Scrittori della domenica
Scrittori della domenica
Premessa: chi si sente o è un grande scrittore propriamente detto può fare a meno di leggere questo testo
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Scrittori della domenica |
Premessa: chi si sente o è un grande scrittore propriamente detto può fare a meno di leggere questo testo. La presente missiva è dedicata a chi, come me, coltiva l’hobby della scrittura, generalmente nei ritagli di tempo. Dato che per argomentare ci vuole metodo e il metodo prevede la classificazione, cominciamo con la tassonomia dello scrittore della domenica (d’ora in avanti nominato come SDD). Possiamo suddividere questa categoria umana in tre classi distinte: poeti, narratori e storici. Non c’è un’età, non c’è sesso che tenga. Purtroppo o per fortuna non c’è neanche un titolo di studio che valga, discrimini, convalidi in qualche modo il lavoro prodotto. I poeti sono, generalmente, i più devoti all’estetica, ad un certo narcisismo. Ve ne sono di eleganti o di trasandati. Non troverete mai un (una) poeta (essa) sobrio (a). Mentre nel genere femminile il poeta SDD abita una certa ricercatezza di abito, trucco e accessori, in quello maschile se ne troveranno di due scelte: il primo arruffato, tribolato, evidentemente sofferente del parto continuo e del travaglio che lo porta a trascurarsi nel cibo e nel vestire (non disdegnando poi l’alcool, un tempo anche il fumo, ma questo ormai è fuori moda). Il secondo è il poeta splendido, bordato in ascot di seta, abbronzato, munito spesso di Borsalino e anelli preziosi. Le poetesse avranno quasi sempre il doppio cognome, un po’ per protestare nobiltà, un po’ per farsi conoscere nelle due incarnazioni femminili: nubile e coniugata. I narratori tendono a nascondersi un po’. Sono essi (uomini o donne) spesso soprapensiero, anche se non stanno pensando a nulla. Ma l’atteggiamento anzidetto serve per apparire più impegnati. Parlano volentieri di libri, ma (in genere) disdegnano le ultime uscite famose, preferendo i piccoli editori indipendenti e gli autori misconosciuti. Ritengono le grandi case editrici un covo di vipere, una degenerazione della cultura, un monopolio sovietico (nella migliore delle visioni). Tutto perché da anni inviano i loro manoscritti a questi famosi editori, ricevendo talvolta una contrita lettera di disinteresse. Non chiedete mai, mai a un narratore di parlarvi del suo ultimo libro: si farà pregare. Non insistete: è un trucco. Vi fracasserà l’esistenza per due buone ore con questioni care a lui solo, concludendo poi sulla cattiveria e superficialità del mondo. Gli storici sono i più pericolosi. Soprattutto quelli locali. Possono essere farmacisti, preti, capostazione, idraulici o programmatori, tutto meno che storici propriamente detti, e sembra che vivano della loro passione, che è, in genere, la storia del loro paese natio. Dotati di caparbietà senza eguali, conoscono tutto, tutto del proprio paese. Da quando avevano 12 anni frequentano l’archivio parrocchiale, comunale, di stato, notarile, vaticano. Conoscono tutte le biblioteche pubbliche e anche quelle private. Sono riusciti a trovare il nome del fratello della moglie del garzone che nel 1245, durante l’edificazione del campanile, pestò un dito al capomastro, causandone improperi tali da dover ricorrere a una doppia benedizione per bonificare il sito. Sanno tutto. Tutto e basta. Tanto che uno storico propriamente detto evita con la massima cura di incrociare il suo percorso accademico con uno di questi possessori della Storia Patria: avrebbero tutto da perdere. C’è da notare che recentemente i giovinotti sono meno attratti dalla storia locale, forse perché le fanciulle, per le prime, disertano gli ammuffiti archivi locali. Tutte e tre le categorie vedono realizzato il loro lavoro nella pubblicazione. Alcuni su riviste, altri su miscellanee, talvolta in forma di libro, sia esso romanzo, silloge poetica o monografia. Dopo un diuturno lavoro durato anni, letto ad alta voce a vantaggio dei parenti (i quali, sia detto per completezza, apprezzano, ma si chiedono se non era meglio quando il soggetto raccoglieva silenziosi francobolli) condividendo dubbi e revisioni micrometriche, affidano il manoscritto alla posta, che venga consegnato ad un Editore Propriamente Detto, un nome famoso nel campo (della poesia, della narrativa, della storia). Dopodiché lo scrivente si dispone in attesa: sogna una risposta, entusiasta; l’invito, dietro lauto compenso, a pubblicare; l’intervento durante sapidi programmi televisivi. Ardua è la via che conduce alla pubblicazione. Gli editori famosi (e anche quelli NON famosi) ricevono troppe proposte di pubblicazione al giorno. Anche volendo, non potrebbero leggerle tutte e per intero. Certamente oggi, con la stampa digitale che consente bassissime tirature, anche il nome famoso si stampa poco per volta, secondo necessità. Per cui anche un autore sconosciuto può comparire in un catalogo arcinoto. Di lì a diventare best-seller però, ce ne passa. Pubblicare vuol dire rendere pubblico, diverso dunque da “stampare”. Il libro stampato, se resta nel cassetto, non è pubblico. Per raggiungere l’obbiettivo lo SDD è disposto a regalare i suoi volumi, a spedirli nelle più lontane biblioteche o riviste letterarie, dalle quali aspetta solo una breve lettera di ringraziamento da mostrare come un trofeo. Date le premesse (passione, narcisismo, intima convinzione di essere indispensabile), lo SDD è spesso bersaglio di biechi individui sedicenti editori, che captano fiducia, manoscritti e palanche al malcapitato. Ma questo sarebbe ancora il meno: se uno SDD è ben convinto di sottoscrivere un accordo per la stampa di un testo, un contratto formalmente corretto, onesto e chiaro, non ci sarebbe nulla di male. È anche questo un lavoro, un accordo commerciale, uno scambio merce e servizio versus danaro. Che sia però chiara la portata e la forma del servizio (revisione bozze, impaginazione, forma grafica, dotazione codice isbn e altre incombenze burocratiche) e la merce (tipo di carta, di stampa, di rilegatura, numero copie, consegna). Il SDD si preoccuperà di far arrivare il libro dove si può fare arrivare, in modo da farsi riconoscere almeno dai vicini di casa, colleghi di lavoro, mamma e parentame. Trovare un editore propriamente detto, una casa editrice che pubblica per scelta, e liberamente (intendo dire liberando l’autore da gravami economici, solo per convinzione nella validità dell’opera) è una lieta ventura, rara quanto un quadrifoglio in un parcheggio. Perché fare parte di una casa editrice (specializzata o generalista) vuol dire entrare in un contesto, in un quadro complesso in cui la pubblicazione subisce una profonda, attenta critica. Non si è più mercenario isolato, disperso e senza nome, ma elemento di squadra, di un coacervo di altri SDD, capaci di sostegno, di critica, di accendere i più timidi e raffreddare i facinorosi. E poi una casa editrice, auspice l’editore, ha una sua personalità, una sua linea editoriale, per cui non solo un manoscritto deve convincere in quanto a contenuti, ma anche per via dell’argomento che tratta, così che il catalogo della casa editrice rappresenti una mappa, una cartina di un mondo inventato, teorico, sovradimensionale, in cui prendono posto i diversi SDD (e magari anche qualche scrittore propriamente detto) nelle loro più diverse inclinazioni.
Ho scritto queste righe perché sono stato a mia volta alcune delle figure qui designate. Ma finalmente ho trovato (fortuitamente) un editore propriamente detto, che sceglie, in base alle sue convinzioni e a quelle di un comitato, cosa pubblicare, come e quando. Su un mio libro c’è il mio nome, come è giusto, e ho la responsabilità dei contenuti. Ma il libro, nella sua sostanza, è emanazione di tutta la casa editrice, mediante un lavoro anche lungo di revisione, miglioramento e crescita per tutti. Questo è il motivo per cui è utilissimo (per non dire indispensabile) trovare una casa editrice seria, e accoccolarvisi comodamente, come un gatto presso la stufa, in un giorno di tormenta.
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