TECNOCRAZIA

TECNOCRAZIA DEMOCRATICA
 O TOTALITARIA?

TECNOCRAZIA DEMOCRATICA  O TOTALITARIA?

Da tempo si discetta sulla crisi o addirittura  sul fallimento dei regimi democratico-parlamentari; crisi e fallimento proprio di quel sistema che si vorrebbe esportare con le guerre cosiddette “umanitarie”   in quei Paesi del Terzo Mondo dove la nostra civiltà giuridico-politica, funzionale al modello di sviluppo industriale e capitalistico, non è stata ancora né raggiunta né – incredibile a dirsi – desiderata, ma anzi è temuta alla stregua di una peste da cui difendersi con ogni mezzo.

Ora, a parte l’evidente contraddizione etica (ma anche logica) della pretesa di imporre con la forza delle armi e dall’alto, cioè con i bombardamenti più o meno “intelligenti”, il principio illuministico della tolleranza, del pluralismo culturale e religioso,  del  confronto e della convivenza pacifica tra opinioni diverse, nonché del libero mercato delle merci, degli uomini e delle idee,  come possiamo  considerare virtuoso un modello di sviluppo che minaccia di distruggere, con se medesimo, l’intera umanità?

E su che cosa è basato questo modello se non sul potere della tecnica e  del denaro, cioè sul dominio e sullo sfruttamento delle risorse naturali, oltre che di quelle intellettuali e umane?

Eppure – si potrà obiettare – senza tecnica e senza capitali non sarebbero stati possibili i vari benefici sociali, e il conseguente miglioramento delle condizioni di vita di un numero sempre più alto di esseri umani; prova ne sia, tra le altre, la progressiva diminuzione della mortalità infantile e l’allungamento della vita media (ovviamente nelle ricche società “affluenti”, industriali e post-industriali del Nord del mondo).

E tuttavia è ormai evidente a tutti (o quasi) che la tecnica, di per sé, non ci garantisce dal rischio di una disumanizzazione crescente dovuta all’egemonia del pensiero solo calcolante e strumentale sulla tradizione umanistica che concepisce la tecnica al servizio dell’uomo, e non l’uomo al servizio della tecnica; né il capitalismo finanziario globalizzato ci garantisce dalla perdita dei benefici acquisiti negli ultimi due secoli e dalla globalizzazione non della ricchezza ma della miseria.

Malgrado queste evidenze, la politica intesa nel senso classico e alto del termine (la politeia platonica e aristotelica, o la “città ideale” del Rinascimento) appare sempre più un reperto da museo archoelogico, un oggetto di studi accademici o un titolo per tesi di laurea o di dottorato; così come la nostra cara e vantata liberaldemocrazia un apparato macchinoso, pletorico, plantigrado  e impotente di fronte alla dittatura delle “leggi del mercato” e alla speculazione finanziaria che, senza più freni, sta fagocitando se stessa. E la classe politica che cosa fa?

il conte Henri de Saint-Simon

La cosa migliore che possa fare, visti i risultati, è quella di autosospendersi e di affidare la gestione della res publica a manager esperti e a ingegneri (come già preconizzava il conte Henri de Saint-Simon), cioè a tecnici e a scienziati non condizionati dai loro interessi particolari – elettorali, aziendali o addirittura personali – e quindi in grado di mirare in alto e oltre le convenienze di bottega, si tratti di partito tradizionale  o di partito-azienda. E’ la tesi sorprendente – ma fino a un certo punto – anche del costituzionalista Gustavo Zagralbesky,  espressa nella sua relazione al convegno “Dallo Statuto Albertino alla Costituzione Repubblicana” svoltosi recentemente al Palazzo della Consulta, alla presenza, tra  altre autorità istituzionali, del Presidente Giorgio Napolitano.

 La classe politica dunque – osserva Zagrebelsky – è bene che si autosospenda, perché è più incline a ragionare sui tempi brevi scanditi dalle tornate elettorali e dalle rilevazioni demoscopiche che a preoccuparsi delle generazioni future: prevalgono gli obiettivi immediati e momentanei, una miopia allarmante come  l’irresistibile “tendenza a essere cicala, anziché formica”. L’attuale classe politica (non solo la nostra, per la verità) si comporta come la popolazione estinta dell’isola di Pasqua, dove ogni generazione pensava e agiva come se fosse l’ultima, quindi senza responsabilità alcuna verso la generazione successiva.

 Se questa è la situazione della politica oggi, il costituzionalismo prossimo venturo deve impiegare, accanto alla categoria dei diritti soggettivi, quella dei doveri oggettivi; il vecchio costituzionalismo che ha prodotto la democrazia moderna oggi non basta più a fronteggiare le catastrofi umanitarie, ambientali e finanziarie; è per questo che sono ormai necessari elementi  di tecnocrazia e di scientificità nell’agire politico, che lo sottraggano all’improvvisazione e all’arbitrio autoconservativo ed egoistico di governi e parlamenti tragicamente inadeguati. Dunque la democrazia, come è stata pensata fin qui, è ormai un ferrovecchio inutilizzabile? Va bene che c’è democrazia e democrazia, come la diretta e la rappresentativa, la borghese e la proletaria, la formale e la sostanziale; ma quella tecnocratica non si è ancora vista, anche perché non si è ancora visto un demos composto di soli tecnici o scienziati o ingegneri…

Ma si è forse mai vista una democrazia veramente realizzata? Forse che la massa dei cittadini elettori è in grado di deliberare e di stabilire quali metodiche di laboratorio sono meglio indicate, che so, per la ricerca avanzata in campo biomedico o per la ricerca sulla fisica delle particelle elementari? E il famoso (e ultimamente anche famigerato) “sviluppo” a che cosa è dovuto se non alla tecnologia applicata alla produzione di beni di consumo e al reperimento e allo stoccaggio delle materie prime e delle fonti di energia in via di estinzione? E chi decide quali “beni” sono utili, e quali inutili o addirittura dannosi; o i costi e i benefici per l’ambiente e la salute pubblica di una centrale nucleare o della TAV? La massa dei cittadini consumatori o l’élite dei tecnici e dei manager specializzati? Non sarà che il regime in cui siamo cresciuti sia democratico di nome ma oligarchico e sempre più tecnocratico di fatto? Prendiamo il caso delle opzioni militari per risolvere le controversia internazionali, forse che i governi democraticamente eletti consultano  il “popolo sovrano” prima di attaccare?

E, una volta iniziate le operazioni di guerra, si chiede forse il parere dei cittadini elettori sulla strategia da seguire o sui sistemi d’arma da impiegare?

 E sarà per caso che nel nuovo governo è stato messo un ammiraglio alla Difesa e un ingegnere all’Istruzione? Stiamo forse assistendo all’avverarsi  dell’utopia tecnocratica di Francesco Bacone in cui il  Sapere diviene effettivo Potere totalitario?  E c’è da augurarselo o da paventarlo? Certo è che ormai la posta in gioco è la sopravvivenza e il futuro del pianeta, e non ci rimane che sperare in una tecnocrazia “democratica”, cioè trasparente e non più occulta (sempre che questa non sia una contrddizione in termini).

 FULVIO SGUERSO

 

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