Un disertore della Prima Guerra

 Un disertore della Prima Guerra

Francesco, uno dei tanti figli, abitava con la famiglia in una casa a mezza costa

Un disertore della Prima Guerra

 Francesco, uno dei tanti figli, abitava con la famiglia in una casa a mezza costa. Di sopra stavano i boschi, di sotto alcune fette di terra, limitrofe a una bealera, cioè a un solco portatore d’acqua per il mulino. Da quel solco avevano il diritto di prendere l’acqua per bagnare il poco orto. Dal bosco avevano il diritto di far legna, carbone e castagne. Non era una famiglia ricca. Anzi: tutt’altro. Avere poca terra d’Appennino vuol dire essere completamente in balìa degli elementi e delle stagioni, e sopravvivere facendosi bastare quello che si ha, genuino finché si vuole, ma sempre gli stessi quattro alimenti. Eppure la famiglia numerosa di Francesco aveva una sua dignità e per questo una sua identità. Avevano avuto una lite con il prete (prete in quanto detentore di terreni e diritti) e allora erano diventati tutti socialisti. Si, badi: non per motivi religiosi o politici, ma solo a causa delle discussioni avute con il prete.

 


La storia che racconto è vera, ma non mi ancoro a date, nomi e luoghi. Mi fermo alla vicenda, senza coordinate storiche. Fidatevi di quel che dico, come mi fidavo io quando me la facevo raccontare da mia nonna.

Francesco ed altri fratelli vengono chiamati al fronte. Vanno, come sono andati quasi tutti. Arriviamo alla ritirata di Caporetto. C’è lo sbandamento. Francesco torna a casa. Gli altri fratelli tornano al fronte. Francesco è dichiarato disertore. Si rifugia nei suoi boschi, le colline di Montenotte, del Monteursaro, zone selvatiche a lui ben note, dove un reticolo di parenti e amici gli garantisce un minimo di sussistenza. Non è l’unico peraltro.

Ma le cose si vengono a sapere: il paese è fatto anche di questo, piccole voci, sussurri che bastano a sapere tutto di tutti, perfino nelle sole intenzioni.

Un uomo del paese, una persona di cui volontariamente non è stato tramandato nome e famiglia, va dai carabinieri e li avvisa: “Il disertore che cercate torna a casa sua di notte, perché ora fa freddo, c’è la neve e non può accendere il fuoco”.


I carabinieri predispongono l’agguato per la cattura. Ma Francesco li sente, sa di essere ricercato. Salta dalla finestra e corre verso il bosco. Un carabiniere nella notte innevata spara, e lo colpisce. Francesco sanguina. Viene trascinato nel fienile. La madre si avvicina per dissetarlo, un carabiniere glielo impedisce, la madre aggredisce il carabiniere riducendolo male (quelle donne tenevano abitualmente testa a cinque o sei buoni boscaioli, non avevano problemi a menar le mani).

Francesco muore dissanguato, in pochi minuti. Fine.

La spia, si dice, venuto a sapere della morte del ragazzo, s’era messo a letto, e non era più uscito di casa.

È una storia appena abbozzata, una trama leggera come una tela di ragno, ma pesante come un sasso. Rappresentativa di una situazione avvenuta e ripetuta (magari con esisti diversi) un po’ in tutta Italia. Molti contadini sono partiti per la guerra convinti, animati dallo spirito patriottico o dallo spirito d’avventura che alcuni seppero infondere. Poi, visto lo sfacelo della guerra, la miseria, la morte (non la morte utile di un animale che diventa cibo, o la morte debita delle generazioni che si avvicendano, ma la morte vacua, la morte di persone tutte uguali gettate nel tritacarne degli assalti, delle bombe, del gas, della malattia) avevano preso coscienza e, chi fra loro dotato di dignità, cercarono di salvare la pelle.

Seicentocinquantamila morti per l’esercito italiano (senza contare i civili e gli invalidi). Questo il primo germoglio della Prima Guerra. Da cui poi fruttificò in Europa, il turpe frutto del nazionalismo.


Due morali traggo da questa vicenda: finché la nostra storia, la storia di gente comune, l’hanno raccontata le classi dominanti, allora sono state narrate le gesta dei battaglioni, le acutezze tattiche, le risoluzioni logistiche, spesso infiorettate dalla buona retorica patriottica e riappacificante. Solo quando la Storia è diventata ANCHE storia delle classi subalterne abbiamo scoperto quanto ci sarebbe stato ancora da dire e da studiare su quegli anni. E soprattutto quanto da dire sulle singole storie delle persone, degli uomini e delle donne, che hanno vissuto sulla loro pelle le scelte di altri. Bisogna dunque imparare sempre meglio a raccontare la nostra propria Storia, la Storia delle persone comuni e delle classi subalterne. Non possiamo demandare questo compito ad altri.

La seconda morale è che Francesco ha disertato perché aveva una sua dignità. E questa gli discendeva dal suo lavoro e dalla sua terra. Aveva per davvero una casa a cui tornare, una casa grande come un bosco, dove era protetto e conosciuto. Se non coltiviamo la nostra dignità ancora oggi, siamo perduti. Al primo stormir di fronda che la Storia ci metterà davanti, non sapremo che direzione prendere. E purtroppo, il mondo del lavoro di oggi, costituito da incertezze, precarietà, superspecializzazione isolata, non contribuisce a questo.

La stessa società di cui facciamo parte non è più (tende a non essere più) un legame fisico, solido, fomite anche di odio e rancore presto sfogato in liti o risse (sempre esistite, non è una sorpresa d’oggi), ma una società sempre più liquida, labile, suddivisa in diversi piani che non hanno contatto fra loro: il lavoro, la famiglia, il calcetto, le ferie, la chiesa o il movimento politico. Siamo nudi e impauriti di fronte alla carneficina e preferiamo non saperne nulla, non partecipare. Disertiamo, senza muoverci di un passo. Senza rischiare nulla. 

     ALESSANDRO MARENCO

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