Se i referendum di Landini fossero arrivati ai tempi della DC: la laicità autentica contro l’attivismo mediatico
Se i referendum di Landini fossero arrivati ai tempi della DC:
la laicità autentica contro l’attivismo mediatico
Oggi ci troviamo dinanzi a una fase politica che porta il segno di una forte mobilitazione referendaria, guidata da Maurizio Landini e dalla CGIL, intesa a riaprire il fronte dei diritti sociali e del lavoro, attraverso cinque quesiti tecnici che toccano nervi scoperti del sistema italiano. Ma questa mobilitazione, che dichiara di voler «rimettere al centro la Costituzione», solleva interrogativi non solo nel merito ma nel metodo. È veramente un’operazione genuina, o – come qualcuno sospetta – rappresenta il trampolino per una futura investitura politica dell’attuale leader sindacale? E soprattutto: come sarebbe stata vissuta, affrontata e trattata una simile fase negli anni in cui la Democrazia Cristiana dettava i tempi e i toni della politica italiana?
Landini, tra partecipazione e protagonismo
Il linguaggio utilizzato da Landini richiama un immaginario forte e popolare: la lotta per la dignità, il contrasto alla “cultura dello scarto”, l’opposizione a un sistema neoliberista che ha fatto del lavoro precario la norma. Fin qui nulla di nuovo. Ma l’insistenza su un presunto “oscuramento” mediatico, sulla “paura della democrazia” che aleggerebbe tra le file governative, sembra talvolta più orientata a costruire un racconto “contro”, più che una reale alternativa politica. Il sospetto che si voglia usare lo strumento del referendum come mezzo per edificare una leadership carismatica, al di là delle logiche sindacali tradizionali, è legittimo.
Tanto più che l’iniziativa si innesta su una stagione nella quale – dal 25 aprile al 1° maggio – il monopolio simbolico della sinistra su certi valori storici e civili si traduce in una narrazione divisiva: da una parte i difensori della democrazia, dall’altra i “fascisti striscianti”, rei, anche solo per omissione, di essere complici della deriva autoritaria. Uno schema manicheo che rifiuta il pluralismo della coscienza democratica, e che spesso mostra una scarsa capacità di autocritica.
La DC e l’autonomia dei laici
La Democrazia Cristiana, diversamente dagli “atei devoti” di oggi o dai testimonial mediatici che brandiscono parole papali come clava politica, incarnava una laicità autentica. Quella DC che si ispirava al personalismo comunitario, a Maritain e a Dossetti, rifiutava ogni uso strumentale della religione o delle ricorrenze civili. Mai si sarebbe permessa di evocare il magistero ecclesiale per legittimare un’iniziativa referendaria o una campagna di delegittimazione dell’avversario politico.
Allora, un’iniziativa referendaria come quella di Landini sarebbe stata giudicata e gestita in tutt’altro modo. Prima di tutto, i leader DC si sarebbero interrogati sul contesto sociale reale, ascoltando tutte le componenti del lavoro, senza appiattire le questioni complesse su slogan di piazza. Avrebbero coinvolto le articolazioni del partito – le ACLI, la CISL, il mondo cooperativo – per una valutazione ponderata. E soprattutto, non avrebbero fatto dei referendum una passerella personale né uno strumento per minare la tenuta istituzionale.
Il metodo DC: sobrietà e discernimento
Nella prassi democristiana, la rappresentanza non era mai scambiata con la visibilità. La sobrietà e la gradualità erano criteri operativi, non ostacoli alla partecipazione.

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Di fronte a temi tanto cruciali come il reintegro nei licenziamenti, la precarietà o la cittadinanza, si sarebbe aperto un confronto parlamentare ampio, evitando la scorciatoia del plebiscitarismo popolare. Non per paura del popolo, ma per rispetto della complessità del reale.
La DC, nel suo momento migliore, ha sempre riconosciuto che il potere può diventare egemonia solo quando non è più capace di autocritica. Ecco perché, anche nelle campagne elettorali più dure, non ha mai costruito il nemico demonizzandolo. La pagliuzza nell’occhio altrui, prima di essere additata, era misurata con la trave nel proprio. Oggi, invece, è sempre più frequente l’uso ossessivo dei social per delegittimare l’altro, per indignarsi “a orologeria” su questioni marginali, mentre si trascurano le macerie nella propria casa.
Il rischio dell’identitarismo sindacale
C’è poi un tema più sottile ma altrettanto importante: il rischio di un’identitarismo sindacale che, paradossalmente, ripropone i difetti della politica che critica. Un sindacato che non è più interclassista ma selettivo, che parla solo a una parte del Paese, e che si presenta come supplente di un’opposizione politica debole o frammentata. Se la CGIL finisce per sostituirsi al Parlamento o ai partiti, allora siamo di fronte a una crisi della rappresentanza più che a una rinascita della democrazia.
Ai tempi della DC, si sarebbe ricordato che il compito del sindacato è contrattare, non comandare. Proporre, non polarizzare. Costruire ponti, non piazzare trincee. Ed è proprio questa visione della politica come servizio, non come palcoscenico, che oggi manca a tanti protagonisti della scena attuale.
Conclusione: la laicità come stile, non come etichetta
I referendum di Landini, nella loro sostanza, pongono questioni legittime. Ma il modo con cui vengono presentati, l’uso delle festività civili come strumento di pressione politica, e l’ambiguità sull’obiettivo finale – cambiamento o scalata personale? – rischiano di minarne la credibilità. Ai tempi della DC si sarebbe agito in modo diverso: senza clamore, senza crociate ideologiche, con sobrietà, ascolto e vera laicità.
Perché la vera sfida oggi non è solo quella di “andare a votare”, ma di ricostruire un linguaggio della politica che non sia urlato, né sacrale, né vendicativo. Un linguaggio capace di distinguere la piazza dalla coscienza, e il protagonismo personale dalla responsabilità collettiva. E su questo, la lezione della DC resta ancora, malgrado tutto, insuperata.