cuocere nella stufa. Le avrebbero mangiate anche i rispettivi mariti, che magari sospettavano qualcosa, ma senza un’esplicita informazione (che si guardavano bene di chiedere) non ci sarebbe stata infrazione al reciproco anecco.

Anni sono passati. I due vicini sono morti. Ci sono ancora le due case, abitate d’estate, e c’è ancora il melo nel mezzo, che nel frattempo è cresciuto. Si è slanciato verso l’alto alla ricerca di luce e le radici devono aver trovato terra fertile per prosperare. Da anni non lo notava (quasi) più nessuno. Lui forse s’era messo in pensione, o forse non sono stati anni proficui per i meli da quelle parti.

Quest’anno, dopo una bella fioritura, ha prodotto una quantità di mele stupefacente. Belle per qualità, consistenza e gusto. Come sempre dopo i Ognissanti si sono in gran parte staccate (ma molte sono ancora sull’albero) e sono rotolate verso la casa di Edoardo, fermandosi nella cunetta, formando un letto verde, lucido e profumato di mela. Io stesso ne ho raccolte una cinquantina di chili. Le brutte, ammaccate, marce, l’ho gettate in basso, a favore di cinghiali o caprioli. Ce ne sono ancora molte sulla pianta. Scenderanno anche loro, con calma, quando sembrerà a loro il caso di scendere. Mentre scaricavo le mele “brutte” a valle pensavo: non siamo abituati neanche a questo. Tutto, ora, è di prima scelta. Nei canestri dei supermercati, negli scaffali, nelle corsie, ci sono solo cose “perfette”. Ma la natura non è così: di ogni frutto (di qualunque frutto) ce ne sono di belli, storti, corrotti da parassiti, bitorzoluti, piccoli, marci, provenienti ad un tempo dalla stessa pianta. Ottimizzando il processo di coltivazione diminuiscono i frutti non “perfetti”, poi, grazie ad una scelta, i frutti che arrivano sul mercato sono divisi tutt’al più per calibro. Quello che ci manca a noi compratori, consumatori, è la nozione della varietà della produzione, del fatto stesso che la natura non produce le mele come quelle della pubblicità, ma anzi quelle mele sono rare, inusuali, sorprendenti. E che non sono più buone solo perché sono belle. Da questa consapevolezza dovrebbe derivare la considerazione che non si possono consumare solo i prodotti “belli”, ma occorre trovare uno spazio anche per le mele (o le patate, le noci, i piselli) che non sono perfetti. Allo stesso modo si può considerare la carne di bovino o di suino: sembrerebbe che le vacche siano costituite principalmente da bistecchine magre, al limite qualche pezzo di bollito magro. E tutto il resto? Dalla testa alle zampe, dalle interiora alla coda, tutto scarto? Possibile? Allora mi viene da fare ancora una considerazione: la cucina tradizionale, o meglio l’occupazione prevalente della cucina casalinga, era trasformare in edibile sostanze che non lo erano o che lo erano con difficoltà, oppure sostanze buone da mangiare ma dalla scarsa conservabilità: lo scarto del signore locale diventava prelibatezza. Persino la grappa, in quanto lavorazione di un prodotto di scarto, farebbe parte di questa famiglia.

Da queste considerazioni si potrebbe giungere al consumo della varietà dei prodotti in base alla disponibilità, e non in base all’offerta che viene fatta a livello unicamente commerciale. Si potrebbe infine ricordare che “non è sempre domenica”, non è sempre festa, non possiamo fare festa tutti i giorni. Ma qui scivolo nel moralismo e anche se mi diverto, lascio ad ognuno le conclusioni.

Per finire, il melo di Berto, liberato dall’odio che attraversava l’aria tra i due uomini, è tornato alla sua occupazione: produrre mele per chi le raccoglie, alieno a tutte le questioni di proprietà, diritti e confini, perché alla fine, come dice quel mio amico, la natura prevale, silenziosa e paziente.

Spetta al passante conservare la sensibilità per certi temi, onde poi raccogliere e consumare le mele abbandonate pensando al bene che ci hanno voluto i nostri ascendenti, tutti compresi nell’odiarsi a vicenda, eppure consapevoli di compiere un atto a nostro favore quando piantavano, innestavano e curavano un melo.

ALESSANDRO MARENCO

 

 

 

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