Territorio fragile (forever)
Territorio fragile (forever)
La mia esperienza professionale ventennale mi permette oggi di domandarmi con cognizione di causa se possiamo onestamente considerare positivamente i risultati della politica di difesa del territorio in Italia
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Territorio fragile (forever) |
La mia esperienza professionale ventennale mi permette oggi di domandarmi con cognizione di causa se possiamo onestamente considerare positivamente i risultati della politica di difesa del territorio in Italia. La risposta (suffragata clamorosamente dai fatti) è certamente no. Esistono norme, esistono programmi, esistono “piani”, esistono attori tecnici ed attori istituzionali e politici che brancolano in una giungla di approcci, di sedi, di competenze e di ruoli: una giungla sempre di più inestricabile nel suo folle avvitarsi su se stessa ma che non ha alcuna possibilità di incidere realmente sulle sorti del territorio italiano. Persino la terminologia a livello mediatico è confusa, là dove si insiste nel parlare di “dissesto idrogeologico”, icona solo mediatica priva di significato scientifico, essendo l’idrogeologia la nobile scienza che studia le acque sotterranee ma non certo la stabilitàdei versanti o l’idraulica superficiale fluviale e marina. In realtà il territorio ed il suo governo afferiscono a molteplici discipline – molto specifiche – quali la geomorfologia applicata, la geotecnica, le discipline forestali, l’ingegneria idraulica e altre ancora in un intreccio continuo ed irrinunciabile ove gli stessi specialisti, a volte, fanno fatica a porre gerarchie, distinguere cause ed effetti, proporre metodologie di studio integrate, definire priorità e suddividere competenze. Ancora una volta l’Italia pecca di “voglia di semplificazione” anche quando la percezione della complessità dovrebbe essere il primo dovere dei cosiddetti “decisori”. Il deserto culturale che troppo spesso si intravede nel tessuto politico ed istituzionale, con gravi colpe ricadenti persino su entitàcome le Università e gli stessi Ordini professionali, e sul quale si muovono gli attori citati è forse il fattore principale del perché ieri, oggi (e domani ancora) abbiamo affrontato, affrontiamo ed affronteremo sistematicamente, sostanzialmente incapaci di reagire, i disastri del territorio. Una onesta riflessione sulla ormai sistematica evidenza del “promettere di intervenire”(comunque sempre “dopo”) permetterebbe di capire quanto questo “intervenire”sia di per sé vuoto di significato. Per “intervenire” si intende sempre il mettere mano a progetti abbandonati da rivitalizzare, appalti iniziati e mai finiti oppure nuovi di zecca e in caldo da sfornare. Come se avessimo a disposizione bell’è pronta la perfetta conoscenza di cosa si può e deve fare e noi tutti avessimo la certezza che è la sola macchina amministrativa che impedisce di realizzarlo. Dispiace dire che non è così. Il meccanismo dell’intervento in Italia, in un ambito connotato da fortissimi contenuti scientifici, in realtà non ha mai valutato la credibilità e la reale efficacia dell’intervento stesso.
Se non sporadicamente. Per mancanza di risorse, per mancanza di competenze nelle sedi opportune, magari per convenienza politica o chissà che altro. E la credibilità e l’efficacia degli interventi possono essere solo prodotto di un approccio complesso che deve essere gestito da molte competenze differenti. Queste competenze devono essere strutturate probabilmente secondo criteri del tutto differenti da quelli attuali. Ricorrendo ad un esempio semplice la cartografia “operativa”, ossia quella annessa a norme urbanistiche e territoriali, è, in Italia, quasi esclusivamente gestita su base locale attraverso entità variabili (i Professionisti, talvolta le Università o il CNR, talvolta gli Uffici istituzionali degli Enti locali medesimi) che operano in maniera soggettiva ed autonoma con controlli tecnici a valle molto burocratizzati e nessuna validazione reale sul campo, rendendo i prodotti disuniformi, fra loro spesso in contrasto se non inconciliabili. In Canada, per portare un esempio, nazione dove ho lavorato per alcuni mesi, tutto ciò non può accadere. Semplicemente è da decenni presente un Servizio Geologico organizzato su base federale che, con proprio personale, propri fondi e con investimenti molto solidi, si è fatto carico da altrettanti anni di “coprire” il territorio con estesa attività sul campo e aggiornata tecnologia con conseguente mappatura dei diversi rischi. Ciò con continui aggiornamenti periodici. Questo è il campo operativo – indiscusso – ove investitori, tecnici ed operatori si misurano in modo direi “fideistico”. Ma la profonda differenza culturale sta nel fatto, ancora più rilevante, che la base tecnica non ha valenza “normativa”; non esistono cartografie con valenza di norma che impongano regole o comportamenti. Il controllo della compatibilità è effettuato dalle istituzioni progetto per progetto, volta per volta, in modo specifico e puntuale in funzione dell’operato e dei comportamenti di quei famosi team tecnici con competenze integrate (geologia, geotecnica, idraulica etc.), con controlli tangibili molto stretti sul campo. E’ facile quindi capire come, a fronte di evidenze scientifiche comprovate ed ufficializzate, non sia lasciato al singolo soggetto operante il dimostrare “l’assenza”di eventuale rischi, ma, preso atto della prova – provata del rischio, si inneschi un confronto dialettico estremamente serrato tra le parti per assentire o non assentire un qualsivoglia progetto. Su basi esclusivamente tecniche. Inutile dire che procedure siffatte hanno costi economici molto elevati in termini di approfondimenti tecnici e conoscitivi. Si consideri peraltro che i tempi del confronto sono però molto più brevi che in Italia e questo per una indiscutibile velocità burocratica delle istituzioni. A mio avviso appare quindi necessario sollevare una seria discussione su “come e quando “investire per la difesa del territorio. Ha senso ogni volta spendere in modo randomizzato decine e decine di milioni di euro a macchia di leopardo a seconda delle emergenze (e su basi tecniche sovente carenti) o è meglio una politica di lungo respiro che volti pagina e che davvero si faccia carico di una novità non solo di facciata? A fronte di investimenti, miliardari diciamolo pure, in un new deal del territorio, non andremmo comunque a risparmiare sul lungo periodo e salvando vite umane? Questo non è compito dei tecnici ma della politica che, dismessi i panni del nuovo di propaganda, avesse la giusta autorevolezza e al contempo l’umiltà di ammettere che negli ultimi decenni si è sbagliato tutto, o quasi, in termini di legiferazione privilegiando, in maniera anche un po’ ipocrita, la formula del divieto normativo cartaceo (spesso non adeguatamente giustificato, paradossalmente, sotto il profilo tecnico ) per poi arrivare, altrettanto paradossalmente, ad accendere tragici semafori verdi ancor piùingiustificati dove però davvero è dannatamente pericoloso farlo. Diego Minuto – Geologo Westgeo D. Minuto & Associati – Savona |