CINEMA: Di nuovo in gioco

RUBRICA SETTIMANALE DI BIAGIO GIORDANO

Al cinema a Savona Multisala Diana

Di nuovo in gioco

RUBRICA SETTIMANALE DI BIAGIO GIORDANO
Al cinema a Savona Multisala Diana
Di nuovo in gioco
 Titolo originale: Trouble with the Curve (Problemi con la curva)
 
Regia: Robert Lorenz
Nazione e Anno: U.S.A., 2012
Genere: drammatico
Durata: 101 minuti
 
Interpreti: Clint Eastwood, Amy Adams, Justin Timberlake, John Goodman, Chelcie Ross, Robert Patrick, Matthew Lillard, Ed Lauter, Clifton Guterman, Matt Bush, Bob Gunton, George Wyner, Scott Eastwood, Ricky Muse, Carla Fisher
 
Distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia
 
Produzione: Malpaso Productions.
Recensione di Biagio Giordano
In proiezione alla sala n°3 del cinema Diana di Savona
 All’anziano Gus Lobel (Clint Eastwood) sta per scadere il contratto di lavoro con la sua società sportiva di baseball, l’Atlanta Braves, in cui svolge da qualche decennio, con soddisfazione,  la funzione di scout. Gus seleziona sia giocatori di grande talento in grado di fare in squadra la differenza, sia  giovani atleti  promettenti   garanti di un certo livello  di affidabilità.

Gus ha una grande considerazione di sé, si fa vanto di riconoscere un buon giocatore da come risponde alla pallina del  lanciatore:   Gus valuta  il rumore emesso dall’impatto pallina – mazza, che in un campione, ha un effetto acustico particolare, inconfondibile, dopodiché decide.

Gus, ormai anziano, che vive da singole, teme di essere giunto al termine della sua brillante carriera, anche perché con il passare degli anni gli acciacchi si fanno sempre più frequenti deprimendogli molte energie fisiche e mentali. Nell’ultima visita oculistica gli è stato  riscontrato un serio problema agli occhi cosa che  lui non vuol riconoscere in tutta la sua gravità, rifiutandosi di sottoporsi ad ulteriori approfondimenti. Gus rischia, senza cure o interventi chirurgici, di perdere in breve tempo la vista. Inoltre i maggiori dirigenti degli Atlanta Braves,  a tre mesi dalla scadenza del suo contratto di lavoro, non sembrano avere più molta fiducia in lui, ne è una dimostrazione il fatto che,  nonostante le perplessità di Gus, essi insistono nel puntare su  un nuovo fenomeno del baseball.

L’anziano scopritore di talento, che è vedovo, si sente a quel punto della vita sempre più debole e solo, ma è sorretto da un forte orgoglio, tale per cui non si sente costretto dagli eventi sfavorevoli a chiedere aiuto ad alcuno. Ci penserà però un suo collega, molto sensibile alla problematica situazione psicologica che Gus sta attraversando, a informare delle condizioni del padre  la figlia Mickey (Amy Adams),  avvocato di Atlanta, una giovane donna di carriera in procinto di diventare socia dell’amministrazione dello studio legale in cui lavora. Il collega di Gus  telefona alla ragazza pensando sinceramente che lo scout anziano abbia bisogno di aiuto, e non prende quindi minimamente  in considerazione l’ipotesi che lui possa aver scelto la strada di un lento suicidio, cosa che renderebbe vano ogni tentativo di soccorso nei suoi confronti.

 Michkey rimane colpita dalla descrizione esistenziale fattale del padre e decide pertanto di prendersi un periodo di vacanza per andarlo a trovare. Michkey  ama il padre ma nonostante ciò ha qualche periodica ostilità verso di lui, perché dopo la morte della madre, egli anziché tenerla con sé, l’aveva affidata ad un altro parente dedicandosi completamente al baseball
 
Mickey  accompagna il padre negli spostamenti nella Carolina del Nord, seguendolo scrupolosamente e con passione nel suo lavoro di osservatore di talenti, lo fa nonostante la  contrarietà e la scontrosità dell’uomo che solo nell’asocialità  sembra trovare  un punto di pace interiore.

Durante l’intensa e verbosa quotidianità vissuta dai due in quei giorni, Mickey finisce per riesporre al padre Gus vecchi interrogativi e domande sul proprio trascorso, che portano i due a rivisitare con la memoria un passato di famiglia vissuto  a volte in modo ampiamente lacunoso per le assenze del padre, che ha lasciato nella figlia tracce psichiche macchiate di odio.

 

 Ciò porterà Gus a svelare  con dolore parti di sé rimosse ed episodi  sull’infanzia di Michkey molto amari e struggenti per entrambi, importanti però per l’effetto liberatorio che ne conseguirà in ciascuno dei due.  Durante il loro soggiorno Michkey incontra anche Johnny, un giovane talent scout del baseball, rivale di Gus, di cui la figlia finirà per  innamorarsi.

Riuscirà Gus a mantenere il posto di lavoro di scout del baseball senza essere costretto ad assumere altre funzioni di ripiego che in quei casi sono per lo più umilianti? Supererà la gelosia per il nuovo fidanzato di sua figlia Jonny  riconciliandosi con  Michkey, e contribuendo quindi a pieno titolo alla tanto ricercata felicità della figlia?

Buon esordio in un lungometraggio per Robert Lorenz, fedele assistente alla regia di  Clint Eastwood fin dai tempi de I ponti di Madison County (1995) e vecchio socio con lui alla Malpaso, casa produttrice che finanzia i film di Clint Eastwood. Con il direttore di fotografia Tom Stern, collaboratore di Clint fin dai tempi di Debito di sangue, Lorenz realizza un film  pregevole per forma e contenuto, disincantato per quanto riguarda il senso più profondo della storia che non procede mai in tono patinato o consolatorio ma si muove con crudo realismo senza promettere soluzioni facili a problemi che tali sono a volte solo per chi osserva e magari non  per gli interessati.

Il film è fotograficamente ben espresso, per certi aspetti di esposizione alla luce anche pienamente riuscito, in particolare grazie a  un gusto per luce al naturale che porta Tom Stern  a dare sempre il meglio di sé sia nella cattura di essa  sia nella regolazione dei colori che appaiono sovente finemente trattati, de saturati al punto giusto,  due suoi tipici punti di forza tecnici questi che hanno sempre dato alle storie da lui messe in immagini un arioso respiro estetico capace di abbinarsi inoltre, felicemente, con la semplicità del senso più profondo racchiuso nelle storie di Clint Eastwood.

Questo racconto filmico, contrariamente a quanto  scritto dai più sul web e sui giornali, funziona a meraviglia, non tanto sul piano della drammaticità quanto su quello più esistenziale disillusorio dei contenuti su cui la drammaticità non può più far presa per essere espressa al meglio nel racconto perché è già stata vissuta prima, in un certo senso giocata, consumata nei precedenti tratti narrativi percepiti dai flash  back.

La drammaticità è solo accennata col ricordo, necessariamente lasciata alle spalle per dare alla narrazione  la veduta degli effetti interiori successivi ad essa, creando un’andatura più leggera e interessante capace di mettere in risalto un insieme di cose ben assortite sul piano psicologico e del senso della storia, in un fluire del quotidiano tale per cui  lo spettatore medio possa riconoscersi o rispecchiarsi senza cader preda di un effetto troppo  straniante o eccessivamente fantasioso tale da renderlo assente,  cioè incapace di sviluppare punti di contatto reale con il film.

Il film si sofferma sui sentimenti e i semplici pensieri esistenziali filosofici presenti in una storia problematica ma dai toni invitanti che aprono lo spettatore ad effetti empatici di un certo pregio etico, ciò avviene in particolare a partire dal momento in cui emerge nei due protagonisti, padre e figlia che vivono separati, una piegatura psicologica di forte peso, pulsionalmente bipolare, dissociante, legata sia alla gioia che al disagio, creando un’atmosfera tale da portarli urgentemente a rincontrarsi dopo tanto tempo.

Il film non dà soluzioni definitive sugli intrecci di vita  messi in gioco, così densi di esistenzialità, sollevati anche con un certo acume narrativo, ma prospetta semplicemente, accompagnato da qualche elemento spettacolare,  il ripristino delle normali motivazioni per vivere, che in qualche modo stavano per esaurirsi nell’anziano Gus o assumevano nella figlia una dimensione  troppo ossessiva legata alla carriera per via di un vuoto familiare che la tormentava.

Lorenz  scioglie solo alcuni nodi costruiti dal film perché sa benissimo che tentare di scioglierli tutti avrebbe significato dare una immagine di sé negativa, arrogante, ossia, detto in altri termini, idealizzare troppo l’esistenza al mondo dei personaggi o il cinema stesso. La pesante ansia del vivere dei personaggi principali  diventa infatti essenzialmente positiva nel film, essa dopo una lunga pausa a un certo punto della narrazione riprende il sopravvento, proprio quando la sua assenza stava per significare qualcosa di negativo: una morte psicologica lenta nei personaggi protagonisti, una mancanza di reattività che avveniva nel disinteresse totale per l’esistenza in corso.

       Biagio Giordano
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