Sulla decenza e docenza del vestire
Non per il caso in se stesso, ma per l’opportunità che offre di fare alcune considerazioni sui criteri da tener presenti in determinati ambienti, situazioni e luoghi.
Quindi non per forza le aule scolastiche, anche se lo stimolo a trattare dell’argomento parte da lì.
E più precisamente da una frase (“Ma che stai sulla Salaria?”), visto che è noto come la Salaria sia una strada di Roma frequentata da prostitute.
Frase inopportuna rivolta da una professoressa ad una studentessa che, in modo inopportuno, quando l’insegnante è entrata in classe, stava registrando un balletto da postare su Tik Tok, con mosse, pare, piuttosto provocanti e pancia scoperta.
Altri dettagli non servono perché l’intento di questo breve articolo non è discettare su colpe e ragioni.
L’intento è invece di segnalare la necessità di non navigare più a vista relativamente ai comportamenti di chi opera e frequenta uno spazio pubblico come la scuola.
Diciamo subito che in generale ci si affida o al senso comune, traduzione immediata e popolare del convergere di elementi statistici quali la media, la moda e la mediana; oppure al buon senso, il quale invece si appoggia sull’accettare le cose non semplicemente perché vanno per la maggiore, ma perché sono sostanziate da ragioni le quali pur non essendo per forza le più condivise, sono però razionalmente le più condivisibili.
Laddove però non ci si voglia affidare né al senso comune né al buon senso, allora bisognerebbe, obtorto collo, intervenire con le norme, e, se il caso, con le norme di legge.
Se non accade è perché si ritiene che un simile intervento rischierebbe di essere socialmente criticato, politicamente osteggiato e elettoralmente punito; sicché, nella fattispecie, si preferisce scaricare sugli insegnanti la gestione della vita di classe senza tuttavia fornir loro gli indispensabili strumenti per farlo (Leggi, Decreti, Circolari Ministeriali).
I docenti, a loro volta, cosa potrebbero stabilire per affrontare la questione annosa di quale sia la linea di demarcazione tra decenza ed indecenza del vestire a scuola?
In sostanza si chiede loro (sussurrandolo alle orecchie, perché a voce alta significherebbe assumersene la responsabilità), di inventare una qualche formula dirimente. Di inventarla. Non di applicarla, perché, appunto, non c’è.
Ma quale potrebbe essere?
Non certo quella che stabilirebbe a suon di centimetri la lunghezza minima della gonna e di centimetri quadrati la zona di pancia scoperta, cosa che sarebbe ovviamente ridicola e altrettanto ovviamente ingestibile nonché foriera di discussioni infinite sul perché dei criteri adottati e non di altri in cui si contemplasse un centimetro in più o uno in meno.
Si contrapporrebbe il relativo del “Così è, se vi pare” all’assoluto del “Cogito, ergo sum”; il principio di indeterminazione alla geometria euclidea. Per giungere magari in modo più o meno congruo, agganciandosi all’attualità, al mascherina-no libertario vs il mascherina-si securitario, e insomma di tutto e di più. E di niente. Perché niente se ne ricaverebbe.
Per trovare una via d’uscita da situazioni avvitate su se stesse, bisogna alla fine provare ad inserire un elemento nuovo.
E l’elemento nuovo è dato, semplicemente e concretamente, non dall’ultima indagine pedagogica o dall’ultima scoperta in psicologia dell’apprendimento, e neanche dall’ennesimo ribaltamento sul soggetto della centralità didattica, ma dal ripristino (e qui ci vengono in soccorso gli antropologi che ci hanno mostrato come di solito sia un dato materiale a destrutturare e poi ristrutturare il reale) dell’ingiustamente snobbato grembiule.
Se chiamarlo grembiule richiamasse troppo quelli bianchi abbinati a fiocco rosa e quelli neri abbinati a fiocco azzurro della scuola primaria di un cinquantennio fa, chiamiamolo camice, o cappa, o, se si chiarisce bene la sua estraneità con l’idea di irregimentazione, uniforme o divisa.
Siamo d’accordo tutti che sarebbe preferibile poterne fare a meno.
Diciamo che per un bel po’ di anni ci si è provato.
Ma, appunto, per fruire di certe cose è necessario possedere quel senso del limite che si può intuire ma non definire; e quindi indicare, e quindi pretendere.
E allora si persiste nella prova finché questa intuizione è sostanzialmente condivisa, lasciandole il timone.
Poi, quando per vera esigenza o per paravento all’abbigliarsi come si vuole, si pretende che i criteri assurgano al livello di teorema, il quale dovrebbe essere dimostrato lì, tra un’interrogazione e l’altra e tra i libretti delle assenze da firmare, ecco che il timone dalle mani di questa intuizione bisogna toglierlo, e saltando a piè pari ogni sussidiarietà intermedia, porre ex abrupto direttamente al Ministro della Pubblica Istruzione e alla Corte Costituzionale la seguente irrituale e apparentemente provocatoria domanda:”Si può andare a scuola nudi?”
Se sì,
il problema è risolto: se si può andare a scuola nudi, tutti gli altri gradi di nudità sono automaticamente consentiti. Saranno contenti gli studenti perché sapranno di poter fare tutto, e altrettanto contenti i docenti, che sapranno di non dover fare niente.
Se no,
i casi sono due:
1) Quello ipotizzabile ma non praticabile di incaricare i docenti, quasi facessero parte di un Comitato di Salute Pubblica, di misurare la dimensione e il posizionamento degli strappi dei jeans nonché il numero di bottoni fuori asola delle camicie di studenti e studentesse.
2) Quello di ufficialmente adottare la divisa, per allievi, allieve e insegnanti, il quale essendo oltreché ipotizzabile anche praticabile, resta, pare, l’unica opzione. Sono molti i Paesi del mondo in cui la divisa è obbligatoria. Solo per la scuola primaria, o solo per la secondaria, o per entrambe.
Premesso che si sta trattando esclusivamente di proporre un’idea per trovare una soluzione all’assenza di criteri sulla liceità o meno di come ci si veste a scuola e non dei pro e dei contro che una divisa a livello sociale, psicologico, economico comporta; e sottolineato altresì come non si voglia entrare in questioni giuridiche (per esempio su quello che l’art. 21 della Costituzione italiana può o meno consentire) visto che si sta facendo un discorso su un’oggettiva esigenza di direttive chiare e non su come tecnicamente e giuridicamente possano essere soddisfatte, ebbene, forse è il caso di far notare che gli operai, i farmacisti, i commessi, i medici, gli infermieri…(e tanti altri), per motivi seri di pulizia, riconoscibilità, igiene e quant’altro, e quindi per motivi spesso in buona parte differenti da quello, serio comunque anch’esso, di trovare un modo di rapportarsi che risulti certificato e certificabile, indossano il càmice (la cappa, il grembiule, la divisa o similari).
Sarebbe allora un sopruso, visto che di mezzo c’è la tutela della gestione corretta della scuola e della educazione alla convivenza, richiedere di trascorrere la mattinata a scuola in càmice anziché in camicia?
Anche lì i casi sono due:
1) No, e allora vediamo di adottarlo.
2) Sì, e allora vediamo di liberare democraticamente dal sopruso anche operai, farmacisti, commessi, medici e infermieri…(e tanti altri).