UN ALVEARE DI PAROLE ASSOPITE

La poesia di Angela Caccia è una poesia dell’assenza, del silenzio, dell’altrove, del non ancora accaduto o di un tempo che fu da cui tuttavia  provengono  parole “che si / fanno giuste ma solo in / rigida successione / inabissate in territori limacciosi o / resti di bufere accadute chissà quando”; le parole, nella poesia dell’autrice dei versi di metro vario raccolti in questo volumetto che potremmo assimilare metaforicamente all’alveare assopito  del suo stesso titolo, vivono di vita propria, non hanno altro fine che la forma con la quale si presentano sulla pagina bianca senza segni di interpunzione (salvo qualche lineetta e qualche puntino di sospensione) offrendosi alla nostra lettura, o meglio, al nostro ascolto: “Lascia che la parola torni insonne / che il cuore si riconcili alla pietra // Poesia / è ciò che non è accaduto / e calò il silenzio / come unica forma di eloquenza”.

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Qui c’è tutta l’ Ars poetica di Angela Caccia: dare una voce al silenzio, un raggio di luce alla notte più cupa, un senso alla caducità delle cose, una forma al magma interiore  informe, una risonanza al vuoto che cresce in  petto come “un tempo straniero” e “per non restare intrusi a se stessi”. Che cosa è dunque  la poesia, per l’autrice di questo alveare  assopito ma risonante di silenzi e di ombre, di semitoni e di attimi “da cui / nulla è più uguale / e tutto cambia nome”? Non è un’attività come un’altra, un divertimento, un esercizio retorico, un vezzo; ma una necessità assoluta, la volontà di impedire che la vita si perda nel nulla: “Il verso sta tutto nella perdita /  – pura vocazione all’assenza – / porto franco / per restare abbracciati all’albero del giusto”. Poesia, dunque, anche come ancoras di salvezza, come rifugio in questi tempi bui, ritorno alla semplice gioia che proviamo, ad esempio,   “se da dietro i vetri ci saziamo /del volo solo di un passero”. Poesia come colloquio interiore, come diario intimo, come “L’aspetto impeccabile / lo sguardo dimesso / traditi solo dal profumo di una orfanità che  / s’affida al foglio come a una casa”. Poesia come “misura dell’amore” e anche come “memoria del bianco”; quest’ultima espressione mi ha fatto pensare a un passo di Lo spirituale nell’arte e nella pittura in particolare di Vasilij Kandinskij: “Il bianco è dato dalla somma di tutti i colori dell’iride, è un mondo in cui tutti questi colori sono scomparsi, di fatto è un muro di silenzio assoluto, interiormente lo sentiamo come un non-suono. Tuttavia è un silenzio allo stato nascente, ricco di potenzialità; è la pausa tra una battuta e l’altra di un’esecuzione musicale, che prelude ad altri suoni”, il che significa ad altri colori, ad altre forme, ad altre figure. Memoria del bianco significa allora, così mi piace tradurre fuor di metafora, memoria dell’origine di ogni opera d’arte, dunque anche dei versi dell’Alveare assopito. Secondo questa interpretazione (non so quanto condivisa dall’autrice) da quel bianco indistinto – che è anche simbolo di purezza incontaminata (mi viene in mente anche l’ elogio della pagina bianca di Stephane Mallarmé)  derivano i colori che compaiono in questa successione di poesie che si allacciano una all’altra senza soluzione di continuità  e che, insieme, formano una specie di poema o colloquio  ininterrotto con la propria anima, ma anche con un “tu” esterno rappresentato di volta in volta, dalla madre, dal padre, dai figli,  o da un’amica scomparsa come la poetessa Biancamaria Frabotta. Riguardo alla tavolozza di Angela Caccia, ecco alcuni esempi: “Il po’ di verde sconsolato…rovistava in sacche di grigio… la condanna del colore… fu la fatica di nascere rosa”; “Navigatori del liquido celeste”; “Si spegne l’azzurro”; “…la casa / col tetto rosso e / le finestre giallo sole che / disegnano i bambini”; “le rose infiammano la strada”; “verso il colore gioia della vita…”; è come se l’autrice dipingesse scrivendo  e scrivesse dipingendo. Per lei si può ben a proposito citare Orazio e la sua famosa similitudine tra pittura e poesia: ut pictura poesis.

Fulvio Sguerso

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