Sul “fatalismo” delle genti meridionali

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In Irpinia, come in altre aree interne del Sud, la negazione sistematica ed estesa della cittadinanza, dei diritti politico-civili per le classi popolari, il loro asservimento ai notabili locali, obbliga le giovani generazioni proletarie a mendicare elemosine o favori elargiti secondo sistemi clientelistici e paternalistici, retaggio di un passato feudale: per ottenere anche un lavoro miserabile, precarizzato e malpagato, sprovvisto di qualsiasi tutela, persino per richiedere un banale certificato, i diritti sono svenduti in cambio di voti ipotecabili a vita.

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Questa mentalità subalterna è il sintomo inequivocabile di una sudditanza culturale, politica e psicologica, è un’eredità semi-feudale, che ispira il fatalismo e la rassegnazione delle genti meridionali: un elemento intrinseco alla “normalità quotidiana”, che induce le persone ad accettare la sudditanza come “stato di natura ineluttabile”, in base ad una inesistente “legge di natura”, che nella sfera storico-sociale non ha ragion d’essere. In effetti, le leggi naturali, o fisiche, non sono affatto applicabili alla dialettica della storia, ovvero ad un mondo attraversato da conflitti, da tendenze e controtendenze poste in costante divenire, che si intrecciano in rapporti di interazione e reciprocità, per cui nulla è immutabile nelle vicende storiche e politiche dell’umanità, come si deduce già dalle rivoluzioni che abolirono i privilegi feudali, la servitù della gleba, la schiavitù.