Se lo Stato non appartiene al popolo…

Se lo Stato non appartiene al popolo
non ci sono cittadini ma sudditi
E non ci sono né democrazia né diritto

Se lo Stato non appartiene al popolo
non ci sono cittadini ma sudditi
E non ci sono né democrazia né diritto

 “La costituzione dello Stato è buona se produce buoni cittadini, cattiva, se cattivi. E in buona costituzione i nostri antenati furono cresciuti. Eguale è il governo, ieri e oggi: un governo aristocratico. Qualcuno la chiama democrazia, altri come più gli piace ma si tratta sempre di aristocrazia, con l’approvazione del popolo. Padrone dello Stato è il popolo, che attribuisce il potere a chi ne è più degno, e non sono motivo di esclusione l’infermità fisica, la povertà o l’umiltà delle origini. Uno solo è il criterio: chi è ritenuto sapiente e vale, ha il potere e governa. Noi ci inchiniamo gli uni agli altri per un solo motivo: fama di virtù e intelligenza”. Platone, Menèsseno, 238 e-d.

 Son passati quasi venticinque secoli e si sta a cincischiare su cose che già allora erano ovvie e fermamente stabilite. La forma di governo è irrilevante ma il principio che lo Stato appartiene al popolo è immutabile e indiscutibile. Quale che sia la forma di governo quel principio non va mai scalfito; il nochiere ricordi che sta guidando una nave non sua e siano i  migliori quelli che reggono il timone, gli àristoi, i migliori per intelligenza, saggezza e cultura, non i nobili o i ricchi, e non perché decidono da sé di essere i migliori ma perché il popolo li riconosce come tali.

Quando lo Stato è saldamente in mano al popolo solo allora c’è democrazia. Che in realtà è il governo affidato ai migliori, o anche al migliore, ed è pertanto sempre aristocrazia. Questo è il fondamento della nostra civiltà, il lascito della cultura e dell’esperienza politica greca e romana. Noi, dopo aver attraversato il mare di retorica dell’illuminismo, delle due grandi rivoluzioni, la francese e l’inglese, del liberalismo e del socialismo, quel lascito rischiamo di disperderlo e di trovarci in uno Stato più spaventoso del Grande Leviatano, ostile, lontano, con la faccia fredda del magistrato, dell’esattore, del burocrate e un governo nelle mani di cialtroni ambiziosi, arroganti, stupidi e insipienti. La nostra è una aristocrazia rovesciata, altrove l’ho chiamata  pudicamente anoetocrazia, Feltri, più diretto, l’ha definita scemocrazia.

Siamo gli eredi di una civiltà di uomini liberi, liberi anche quando governati da un tiranno, e ci siamo ritrovati sudditi, servi, schiavi, rassegnati e impotenti e, come gli schiavi nell’antica Roma o i servi della gleba nel medio evo, contenti di condurre la propria esistenza sotto la cappa del potere con le piccole soddisfazioni che quello ci consente, lavorare, comprare, consumare, stretti nell’aia in cui veniamo confinati come animali da cortile. 


Intendiamoci: mi riferisco all’Italia e mi si può obiettare che negli altri Paesi le cose non stanno diversamente. Se fosse vero sarebbe una ben magra consolazione. Ma non lo è o, quantomeno, non è del tutto. La sovranità popolare rimane ovunque un ideale, un’aspirazione o una stella polare; la politica è quasi sempre nelle mani di persone animate da sete di potere più che da spirito di servizio ma, per dirla con Platone, la forma dello Stato non ha prodotto altrove cattivi cittadini come è accaduto da noi, dove si è perso completamente il senso della cittadinanza e la politèia si è trasformata in un mercimonio fra lobby e partiti.

Abbiamo tollerato un primo ministro che per mesi ha sbandierato inesistenti risultati conseguiti dal suo governo, ha pubblicamente e ripetutamente vantato la crescita e la ripresa economica dell’Italia proprio quando il Paese scivolava ai margini dell’Europa, con un prodotto interno lordo inferiore a quello dalla Spagna, un Paese che ha un potenziale umano e produttivo di gran lunga inferiore. Quello stesso Gentiloni, lasciato incredibilmente al suo posto da sessanta giorni per l’ordinaria amministrazione, con un parlamento silenziato in attesa dei comodi di chissà chi e un’opinione pubblica esasperata dalla continua immissione di africani da ospitare forzosamente, come un boeri qualunque ha sostenuto che l’Italia “ha bisogno di più immigrati”. In qualsiasi altro Paese, in qualunque latitudine,  non dico un inquilino abusivo come Gentiloni ma un premier legittimamente in carica che avesse fatto una simile affermazione sarebbe stato sbattuto fuori a calci, non solo metaforici.


Tolleriamo che dalla televisione pubblica l’ex ministra della salute, un personaggio che rappresenta solo se stessa, rientrata in parlamento per il rotto della cuffia grazie alla riconoscente ospitalità del partito democratico, continui a pontificare, a ridurre i problemi e i guasti della sanità pubblica alla obbligatorietà delle vaccinazioni e a  elogiare l’operato di un ministero che ha contribuito fattivamente a privare i cittadini del diritto alla salute. 

Tolleriamo il fiume di sciocchezze e di spudorate menzogne che dai telegiornali e dai talk show invade quotidianamente le nostre case. Tolleriamo che anche attraverso la pubblicità si costringa la gente a credere che la nostra è una società multietnica infilando dappertutto l’uomo nero e invitando esplicitamente all’ibridazione con l’esibizione di giovani coppie bicolori. Tolleriamo che la ricorrenza del 25 aprile invece di essere abolita venga celebrata da africani che agitano la bandiera della Palestina e bruciano quella israeliana. Tolleriamo giudici che non vedono il reato nel fantoccio di Salvini a testa in giù o nella libraia che espone capovolti i libri sul Duce. Tolleriamo il giudice che si ostina a negare le violenze sulla povera Pamela sfidando l’evidenza delle prove biologiche e delle intercettazioni telefoniche. 

 

Tolleriamo sindacati confederali, con in testa la Cgil, che fanno passare per una conquista e una vittoria dei lavoratori aumenti di 80 euro lordi nella scuola e nella pubblica amministrazione quando, di soppiatto, si accordano per aumenti minimi di 250 euro per i dirigenti. Non solo non si avverte e non si cerca di rimediare allo sconcio di una forbice retributiva ingiustificata ma si provvede ad allargarla ancora di più. Con l’aggravante che la selezione dei dirigenti, inquinata da massoneria, politica, e sindacati, ha portato ad un marasma organizzativo che inficia tutti i gangli dell’apparato dello Stato. Come accade nei partiti si ha l’impressione che solo i peggiori facciano carriera.

Ci danno a intendere che democrazia sia libertà di parola, quando la tua parola non conta nulla; che democrazia sia libertà di associazione e di manifestazione, ma se intendi ricordare il povero Ramelli massacrato dai compagni per un tema, come era accaduto trenta anni prima alla piccola Giuseppina Ghersi, interviene la Digos  per schedarti e trasmettere alla procura i nomi di chi era con te e si è azzardato a levare il braccio in segno di saluto. Ci danno a intendere che democrazia è il diritto di voto ma ai piani alti della politica e della finanza si conviene tranquillamente che il popolo non sa e non capisce qual è l’interesse del Paese e il suo voto non conta nulla.


E, infatti, ridurre il Pd al 18% non è servito a nulla: per due mesi tutti i giorni e a tutte le ore ci sono state somministrate le facce e le voci di quel partito come se ancora avesse qualche peso nell’elettorato  e da tutte le parti si è invocata la sua partecipazione attiva ad un governo di responsabilità, che, si è detto, non avrebbe potuto prescindere dalla sua presenza. E Berlusconi, che in campagna elettorale aveva giurato che con lui – con Forza Italia e un leader da lui istruito e guidato – si sarebbero subito espulsi 600.000 clandestini, nemmeno tanto velatamente si è dato daffare per un governo in combutta coi compagni puntando ora su Letta  ora su Renzi, l’uomo di Bruxelles e quello che per avere quattro (nemmeno trenta) denari dall’Europa ha pianificato l’invasione.


In Italia lo Stato è di tutti fuorché del popolo. E se lo Stato non appartiene al popolo la democrazia è solo una truffa, un imbroglio, una parola priva di senso, flatus vocis. E il cittadino che assiste senza che lo avverta come un vulnusper sé allo scempio di diritti e libertà che in ogni Paese civile sono acquisiti, come il rispetto del voto popolare, non è un cittadino ma un servo. Anzi, è peggio di un servo perché gli manca la consapevolezza del suo servaggio, la sola che potrebbe riscattarlo. Supino, rassegnato, distaccato, si volta per non vedere, tira a campare. 

Entro i limiti della decenza – e dell’evidenza fattuale – e fatta salva la buona fede, sullo stesso argomento si possono avere opinioni diverse. Lo stesso Platone era consapevole che la politica solo idealmente coincide con la filosofia; possiamo aggiungere che non coincide nemmeno con la morale o con la logica. Ma se non è materia per una scienza esatta nemmeno lo è per farneticazioni e vaneggiamenti; vediamo cartesianamente  di non tradire il buon senso e l’evidenza dei fatti e concediamoci una constatazione: quello che è accaduto in Italia dopo il voto del 4 marzo avrebbe sollevato ondate di proteste in qualunque angolo del globo. Solo da noi è sembrato normale e nelle sale ovattate del potere a Mattarella sono arrivati solo segni di stima e genuflessioni. 

Ora che, senza più alibi e forse dopo una strigliata sacrosanta del suo creatore, il pupazzo di Pomigliano si è seduto al tavolo, al Fatto, sulla stampa berlusconiana più realista del re e soprattutto al Quirinale sono in grandi ambasce e dal colle più alto si comincia a straparlare. Si arriva anche a dire che i ministri li sceglie uno che è stato eletto da un parlamento che non c’è più. E intanto Macron, meno accorto della Merkel, se ne infischia della forma e minaccia scopertamente un governo non ancora nato. A questo punto hanno portato l’Italia.

Tout va très bien, madame la marquise.

      Pier Franco Lisorini

 Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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