Tanti partiti ma la democrazia è latitante
Tanti partiti
ma la democrazia è latitante
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Tanti partiti ma la democrazia è latitante
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A contarli c’è da ridere. I partiti politici in Italia sono attualmente 85 dei quali ben 28 rappresentati in parlamento. Questa sì che è democrazia, la società civile è tutta rappresentata, nessuno è escluso o dimenticato, roba da far invidia all’Atene dei tempi di Pericle. Nemmeno per sogno. In Italia c’è un corpo elettorale nettamente maggioritario con idee, obiettivi, bisogni molto chiari ed espliciti di cui non si fa carico nessuno dei mille signori e signore virtualmente seduti sugli scranni di Camera e Senato e risolti in mugugni, risentimento, rabbia, disillusione.
Non solo disoccupati e sotto occupati ma anche stipendiati che passano la vita a fare i conti con bollette e carrello della spesa, spettatori passivi di uno spettacolo che non li riguarda e non li appassiona, messo in scena in un parlamento che cincischia per mesi intorno a provvedimenti sulla legittima difesa, impegnato a escogitare una legge elettorale che garantisca la sopravvivenza del sistema attuale, terrorizzato dalla prospettiva di perdere i privilegi che si è attribuito, preoccupato per la tutela dei “diritti” universali come se fosse il legislatore della galassia e non quello di uno Stato nazionale. Quindi non quelli troppo ovvi e volgari alla casa, all’alimentazione, alla sicurezza, all’assistenza dei quali in altri tempi si diceva che valesse la pena barattarli con altri diritti, quelli “borghesi” alla libera associazione o alla espressione delle proprie opinioni, rivelatisi ormai perfettamente inutili; accantonati questi e quelli, ora si perseguono le grandi conquiste di civiltà cosmica, dal matrimonio fra omosessuali alla genitorialità liberata dai vincoli della natura alla buona morte e al suicidio assistito, che hanno completamente oscurato i bisogni primari. E, mentre il problema della povertà di casa nostra si diluisce nel mare magnum della povertà globale, lo spirito di carità si esercita sui “disperati che fuggono dalle guerre”, – che si fanno da soli – dalla miseria – che pare incompatibile col costo del traghettamento – o da un clima e da un paesaggio che non gradiscono e se proprio urge tutelare diritti sociali si pensa a quelli dei minori non accompagnati fatti sbarcare sulle nostre coste. In linea di principio i partiti politici sono lo strumento che dà voce ai settori della società civile che in essi si riconoscono. Maggiore è la frammentazione della società più complesso e articolato risulta il quadro politico. Quando la conflittualità è molto forte o molto debole il quadro si semplifica o per radicalizzazione, destra contro sinistra, o per attenuazione delle differenze, che si riducono a modelli ideali o atteggiamenti culturali, conservatori contro innovatori. La conflittualità ha un significato politico quando aggrega gruppi sociali: i casi di scuola sono quelli delle classi sociali sulle quali si basa l’edificio del marxismo ma nella realtà si presentano situazioni molto più articolate, che, in generale, corrispondono alla difesa di interessi o privilegi comuni a un certo numero di persone. Se fossi un marxista direi che a questi fattori strutturali, di natura economica, si affiancano fattori sovrastrutturali, che interagiscono con i primi e rinviano ai sistemi valoriali, alle credenze religiose, allo stile di vita. Difficilmente un partito si limita a farsi interprete di un gruppo organizzato intorno alla tutela dei propri interessi. Di solito si fa carico di istanze generali in ambito sociale ed economico, per esempio la difesa della proprietà terriera, il sostegno alla produzione agricola o all’allevamento del bestiame o lo sviluppo delle attività manifatturiere e nel contempo si fa banditore di rivendicazioni valoriali per quello che esse incidono sulla società e sui comportamenti individuali attraverso la legislazione. In tutti i casi il partito, nelle moderne democrazie, è lo strumento grazie al quale il conflitto viene sottratto alla sua espressione immediata e proiettato nella dialettica politica. Il conflitto interno alla società dà di per sé luogo a fazioni, come quelle fra guelfi e ghibellini o bianchi e neri nei nostri comuni medioevali, fazioni che tendono a fronteggiarsi a mano armata; una versione più rozza ne sono la lotta fra bande o i conflitti tribali, che precorrono l’ordinamento civile e insieme ne segnano il disfacimento. Il partito rappresenta invece l’elevazione al livello politico della frammentazione della società, l’espressione di un dinamismo che di volta in volta può condurre ad una composizione delle forze che vi si agitano o ad una riorganizzazione del sistema. Le transumanze massicce da un partito all’altro, da un gruppo parlamentare all’altro, la fondazione di nuovi partiti formati solo da vertici, privi di base, per iniziativa di politici che hanno maturato la loro carriera politica in questo o quel partito sono il sintomo del disfacimento della democrazia rappresentativa, al cui interno il partito trova la sua legittimazione. I partiti conservatori tradizionali e, in generale, quelli che rappresentano i ceti abbienti, hanno una naturale continuità con i rappresentati e non tradiscono il loro elettorato. Eletti ed elettori sono socialmente omogenei, gli eletti sono semplicemente prestati alla politica che, di norma, non viene intesa come mestiere. I loro programmi sono semplici e realistici: tendono al mantenimento dello statu quo, al rispetto della legalità, dello Stato di diritto e al perseguimento dell’interesse nazionale, che coincide con i loro interessi di classe, anche con politiche aggressive nei confronti degli altri Stati. Questi partiti non sono necessariamente ostili al ricambio sociale purché legato al merito e alla capacità imprenditoriale e possono essere culturalmente illuminati, almeno fino al punto in cui la libertà di pensiero non collide con l’ordine costituito. Per questi partiti il problema dell’irrigidimento organizzativo e della creazione di un ceto di mestieranti della politica non si pone. La politica è vissuta come servizio, tanto più che il servizio verso lo Stato coincide con la difesa dei propri interessi. In Italia politici di questo tipo, liberalconservatori o liberal progressisti, sono stati Cavour, gli esponenti della destra storica e, più vicini a noi, in una versione cattolica De Gasperi e in una versione laica Malagodi. I partiti popolari o partiti di massa, come sono stati in Italia il partito socialista, il partito fascista, prima di diventare partito della nazione, il Pci e, con le debite precisazioni, la Democrazia cristiana, il Msi e Alleanza nazionale nella sua breve storia, Forza Italia, la Lega e i Cinque stelle, sono invece caratterizzati dal rischio di una netta discontinuità fra rappresentanti e rappresentati. Questi partiti, infatti, hanno tutti un carattere rivendicativo, perché interpretano il disagio che deriva dalla perdita di posizioni sociali, il malcontento per la propria condizione attuale e il desiderio frustrato di un avanzamento sociale ma a mano a mano che si organizzano creano caste di funzionari, dirigenti, politici di professione che, ammesso che lo abbiano mai sofferto, quel disagio non lo soffrono più; la politica diventa il loro ascensore sociale. Fra essi si distingueva il partito che si presentava come il paradigma della sinistra e il banditore della trasformazione radicale della società, in una posizione ambigua fra piazza e parlamento, insurrezione e consenso elettorale: il partito comunista nato da una costola del socialismo come sezione italiana di una organizzazione internazionale guidata dall’Unione sovietica. Era l’unico partito esplicitamente di classe, con un programma esclusivamente sociale ed economico, una precisa dottrina di riferimento, quella del marxiano manifesto del partito comunista, e un modello storico di riferimento, la rivoluzione d’ottobre. Il partito degli operai e dei contadini – questi ultimi rapidamente accantonati -, il partito dei lavoratori, con una connotazione marcatamente antisistema, originariamente anticlericale, antiborghese, pauperistico, rivolto contro i padroni, i possidenti, gli affamatori del popolo. In un partito così la discontinuità fra rappresentanti e rappresentati diventa parossistica: da Gramsci a Berlinguer passando attraverso Togliatti i leader, che sono anche personaggi mitizzati, non avevano niente in comune con le masse che in loro si identificavano. Nella storia della sinistra italiana non ci sono operai, non c’è nessun “Albert, ouvrier” da usare come foglia di fico per coprire le nuove borghesie che il partito, con la sua organizzazione, faceva nascere, non c’era nemmeno bisogno che i dirigenti si presentassero travestiti da proletari, come facevano e fanno invece i sindacalisti; loro ostentavano le loro grisaglie, i loro occhialini di gente che ha studiato, il loro linguaggio forbito e i loro gusti borghesi. Tuttavia, nonostante questa sospetta discontinuità, il partito ricorreva continuamente al bagno rigenerante del suo popolo, lo martellava con le parole d’ordine, gli slogan, l’iconografia, i personaggi e i luoghi esemplari, la fabbrica, la camicia rossa, il sudore della fatica, il miraggio di una società giusta. Insomma o nati borghesi o diventati tali grazie alla politica i compagni si preoccupavano di tenere ben stretti i legami con i loro fedeli e c’è da credere che, nonostante il loro personale stile di vita, la loro identità non potesse prescindere da quei legami. Poi la dottrina ha mostrato la corda. La fabbrica ha perso la sua centralità, l’economia italiana si è sviluppata non grazie alla grande industria, simmetrica alle masse operaie, che semmai è stata una zavorra, ma per merito delle piccole e medie imprese, le folle oceaniche e le standing ovation non hanno retto all’evoluzione del costume e alla scolarizzazione, e contestualmente la ricerca di consenso si è spostata presso gruppi sociali più istruiti, più differenziati, meno gregari, più attenti a difendere il proprio particolare e meno sensibili al sentimento di appartenenza collettivo. A questo punto la funzione storica della sinistra comunista, il Pci o Pds, o Pd che sia, sarebbe esaurita non solo o non tanto per aver perso la sua base sociale ma perché la sua dottrina di riferimento, il suo “progetto politico”, il suo situarsi fra riformismo e rivoluzione non hanno più senso. Per usare uno degli orribili stilemi della sinistra radical chic: la narrazione del partito si esprime ormai in una lingua morta, che può essere solo oggetto di curiosità archeologica. Invece il corpaccione mummificato del partito è ancora fra noi. Al suo interno lo manovra un’accolita di funzionari divisi in bande rivali fra di loro, impegnati ad accaparrarsi nuove posizioni di potere o a difendere e consolidare posizioni già acquisite, corrotti e corruttori del tutto avulsi dal corpo sociale. Questo corpaccione mummificato che era il partito dei lavoratori è il principale responsabile del collasso della democrazia in Italia.
Quello che succede nel corpaccione mummificato dell’ex Pci è disgustoso, è un oltraggio alla democrazia comunque declinata e fa rivoltare nella tomba i vecchi compagni. Tuttavia, senza che ciò possa valere in alcun modo come giustificazione, va tenuto conto del fatto che tutte le organizzazioni vanno incontro alla decomposizione: è una ovvietà doviziosamente descritta da Amitai Etzioni negli anni Sessanta del secolo scorso a proposito dei sindacati tedeschi. In qualche misura è fisiologico che col tempo i gruppi smarriscano gli scopi per i quali si sono costituiti e che l’apparato finisca per tendere unicamente all’autoconservazione. Nel caso del Pd l’aggravante sta nella qualità dell’apparato, privo di senso civico, di qualsiasi idealità e soprattutto di cultura e di intelligenza. Il caso dei Cinque stelle è diverso, e, sotto certi aspetti, più grave. Sul movimento grava la responsabilità di rappresentare milioni di elettori stanchi di questa politica autoreferenziale, dell’inefficienza delle istituzioni, della corruzione che mina i gangli vitali della società; sono persone che chiedono meno chiacchiere e più fatti, deluse e schifate dalla sinistra e dal cosiddetto centrodestra e che ora si trovano rappresentate da un’armata brancaleone miracolata dalla rete alla quale il miracolo ha dato alla testa e invece di farsi guidare disciplinatamente da Grillo, senza il quale il movimento non esisterebbe, pretende di collegare le quattro sinapsi su cui può contare e dà fiato al proprio vuoto mentale. All’indomani dalla strage di Manchester su un’emittente di regime un esponente del movimento, certo Lucidi, ha avuto la spudoratezza di accostare i ragazzini morti all’uscita dal concerto con quelli annegati nel barcone puntualmente rovesciato – con Trump nelle vicinanze -, come se in quel naufragio ci fosse la mano omicida dell’Occidente, quando c’era sicuramente la nave dell’Ong che nel punto di ritrovo concordato non ha saputo gestire il trasbordo. Lo stesso giorno il conduttore di una radio privata sentenziava che sì, è stata una cosa orrenda, una barbarie, non si uccidono bambini innocenti – come se gli adulti fossero colpevoli di qualcosa – però, però non si dimentichi che ogni giorno muoiono centinaia di piccoli musulmani…Ma, si sa, nelle radio locali, con la copertura dei compagni, sono infiltrati i centri sociali e basta premere un tasto per neutralizzarle. Sul parlamentare pentastellato grava invece una ben più pesante responsabilità; non gli si possono consentire queste farneticazioni da bettola rossa, che ha poi ribadito e aggravato con sociologismi d’accatto proponendo un’analisi – la parola in bocca a lui è un ossimoro – sui giovani disadattati, bianchi o neri, norvegesi o mediorientali, cristiani o musulmani e sulle ragioni del loro malessere, al quale andrebbe ascritto il terrorismo islamico, che, come ho già avuto modo di scrivere, più che terrorismo è una testimonianza, martirio, checché ne dicano Bergoglio e tutti quelli che sostengono che la fede non c’entra. Così a caldo nemmeno la più sfrontata e ottusa rappresentante del Pd si sarebbe spinta a tanto (mi riferisco a una signora che ha più volte dichiarato pubblicamente che il problema del terrorismo si affronta e si risolve con l’educazione). E non basta. Proprio nel momento in cui risulta chiaro anche ai più sprovveduti che il pericolo islamico si annida più insidiosamente negli immigrati di seconda o terza generazione, questo parlamento e questo esecutivo, che avrebbero dovuto gestire l’ordinaria amministrazione e varare la legge elettorale con cui finalmente andare a votare, smaniano per introdurre lo ius soli che consegni la cittadinanza al maggior numero possibile di africani, perché, dicono i compagni, se uno ha studiato in Italia ha diritto allo status di cittadino (tanto per intenderci in Norvegia, che non è il Burundi, la cittadinanza è concessa a chi nasce nel Paese e a condizione che almeno uno dei genitori sia norvegese). Per i compagni questo è parte del disegno strategico di snazionalizzazione e nell’immediato il mezzo per alimentare un bacino elettorale che si va prosciugando. Ovviamente nessuno nel Pd ha pensato di interpellare il popolo italiano né i propri elettori, che, per quello che posso constatare nella mia città, tradizionale roccaforte rossa, sono i più ferocemente ostili a questa nuova e irrimediabile apertura agli invasori; del resto il Pd non è vincolato dagli umori del suo elettorato, che il partito penserà a posteriori a rabbonire o ingannare in qualche modo. Ma il movimento che dovrebbe rispecchiare senza schermature i propri elettori, esasperati come tutti gli italiani dal degrado, dall’insicurezza, dalla precarietà economica, dalla mancanza di lavoro e di opportunità per i nostri giovani, che fa? In commissione affari lhanno disertato la seduta spalancando così le porte all’ingresso in aula del provvedimento. Un milione, per ora, di potenziali elettori per la sinistra, un buon modo per compensare i 150.000 ragazzi italiani che ogni anno ci lasciano e soprattutto un bel passo in avanti verso il baratro. Per essere un movimento popolare, o populista, non c’è male. Il redivivo Berlusconi ha imposto la sua idea di legge elettorale proporzionale. Benissimo – a parte il pastrocchio che stanno combinando per deformarla –; ma perfettamente inutile se non cambia il modo di considerare la politica e se, col pretesto della governabilità e della stabilità, si pensa già a vanificare il principio di rappresentanza, avendo in mente il travaso nel Pd dei voti degli elettori di destra. Un piano già concertato, che solo gli italiani, nel momento in cui si scopriranno le carte e si dimostrerà in che modo si fa strame della volontà polare, potranno sventare. E se sarà acclarato che le urne in Italia non bastano…Le corde più resistenti quando sono troppo tese possono rompersi; il Venezuela è lontano, ma la Grecia è a due passi da noi. Non ho sentore di rappresentanti della Lega che abbiano fatto affermazioni o appoggiato provvedimenti che non corrispondessero al sentire e agli interessi dei propri elettori. Qualcuno storcerà la bocca e sentenzierà: “questo è populismo!”. No, caro: questa è democrazia, questa è la regola della democrazia rappresentativa. Che l’abbiano trascurata i compagni è storicamente comprensibile, perché l’idea delle avanguardie rivoluzionarie, il concetto di coscienza di classe che non tutti hanno, la categoria del sottoproletariato strumento della reazione – sempre in agguato – e la funzione pedagogica assegnata agli “intellettuali” sono incompatibili con la democrazia e il sistema rappresentativo “borghesi”, che sono stati concepiti dalla sinistra rivoluzionaria come mezzi per la presa del potere in vista della fondazione dello Stato socialista. I comunisti attuali, il Pd, non i gruppuscoli che fanno solo del patetico folklore, sicuramente non sono dei rivoluzionari ma certi condizionamenti culturali restano ed è difficile per loro accettare il fatto che un voto dato all’avversario valga quanto il voto buono dato al partito ed è ancor più difficile accettare l’idea che l’elettore va rispettato e ascoltato e non educato e guidato. Piaccia o no ai commentatori dei giornaloni di regime la democrazia è populista o non è e lo stesso assolutismo politico, comunemente concepito come l’antitesi della democrazia, era legittimato dalla coincidenza fra interesse dello Stato e interesse dei sudditi, i quali rinunciavano alla loro sovranità proprio perché si sentivano rappresentati dal Sovrano. E quando ciò non accadeva erano dolori per lui. Insomma: prima di ogni teoria politica, prima che lo sostenessero Rousseau o qualsiasi altro, semplicemente perché è così in natura rerum: la sovranità appartiene al popolo. Da noi governo, istituzioni e partiti il popolo intendono narcotizzarlo, prevenirne le reazioni, disinformarlo, tenerlo a bada, renderlo inoffensivo, istupidirlo. Non c’erano stampa e televisione che provvedessero a minimizzare, a distrarre, a parlare d’altro, il lunedì di Pasqua del 1282 quando scoppiarono i Vespri siciliani per una brutta storia di violenza contro le donne e i Francesi vennero cacciati dalla Sicilia, anzi, più che cacciati vennero massacrati. Una brutta storia di violenza ma assai meno grave di quello che è capitato qualche giorno fa alla signora settantenne stuprata da un richiedente asilo in un paesino pugliese di 500 anime assediato da migliaia di cosiddetti profughi: sulla popolazione inerme che ha tentato di reagire rovesciando qualche cassonetto è calata la cappa di piombo del regime. In America, quando fino alla metà del secolo scorso episodi del genere non erano infrequenti, c’era parecchio lavoro per il boia. Per carità, la pena di morte è una cosa orribile, non fosse altro per il sospetto che sulla sedia ci sia finito anche qualche innocente; però sta il fatto che lo stupro da quelle parti si è impresso nella coscienza collettiva come un tabù, una nefandezza e un sacrilegio mentre da noi si è diluito nel calderone della libertà sessuale, della banalizzazione del commercio carnale, e sul ribrezzo ha finito per prevalere un colpevole cinismo, del tipo “ma in fondo che sarà mai”. Si aspetta che il fatto venga metabolizzato, si tenta di evitare che venga avvertito come una ferita inferta alla collettività tutta confinandolo nella sfera privata della vittima, si sfuma sulla figura dell’aggressore, si enfatizza il suo essere delinquente, meglio se mentalmente disturbato, per coprire il suo essere africano, richiedente asilo, indebitamente presente qui da noi e mantenuto a spese del contribuente. Eppure lo sdegno popolare è l’anima della democrazia, il segno che il popolo mantiene la sua dignità e non intende cedere la sua sovranità: l’esplosione spontanea della rabbia è esattamente l’opposto della folla aizzata dagli agitatori di professione, fomentata dai predicatori d’odio, ubriacata dagli slogan. E non è un caso che gli eredi di quegli incendiari siano diventati pompieri. Insomma, senza scomodare l’oltraggio a Lucrezia che segnò la fine della monarchia nella Roma delle origini, senza voler rinverdire il ricordo delle misteriose scomparse di tanti militari americani nella stessa Sicilia dei Vespri, sorprende che crimini di una gravità inaudita come lo stupro compiuti dallo straniero invasore si concludano senza svolte radicali, come fossero ascrivibili a quella quota fisiologica di criminalità che affligge ogni organizzazione sociale. L’ottundimento della coscienza collettiva, la lobotomizzazione di massa tentata dal regime, l’imposizione del pensiero unico che controlla i media con la complicità della politica, servono per mantenere un sistema di potere preoccupato solo della propria autoconservazione, succube di interessi stranieri, indifferente di fronte alla catastrofe che si prepara per l’Italia, colpevolmente corrivo verso tutta la galassia che orbita intorno alla destabilizzazione del mondo arabo, alla pressione migratoria, alla globalizzazione. Ma non si illudano gli scherani del regime: nemmeno negli anni più cupi dello stalinismo, nemmeno nella Cina di Mao e del libretto rosso sventolato nelle scuole, nemmeno nella Corea del nord la gente può essere eterodiretta. Se un regime come quello coreano dura nel tempo è semplicemente perché i coreani sono convinti che quel regime garantisca loro una condizione di vita accettabile. I condizionamenti di massa sono una bufala: il fatto che i governanti cerchino di influenzare la pubblica opinione non significa che ci riescano. Quello che possono fare è nascondere e mistificare i fatti, non possono plasmare le coscienze e i fatti prima o poi trovano il modo di imporsi. Non dare voce al popolo è un grave rischio per la democrazia. Se ci sono nel nostro Paese 85 partiti e partitini artificiali, senza contare i signori della politica come D’Alema, i maggiori dei quali per motivi diversi sono percepiti come inaffidabili o hanno già dato prove deludenti di sé, parlamentari che non rispettano il mandato ricevuto, l’impianto dello Stato poggia sulla sabbia, le istituzioni non sono più credibili, i cittadini sentono di non essere più rappresentati. Non intendo soffermarmi sugli scenari che si aprono in una simile condizione: quando la rassegnazione e il ritiro nel privato si alternano a esplosioni spontanee di rabbia collettiva può succedere di tutto. In questa congiuntura storica in Italia abbiamo un corpo elettorale ampiamente maggioritario che cerca una rappresentanza politica che la destra e la sinistra tradizionali non sono in grado di offrire. Finora ne hanno beneficiato il movimento Cinque stelle e la Lega. Del primo ho già detto quale uso stia facendo della fiducia che ha ricevuto, sulla seconda incombe l’ombra di Berlusconi col suo legame sotterraneo con l’establishment e l’incubo di un ritorno di Renzi. In un Paese normale Grillo e Salvini stenderebbero un programma comune semplice e chiaro come sono semplici e chiare le rivendicazioni del popolo italiano. Potrebbero rimettere sulla strada giusta il nostro Paese, liberarlo da questa politica marcia fino al midollo, sostituire i politici di professione, che non sono i leader, nessuno di loro saprebbe guidare nemmeno una bocciofila, con uomini e donne al servizio delle istituzioni senza che quel servizio diventi mestiere. Potrebbero. La Dc ha svolto una funzione di barriera contro il comunismo e di difesa dei ceti sociali più deboli oltre che degli interessi della classe media di riferimento. Ma aveva molte anime, tenute insieme dall’ossequio alla gerarchia ecclesiastica e dal debole collante della Rerum novarum. Secondo la vulgata è stata la vittima più illustre dei giudici di tangentopoli, che semmai hanno redatto il certificato di morte di un cadavere già irrigidito. La Dc aveva cominciato a morire quando quel collante si era liquefatto, la deriva ciellenista (il non rimpianto Comitato di liberazione nazionale) aveva lentamente sostituito l’anticomunismo degasperiano e le contraddizioni interne alla Chiesa postpacelliana, che fra preti operai, grandi e piccoli donmilani e calcoli di bottega cominciava a intrecciare una rete di rapporti coi compagni destinata a infittirsi col tempo, l’hanno privata del suo tutore spirituale. L’evoluzione del costume ha fatto il resto finché le spoglie del partito se le sono spartite la creatura di Berlusconi, la Lega e lo stesso Pci diventato Pds, Ds e infine Pd, che ne ha divorato gli ultimi avanzi. L’ambizione di Berlusconi era forse quella di creare una sorta di Dc laica, una forza politica sostenuta da un grande entusiasmo popolare, stretta intorno al leader, alternativa alla sinistra, anzi, decisamente anticomunista, interclassista ma attenta alle fasce deboli della società e baluardo dei ceti medi. L’entusiasmo c’è stato ma seguito rapidamente dalla delusione non tanto per l’attacco giudiziario e mediatico, non per l’esuberanza erotica del fondatore, che alla popolarità del Duce non aveva affatto nuociuto, ma più realisticamente perché gli elettori si sono sentiti truffati. Doveva essere un partito popolare e con un’organizzazione leggera ma capillare e invece era finito in mano a comitati d’affari, a lobby professionali, a vecchi arnesi della peggiore politica. Doveva coinvolgere il meglio della società civile e ci siamo trovati cortigiani infidi e servi sciocchi. Non si era mai visto in Italia e nel mondo, escluso forse qualche Stato teocratico, anteporre principi e valori astratti ai concreti bisogni, all’interesse e alle esplicite richieste dei cittadini. I nuovi comunisti del Pd lo hanno fatto e lo stanno facendo con una sfrontatezza raccapricciante. Fino a un certo punto si sono fatti paladini di minoranze, anche irrisorie, imponendo il matrimonio, perché tale è, fra omosessuali, con tutti gli oneri che ne derivano sulla collettività, favorendo la genitorialità sussidiaria, decretando la dolce morte nella prospettiva del suicidio a carico del sistema sanitario nazionale e aspettando il momento buono per depenalizzare commercio e uso di stupefacenti. Tutte cose che in un referendum popolare sarebbero state sicuramente bocciate ma che quanto meno rispondono ad una effettiva esigenza di settori, anche se minoritari, della società. Si è fatto certamente un grande pasticcio fra tutela e tolleranza, pubblico e privato, scelte personali e costrizioni giuridiche, diritti e garanzie, moralità e legalità, un po’ come successo con l’aborto, ma questo va ascritto al livello culturale e al quoziente intellettivo della nostra classe politica. Il peggio però è venuto con l’Europa e con l’invasione. Tutti i Paesi europei hanno, giustamente, badato a tutelare i propri interessi, gli interessi dei propri cittadini; il Pd con i suoi accoliti ha fatto e sta facendo esattamente il contrario in nome di uno scombinato sistema di valori: l’europeismo di Ventotene, la carità cristiana, i diritti universali dell’uomo – che poi sarebbero del cittadino –, la globalizzazione, la cittadinanza planetaria e la fratellanza cosmica. Un mix indigesto di sacrestia, paleocomunismo, anarchismo, con un pizzico di massoneria e di rivoluzione francese. Che, a volerne usare metodi e linguaggio, nel momento fatale in cui i responsabili si troveranno di fronte al tribunale della storia, ma io mi auguro anche a quello degli uomini, imporrebbe di esporli tutti, e fra di loro i Cinque stelle che vi si annidano, al pubblico ludibrio, non dico à la lanterne o alla carezza della veuve, il giocattolo fatto adottare da M. Guillotin, come nemici del popolo. Lo imporrebbe, se fossimo della loro stessa pasta. Mi basta la sanzione morale e la damnatio memoriae, dopodiché spariscano dalla scena politica, possibilmente senza vitalizi Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione |