Un commento all’epilogo del Fedro

Un commento all’epilogo del Fedro
dal punto di vista della pratica filosofica

Un commento all’epilogo del Fedro
dal punto di vista della pratica filosofica

 LA PREGHIERA DI SOCRATE AL DIO PAN

(Dal  Fedro di Platone)
 

 1.  EPILOGO

 

SOCRATE – Non conviene rivolgere una preghiera a questi dèi prima di metterci in cammino?

FEDRO – Come no?

SOCRATE  – O caro Pan, e voi altri dèi che siete in questo luogo, concedetemi di diventare bello di dentro, e che tutte le cose che ho di fuori siano in accordo con quelle che ho dentro. Che io possa considerare ricco il sapiente e che io possa avere una quantità di oro quale nessun altro potrebbe né prendersi né portar via, se non il temperante. Abbiamo bisogno ancora di altro, Fedro? Per me, io ho pregato in giusta misura.

FEDRO – Mi unisco con te in questa preghiera, perché le cose degli amici sono comuni.

SOCRATE – Andiamo!

Esaminiamo ora una per una le richieste di Socrate al dio Pan, e vediamo se corrispondono in qualche modo alle caratteristiche necessarie a un buon consulente filosofico (come in genere a un buon terapeuta, a un buon maestro e, nell’ottica socratica e platonica, a un vero filosofo), caratteristiche che, pur presupponendo una predisposizione innata, devono in ogni caso essere apprese e acquisite in modo permanente e progressivo.

2. RAGGIUNGERE LA BELLEZZA INTERIORE

L’ideale della bellezza interiore significa la perfetta armonia e unificazione di tutte le componenti, di tutti gli aspetti, di tutte le istanze e le esperienze che via via determinano e vengono determinate dalla nostra personalità nel continuum della vita psichica, quindi anche relazionale, affettiva, intellettuale e creativa.

Come tutti gli ideali rappresenta il limite, la direzione di marcia, la meta finale e il senso di tutte le nostre azioni. Ora, se questo ideale è (o dovrebbe essere) comune a tutti gli esseri umani, è abbastanza evidente che si tratta di un requisito specifico richiesto a chi si dedica professionalmente all’ascolto e alla cura delle anime; a cominciare, ovviamente, dalla propria. Non è neppure immaginabile il buon esito di una relazione d’aiuto se l’aiutante rivela una personalità disarmonica, deformata o disturbata. Scrive Rollo May nell’Arte del counseling: “ Le qualità più evidenti di un buon counselor non hanno bisogno di spiegazioni: simpatia, capacità di sentirsi a proprio agio in compagnia degli altri, capacità di empatia e altre caratteristiche che possono avere anche una connotazione di ambizione personale. Tali qualità non sono del tutto innate, ma in gran parte possono essere acquisite e il loro sviluppo è la conseguenza di una chiarificazione personale del counselor e dell’interesse e del piacere che egli trae dal contatto con gli altri. Per dirla in maniera grossolana, se il counselor gode davvero della compagnia degli altri e desidera il loro bene, automaticamente susciterà attrazione. Spesso scopriamo che chi non piace è colui che inconsciamente non desidera piacere, sia perché ha paura delle richieste che l’affetto degli altri implicherebbe, sia perché desidera la solitudine.. ‘Attrattiva personale’ è un termine spesso usato ma ben poco definito; ora, noi possiamo definirlo come l’altra faccia dell’interesse e del piacere che l’individuo trae dagli altri “.  In altri termini, per piacere bisogna anzitutto piacersi; il fine però non è certo quello di sedurre per vanità o per altri scopi più o meno confessabili, il fine è raggiungere, appunto, quell’armonia interiore che ci fa sentire a nostro agio con noi stessi e in grado di trasmettere anche agli altri quell’energia e quella fiducia nelle proprie capacità la mancanza delle quali genera quei disturbi e quelle deformazioni che generano disamore anziché amore per la vita.

Abbiamo appreso dalla lettura del Fedro quanto sia decisiva la bellezza per far nascere e far vivere il vero amore, a sua volta fonte di vita e di armonia. Inoltre bellezza interiore significa chiarezza, trasparenza di sé con sé, tendenziale eliminazione di ogni nascondimento e inganno sia nei nostri confronti sia nei confronti del prossimo; quindi è una delle sei condizioni perché si verifichi, secondo Carl Rogers, una modificazione costruttiva della personalità, e precisamente la terza (però la principale quanto a importanza): “La seconda persona, che chiameremo il terapeuta, è in uno stato di congruenza: è cioè, nella relazione, liberamente e profondamente se stesso” (cfr. La terapia-centrata-sul-cliente). Raggiungere la bellezza interiore è quindi la premessa per una relazione armonica e costruttiva tra l’io e gli altri, o, se si preferisce, tra l’io e il mondo.

3. FARE IN MODO CHE LE COSE ESTERIORI SIANO IN ACCORDO CON LE COSE CHE HO DENTRO DI  ME

Questa potrebbe anche essere la richiesta di una perfetta integrazione dell’anima individuale con la società e con l’universo in cui vive. “ La personalità non può essere compresa al di fuori del suo contesto sociale. Il contesto sociale – la comunità degli altri individui – le fornisce infatti un mondo senza il quale essa non avrebbe senso: le fornisce, cioè, gli agganci ai quali essa fissa le trame della sua tessitura…..Sappiamo che questo è vero per esperienza personale, perché ciascuno di noi utilizza gli altri come cardini: noi ruotiamo intorno ai nostri nemici non meno che intorno agli amici” (R. May, L’arte del counseling).

 Senza un buon rapporto con l’ambiente sociale e naturale in cui ci si trova a vivere, difficilmente potremo mantenere il nostro equilibrio e la nostra salute mentale, perché, come ha osservato Alfred Adler, la struttura della nostra personalità non è disgiunta dalla struttura sociale. E qui cade a proposito il riferimento alla concezione platonica della società e dello Stato ideale come rispecchiamento della raggiunta armonia tra le diverse

componenti dell’anima individuale. Come dire che il disordine di una personalità disturbata non può non riflettersi e riverberarsi anche all’esterno, con tutte le conseguenze del caso. E poi è chiaro che perché ci sia accordo tra la nostra personalità e il mondo in cui viviamo è necessaria una precisa conoscenza delle nostre capacità e dei nostri limiti, conoscenza non indolore, in quanto implica l’abbandono di tutte quelle illusioni o favole autoconsolatorie  che ci impediscono di uscire dal recinto del ‘giardino d’infanzia’ in cui rimarremmo tanto volentieri ma da cui dobbiamo uscire se vogliamo diventare adulti, proprio come Adamo ed Eva hanno dovuto uscire loro malgrado dal paradiso (giardino) terrestre per diventare esseri umani, come ben aveva detto Hegel. Tagliare il cordone ombelicale che ci tiene legati e dipendenti dalla figura materna è operazione dolorosa ma necessaria alla nostra crescita umana e alla nostra libertà. Perché ci sia l’accordo tra le cose esteriori e quelle interiori è quindi indispensabile esercitare la virtù cristiana dell’umiltà e quella temperanza, che non vuol dire “continenza” ma proprio “temperamento” in senso musicale: come per l’armonia è necessario il perfetto accordo tra i suoni così per la salute dell’anima è necessario l’accordo perfetto tra le sue parti. Di qui la necessità di conoscere le nostre reali potenzialità per coltivarle e indirizzarle verso la loro massima realizzazione, o entelèchia, per usare il  termine aristotelico: “La funzione del counselor consiste nell’aiutare il cliente a trovare quella che Aristotele chiama l’entelechia, l’unica forma, nella ghianda, che la destina a diventare una quercia. Secondo Jung, ognuno di noi porta in sé la propria forma di vita, una forma indeterminabile che non può essere sostituita da nessun’altra. Questa forma di vita, il vero sé, raggiunge strati della mente individuale ben più profondi, ben al di là della coscienza ordinaria; e anzi, la coscienza può rappresentare addirittura un riflesso distorto. Si trova se stessi creando l’unità fra il proprio sé cosciente e i vari livelli del proprio inconscio.”(R. May, op. cit.). Molto spesso, infatti, noi ignoriamo le nostre effettive potenzialità, o sottovalutandole o sopravvalutandole, mentre si tratta di modularle e temperarle in vista del fine verso cui tendiamo, che deve essere il nostro proprio fine e non quello di altri.

. 4. CONSIDERARE IL SAPIENTE COME IL VERO RICCO

 

Dalla lettura di tutto il dialogo tra Socrate e Fedro abbiamo appreso che la vera sapienza non è quella dei maestri di retorica: anche se appaiono sapienti ai più, in realtà non lo sono, perché i loro discorsi non si basano sulla conoscenza della verità ma sull’opinione, e il loro metodo di insegnamento si preoccupa più della forma che della sostanza, più dell’apparire che dell’essere; più degli interessi particolari che del bene comune; e insegnano, nei loro manuali, che non ci sono tesi giuste o sbagliate ma solo argomenti più o meno persuasivi e discorsi scritti più o meno bene. Ma ora noi sappiamo che solo il filosofo, cioè l’amante della sapienza, è in grado di fare, più che di scrivere, discorsi autentici che parlano all’anima di chi ascolta e non solo alle orecchie. Solo il filosofo, infatti, è in grado di scrivere direttamente nell’anima dell’interlocutore le sue parole di verità senza passare attraverso la parola scritta;  e lo può fare perché è a conoscenza della natura e della struttura dell’anima e in generale, e sa come e quando parlare alle anime individuali. L’amante della sapienza sa dunque che la vera ricchezza sta in quello che si è, non in quello che si ha, nell’essere e non nell’avere. Non è con l’appropriazione e l’incorporazione più o meno coatta di oggetti esterni che si può ovviare alla insufficienza e alle carenza di risorse interiori; come ha spiegato Eric Fromm, questo atteggiamento ha la sua origine nella fase orale quando “il bambino mostra la tendenza a mettersi in bocca le cose che desidera perché il suo essere non è ancora in grado di permettergli altre forme  di controllo di quei possessi. Lo stesso rapporto è reperibile in molte forme di cannibalismo, in cui, divorando un altro essere umano, si crede di acquisirne i poteri. L’atteggiamento implicito del consumismo è quello dell’inghiottimento del mondo intero. Il consumatore è un eterno lattante che strilla  per avere il poppatoio” (Avere o essere?). Inoltre è noto che chi più ha più vorrebbe avere e che non c’è limite al desiderio di possesso in quanto, non appena si raggiunge, l’oggetto desiderato cessa di essere tale; mentre l’amante della sapienza sa che le cose di maggior valore sono quelle che non si possono comprare con denaro o favori perché ineriscono alla verità e all’essenza della persona, né si possono perdere perché, come l’anima, sono ingenerate ed eterne. E’ chiaro che per Platone il valore sommo è il sapere, perché solo per mezzo del sapere possiamo conoscere l’essere vero e soprattutto quello che lo rende tale, cioè il bene. Questo non toglie che, nella vita quotidiana, ci si trovi a dover scegliere tra valori diversi e non assoluti ma relativi e, talvolta, contrastanti tra loro; né possiamo pretendere che tutti ripercorrano l’itinerario dialettico che ha portato il giovane Fedro ad amare la sapienza: non tutti sono o possono diventare veri filosofi. Eppure tutti noi orientiamo il nostro comportamento  in base ai “valori”che dominano la nostra esistenza, cioè in base a quello che valutiamo un bene o un male, un fine degno di fatiche e sacrifici o un danno da evitare a qualunque costo. Oggi non si pensa più al bene come a qualcosa di oggettivo e dato una volta per tutte, ma come a qualcosa che, appunto, possiamo scegliere di volta in volta secondo le circostanze o le convenienze. Se questo sia un bene o un male dipende dal giudizio che noi diamo sul cosiddetto relativismo etico che caratterizza la modernità. Ora però il compito del consulente filosofico non è quello di esprimere giudizi o emettere sentenze, ma quello di ascoltare e di ascoltare quanto e come la persona che abbiamo di fronte ci dice, non quello che vorremmo sentirle dire, anche perché ognuno ha dei significati personali che solo egli conosce.. L’obiezione che, a questo punto, forse muoverebbe Socrate è: come possiamo intenderci se usiamo magari le stesse parole ma con significati diversi? La risposta socratica potrebbe essere: definiamo meglio i termini del nostro discorso!

 5. CONCEDIMI QUEL TANTO DI ORO CHE SOLO UN UOMO ASSENNATO PUO’  PORTARE CON SE’

Qual è il senso di questa richiesta? Stabilito che la vera ricchezza consiste nella sapienza, e che quindi non c’è capitale che valga più di quello culturale, quanto oro di sapienza è giusto possedere?

La risposta è: il massimo possibile a un uomo assennato, cioè in grado di esercitare le quattro virtù proprie dell’anima razionale (quelle che sant’Ambrogio chiamerà “cardinali”): la temperanza nei confronti dei desideri, la fortezza o coraggio, la saggezza o prudenza e, infine, la giustizia, che le comprende tutte armonizzandole con le istanze della vita quotidiana e sociale.

 Si ricorderà che, nella Repubblica, l’armonia delle anime individuali è la condizione necessaria per l’armonia e la giustizia sociale. Ma essere in armonia con se stessi e con il mondo significa anche non pretendere da noi quello che non possiamo dare, cioè l’impossibile; ma  pretendere il possibile sì,  tutto il possibile; senza però mai dimenticare che “Noi viviamo all’interno di una costellazione sociale dove ognuno dipende dall’altro, proprio come le stelle delle costellazioni si mantengono lungo le orbite tracciate dalla forza di gravità che emana da ogni altro corpo celeste. Di fatto, questo tessuto di interdipendenza teoricamente include ogni individuo che viva attualmente o che sia vissuto in passato.” (R. May, op. cit.). Questa “costellazione sociale”, nondimeno, è anche il campo dei conflitti e delle lotte per la supremazia e per il potere nei vari ambiti in cui si svolge la vita collettiva. Queste lotte sono in gran parte determinate, secondo Alfred Adler, dall’irrefrenabile impulso che spinge alcuni individui a ritenersi liberi dal tessuto dell’interdipendenza sociale e superiori ai loro simili, quindi autolegittimati a conquistare posizioni di comando e di privilegio.

“Questo ci porta  al contributo più celebre che la psicologia adleriana  ha dato al pensiero moderno, il concetto di inferiorità. Il senso di inferiorità (che non andrebbe definito come ‘complesso’ fintanto che non diventi chiaramente nevrotico) è universale. Tutti lo possediamo perché siamo esseri umani. Un individuo, in occasione di un ritrovo mondano, si sente inferiore agli altri e imbarazzato, senza considerare che anche gli altri provano gli stessi sentimenti nei suoi confronti; una famiglia che si sente inferiore ai vicini, farà un  grande sforzo per ‘stare alla pari’ con loro; una commessa prova un senso di inferiorità dovuto al suo lavoro, e quindi diventa invidiosa dei successi altrui: così , il mondo del lavoro, campo di battaglia degli sforzi che ognuno fa per superare gli altri, diventa un campo di impietose competizioni. E’ sorprendente vedere quali forme competitive assuma il senso d’inferiorità. Il cane impaurito, direbbe Esopo, è quello che abbaia più forte.” (Op. cit.). Il complesso di superiorità è quindi l’altra faccia del senso di inferiorità. La temperanza chiesta da Socrate a Pan  è dunque un giusto equilibrio tra i due estremi dell’eccessiva autostima e dell’eccessiva autodisistima, giusto equilibrio che assomiglia alla virtù cristiana dell’umiltà.

6. MI UNISCO CON TE IN QUESTA PREGHIERA,  PERCHE’ LE COSE DEGLI AMICI SONO COMUNI

 

Dunque, alla fine,  la preghiera di Socrate è anche la preghiera di Fedro: maestro e discepolo sono diventati amici;  in questo caso non amanti tra loro ma tutti e due della sapienza, filosofi come è filosofo il dàimon figlio di Povertà e di Risorsa, intermediario tra una condizione di bisogno, di mancanza, di desiderio;  e amanti dell’Idea eterna della bellezza, l’unica che traluce in qualche misura attraverso la bellezza dei corpi terreni. Anche Fedro è ormai persuaso che la via, il mezzo per arrivare alla conoscenza della verità non sono i discorsi scritti della retorica ma quelli orali della dialettica, non quelli basati sull’opinione ma quelli basati sulla scienza, che è vera in quanto riporta alla memoria la visione della Idee che l’anima, ingenerata e immortale, ha contemplato prima di incarnarsi in un corpo. La filosofia, in quanto amore per il sapere, è costituita da un elemento divino (Eros) e da uno umano (logos); d’altronde, ispirazione divina e discorso razionale percorrono da un capo all’altro tutto il dialogo (basti pensare alla presenza dei miti in funzione esplicativa e persuasiva accanto agli argomenti logici), e, sotto questo aspetto, la preghiera finale al dio Pan ne sintetizza sia il contenuto che la forma, sia il messaggio che lo stile tra prosastico e poetico. Va anche detto che l’amore di cui tanto si discetta nel dialogo non è generico o indeterminato, ma è dichiaratamente quello che avviene tra un uomo adulto e un giovane dello stesso sesso, e, in particolare, tra il maestro e l’allievo; l’amore tra uomo e donna non viene neanche preso in considerazione, e anzi, gli interlocutori e gli amanti dei dialoghi platonici sono tutti rigorosamente di sesso maschile. Non per niente le donne ateniesi non potevano partecipare alla vita politica. Anche se nella sua Repubblica Platone non esclude le donne dalla possibilità di partecipare al governo della città, nel complesso della sua opera il genere femminile è decisamente subordinato e considerato di rango inferiore rispetto al maschile. Lasciamo questo argomento, comunque degno di attenzione, e torniamo all’amicizia tra Socrate e Fedro: il rapporto tra il maestro e l’allievo, proprio perché è basato sul vivo dialogo, non è,  né deve essere, freddo e alieno dai sentimenti, anzi, l’amicizia e l’amore sono parte essenziale della relazione e ne determinano l’efficacia didattica o, in loro assenza, il fallimento. Non è difficile riconoscere qui due condizioni necessarie perché avvenga una modificazione costruttiva della personalità, secondo Carl Rogers:”1) Il terapeuta prova una comprensione empatica del sistema di riferimento interno del cliente e si sforza di comunicare al cliente questa esperienza. 2) Si verifica  una comunicazione, almeno parziale, della comprensione empatica e della considerazione positiva incondizionata del terapeuta per il cliente.” (Op. cit.). Anche nella relazione tra Socrate e Fedro ha agito la comprensione empatica, diversamente il dialogo si sarebbe esaurito in poche battute, o non sarebbe nemmeno cominciato. Possiamo dire che il maestro-terapeuta, con il suo metodo dialettico, ha portato a buon fine la relazione, tanto che Fedro è persuaso che non saranno mai i discorsi scritti, o trascritti  (e magari nascosti sotto il mantello) con il loro stile comunicativo chiuso, rigido e fisso, da mandare a mente e da utilizzare in diverse circostanze, a far conoscere la verità; mentre il discorso socratico è aperto per definizione e non è pensabile se non in forma dialogica e dialettica; forma che è anche sostanza, in quanto è riuscita a “mettere in comune” la bellezza interiore del maestro e quella dell’allievo, e soprattutto l’amore par la verità e per il bene, l’oro senza prezzo della sapienza.

FULVIO SGUERSO

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