UN CONCILIO NON ANCORA RICONCILIATO

UN CONCILIO NON ANCORA RICONCILIATO
In seguito a un articolo di Ugo Tombesi

UN CONCILIO NON ANCORA RICONCILIATO

Su “Trucioli savonesi” di domenica 2 dicembre 2012, Ugo Tombesi riferisce, all’inizio di un articolo che ha come titolo la domanda: “C’è chi vuole un nuovo Concilio?”, di un suo caro amico che ha chiesto a monsignor  Luigi Bettazzi, nell’occasione di un  recente incontro svoltosi a Savona,   “se non ritenesse necessario un nuovo Concilio Ecumenico”. Il caro amico gli ha riferito però solo la domanda senza la relativa risposta del vescovo emerito di Ivrea.
Fortuna vuole che in  un’intervista del 10 ottobre u. s., alla vigilia dunque del cinquantesimo anniversario dell’inizio del Concilio, pubblicata sul sito “Confini” di Pierluigi Mele, – facilmente accessibile via Internet – possiamo leggere le risposte di monsignor Bettazzi in merito al significato non solo per la storia del cattolicesimo di quell’evento che ha senza dubbio segnato una svolta nel cammino e nella stessa definizione della Chiesa; evento al quale monsignor Bettazzi ha partecipato come ausiliare del cardinale e arcivescovo di Bologna  Giacomo Lercaro, e di cui è tra i pochi testimoni ancora viventi, insieme allo stesso papa Ratzinger e al teologo Hans Kung. Ebbene, che cosa pensa monsignor Bettazzi in merito all’eredità e all’effettiva “recezione” da parte di tutto il  corpo ecclesiale delle Costituzioni, dei Decreti e delle Dichiarazioni che formano il corpus testuale teologico e pastorale del Concilio Vaticano II? Alla domanda “Che cosa resta oggi, nella Chiesa, di quello spirito rinnovatore, di quella “Pentecoste” che animò i Padri conciliari?”, monsignor Bettazzi risponde così: “Io dico ‘già e non ancora’, perché è vero che se guardiamo a prima del Concilio, qualcosa si è fatto: si legge di più la parola di Dio, e si discute, per esempio, anche  di laicità e di principi ‘non negoziabili’; prima non se ne poteva certo parlare. Il non ancora consiste nel fatto che questi principi devono essere portati fino in fondo, attuati nella loro profondità; il rischio è di leggere il Concilio come fosse un testo di diritto, e si sa: il diritto lo si  interpreta al minimo. Ecco, questo testo deve essere interpretato al massimo. Voglio sperare che questo anno della fede possa portare più speranza”. Monsignor Bettazzi  spera quindi non in un nuovo Concilio Ecumenico, ma nella completa, ancorché graduale, attuazione del Vaticano II, rimasto in gran parte una grande speranza e una evangelica seminagione che attende ancora la piena fioritura e i tempi maturi per il raccolto. Ma perché quello “spirito rinnovatore”, quella nuova “Pentecoste” tanto invocata e poi benedetta dalla maggioranza dei Padri conciliari, già dieci anni dopo la solenne cerimonia di chiusura del Concilio nella basilica di San Pietro, sembrava aver perso molta della sua forza profetica, almeno presso le alte gerarchie ecclesistiche, soprattutto vaticane? Per comprendere le difficoltà che lo “spirito del Concilio Vaticano II” ha incontrato e ancora incontra all’interno della stessa Chiesa è opportuno ricordare il discorso inaugurale dei lavori conciliari, il famoso Gaudet Mater Ecclesia, in cui  Giovanni XXIII stigmatizzò i “profeti di sventura” , cioè quei prelati esponenti dell’ala conservatrice della Curia, che vedevano come una iattura l’indizione  di un Concilio Ecumenico da parte di un papa che non faceva mistero della sua volontà modernizzatrice in fatto di liturgia, di dottrina e, appunto, di ecumene, aprendosi ai “fratelli separati” (evangelici, ortodossi, protestanti) e al  dialogo con le altre religioni monoteiste, come l’ebraica e la musulmana, e persino con gli atei e i comunisti già scomunicati dal suo predecessore di beata memoria papa Pacelli.

Questi “custodi della tradizione”, secondo Papa Giovanni “ nelle attuali condizioni della società non sono capaci di vedere altro che rovine e guai, vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa”.

Mons. Bettazzi
Difficile non leggere qui tra le righe un riferimento al dogma dell’infallibilità del pontefice deliberato a maggioranza, e non senza contrasti, alla fine del Concilio Vaticano I per volontà di Pio IX; o all’enciclica Pascendi di Pio X contro il modernismo, e anche all’enciclica Humani generis di Pio XII contro il materialismo storico e dialettico (oltre che contro l’esistenzialismo, l’idealismo, lo storicismo, l’evoluzionismo, il pragmatismo, il positivismo…insomma contro tutta la filosofia moderna e contemporanea!). Eppure, nella visione di Giovanni XXIII, il rinnovamento nella vita apostolica e missionaria della Chiesa deve avvenire nel solco della millenaria tradizione cattolica: “Il Concilio vuole trasmettere pura e integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti”. Che cos’hanno da temere dunque i “profeti di sventura”? Temono che l’atteggiamento di apertura ai “segni dei tempi” finisca per intaccare la Dottrina, certa e immutabile, tramessa di generazione in generazione dai Padri e dai Dottori della Chiesa fino ai giorni nostri, e lo temono perché Papa Giovanni  distingue tra la sostanza (cioè l’intera, precisa e immutabile Dottrina) cui fidele obsequium est praestendum, e la forma con cui la Dottrina immutabile va opportunamente presentata, quae cum magisterio, cuis indoles praesertim pastoralis est, magis congruat. Ecco il punto: il carattere del Magistero ecclesiastico è (o dovrebbe essere) soprattutto pastorale, e non dogmatico! La pastoralità è dunque la connotazione specifica che, secondo la concezione di Giovanni XXIII, doveva assumere il Concilio, distinguendosi dai precedenti Concili, convocati per lo più per dirimere  questioni dottrinali e dogmatiche (e quindi per condannare eventuali eresie e scomunicare – o peggio – eventuali eretici) . Ma in che cosa consiste, in pratica, la finalità  pastorale del Vaticano II? Intanto nello studiare, o meglio, ristudiare e approfondire le Sacre Scritture e la  Dottrina alla luce dei più aggiornati metodi storico-esegetici, e non  per scrivere saggi specialistici ma per presentare la Parola di Dio  nel modo più convincente e avvincente possibile agli uomini di oggi, così da farla accettare ed amare anche da chi se ne sentisse estraneo o se ne fosse allontanato proprio perché non ne comprendeva il linguaggio iniziatico e quasi esoterico. Ora, questa volontà di riconciliare la Chiesa con la modernità è stato interpretato, da alcuni cardinali e teologi fedeli al depositum fidei, come una sorta di accomodamento, se non di cedimento, al corso e agli errori del mondo: non la Chiesa, custode della Verità, deve adeguarsi al mondo,  semmai è il mondo che deve adeguarsi alla Verità, cioè alla Chiesa. Ma pastoralità significa soprattutto rivolgersi agli uomini e alle donne così come sono, non imponendo loro dogmi o sentenze di assoluzione o di condanna, ma comprendendo e condividendo le loro difficoltà materiali e morali, quand’anche si trattasse di atei o di iscritti al partito comunista. Si può ben capire come questa attenzione ai fenomeni della contemporaneità (si pensi all’importanza  crescente dei mass media nel determinare i comportamenti collettivi, alle nuove forme di aggregazione giovanile, ai nuovi miti e ai nuovi riti, come la musica pop o  rock o folk ecc.) non più demonizzati, e come il passaggio dalla scomunica di Pio XII alla comprensione umana per i “lontani” e persino per chi predicava la lotta di classe (vedi i preti operai in Francia e la Teologia della liberazione in America Latina) preoccupasse e preoccupi non poco le gerarchie ecclesiastiche più conservatrici, prima, durante e dopo il Concilio Vaticano II.

 

Fulvio Sgerso

 

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