Scritto con la luce

Scritto con la luce

L’ho già scritto il passato: sono diventato un reperto. Dopo aver lavorato per vent’anni in Ferrania, recentemente sono diventato un testimone della mia esperienza lavorativa. Infine mi sono ritrovato a fornire la mia modesta consulenza e la mia partecipazione all’allestimento del museo che ci racconterà.

Scritto con la luce

 L’ho già scritto il passato: sono diventato un reperto. Dopo aver lavorato per vent’anni in Ferrania, recentemente sono diventato un testimone della mia esperienza lavorativa. Infine mi sono ritrovato a fornire la mia modesta consulenza e la mia partecipazione all’allestimento del museo che ci racconterà.

Sabato 3 giugno è stato infatti presentato al pubblico, solo per questo giorno, il Ferrania Film Museum, o “museo della pellicola” come viene ormai chiamato da molti valbormidesi. 

  

 Primo appunto: il nome delle cose lo da chi le usa e chi ci vive. Soprattutto se contadini, e usano i luoghi per coltivare cioè per vivere, i nomi discendono dall’uso che vien fatto, da una consuetudine, da una caratteristica particolare. Lo so che Film Museum suona meglio, che sembra una cosa estera o latina, ma non c’è niente da fare: pellicola è il termine consueto per nominare il prodotto e il lavoro che ha generato il museo.

La ricorrenza da festeggiare è il centenario di una industria nata cent’anni fa, da una costola del dinamitificio di Cengio.

Il museo, inserito in un piano di Palazzo Scarampi, nel centro storico di Cairo Montenotte, ospita immagini, reperti e documenti disposti in maniera suggestiva.

Avevo parlato già del museo su Trucioli….a questo link

 Ora, passato del tempo e a museo provvisoriamente aperto (in attesa dell’apertura definitiva di settembre), ho potuto “toccare con mano” l’allestimento, la grafica, l’esposizione.

Secondo appunto: il museo è bello. Belle e fascinose le sale, quasi scure, tagliate da lampi di luce, squarci che richiamano l’attenzione su reperti, immagini, fotografie. Mi pare adeguato questo fatto di raccontare il lavoro a luce attenuata mettendo il visitatore nella penombra. Inoltre l’atmosfera che si crea è intima, accogliente, calma. Ovviamente si è giocato con i temi del buio e della luce, così come della consistenza organica: pareti a più strati, supporti diversi, schermi da toccare.

Le sale si susseguono, collegate in un percorso non lineare, per cui è facile perdersi, ed è altrettanto facile ritrovarsi. Ci sono cose da vedere, cose da leggere, cose da ascoltare.

Terzo appunto: mi sono emozionato. E sono certo di non essere stato l’unico. Come me, quel giorno, c’erano molti ex dipendenti, felici, curiosi, emozionati. Alcuni si guardavano sul grande schermo, mentre raccontano nelle interviste il loro percorso nella fabbrica, il loro sguardo. Hanno scoperto (come me, solo ora) che hanno fatto parte di un racconto, di una costruzione complessa e grande, e finché s’era dentro quella struttura era difficile percepirla.

Occorre però chiedersi a cosa serve un museo, a cosa serve questo museo, perché sono stati spesi questi soldi per questa opera. La risposta non è semplice, non è unica.

Evidentemente un museo, una rassegna, una esposizione, hanno una valenza turistica. Possiamo pure immaginare il gitante, fra spiagge della Riviera e percorsi gastrovinicoli piemontesi, farsi catturare dalla tentazione di vedere il (i) musei dell’Alta Valle Bormida. Bene, benissimo. In questo senso è auspicabile un collegamento tra musei del territorio, collaborazioni, scambi, rassegne, eventi. Ed è altrettanto sperabile che tutto sia mantenuto ad un livello alto, come dire, degno di essere rappresentato fuori della Val Bormida.

C’è un altro aspetto, meno evidente, che mi interessa di più, e riguarda l’immagine della Ferrania che da questo museo vien fuori. Per capirlo bisogna pensare al metodo di lavoro del responsabile dei contenuti, Gabriele Mina, antropologo e instancabile indagatore di reperti (umani e materiali).

Avrebbe potuto essere un museo della tecnologia fotografica: macchine, lenti, caldaie, estrusori. Addirittura camere oscure, precipitazioni di sali in gelatina fatte “dal vivo”, così come processi di stesa su pellicola. Avrebbe potuto essere una celebrazione della macchina, dell’acciaio e del vetro, della chimica e del ventre buio e gelido della fabbrica. Oppure un museo d’impresa, del marchio, una vetrina feticistica per collezionisti. Avrebbe potuto, e non ci sarebbe stato nulla di male. Solamente, sarebbe stato poco. O niente. Una fabbrica è fatta di persone, le quali lavorano e comprendono giorno per giorno cose nuove. Ma terminato l’orario di lavoro, vivono. Dunque mangiano, bevono, dormono, fanno l’orto, giocano a bocce, a calcio, viaggiano, danzano, leggono e ascoltano. E ancora chissà quante cose, magari nelle case del villaggio operaio o al Dopolavoro. E tutto questo lo fanno nel contesto, nella cornice della fabbrica, mamma e babbo di ognuno, secondo un etica appresa dal fascismo, ed applicata anche dopo, a maggior vantaggio di tutti.

Dicevo di Gabriele Mina, perché io l’ho visto parlare con gli operai, i pensionati, le operaie, i dirigenti, gli impiegati. Ho avuto modo di vederlo paziente e silenzioso, rompere il velo della diffidenza valbormidese (o savonese in genere) e cordialmente conquistarsi la fiducia della gente che a Ferrania ci è cresciuta, ci è vissuta, ci ha speso una vita. E so anche che non una sola parola che gli è stata cautamente consegnata è andata perduta. Intanto perché serviva a lui comprendere quale fosse la forma dello stabilimento, al di là dello stabilimento stesso. Come era vissuto il lavoro? Cosa sognavano gli operai? E gli impiegati? Quanto contava sentirsi filmisti, abitare in Filmania? Prima di arrivare ai documenti, ai reperti fisici e materiali, occorre imparare la lingua di fabbrica, il linguaggio, identico formalmente all’italiano, ma che indica cose diverse, o che si porta dietro un senso diverso rispetto alla realtà normalmente conosciuta.

Un lavoro così non poteva farlo un freddo archivista: catalogare e inventariare (lavori indispensabili, sia chiaro) usura il cuore e la mente di chi lo fa, e di chi è sottoposto a catalogazione (se è una persona viva).

 Serviva un medico, un medico del territorio, uno che avesse saputo ricostruire quel pezzetto di storia disgregato da un manrovescio, al di là dei giudizi politici, economici, di qualsiasi appartenenza. Al medico non importa l’appartenenza, non gli compete la troppa compassione, la troppa emotività. Ed è per questo che serve essere intransigenti sul metodo, verificare le fonti, ricostruire una cronologia, allontanarsi da stereotipi e da errori, ricontestualizzare, offrire nuove chiavi interpretative.

La chiusura di Ferrania, la fine di un secolo di una produzione di pregio, è stata quel manrovescio sul territorio, sulla provincia di Savona. Forse non percepita da tutti, ma significativa, utile a dare una identità verosimile e proiettabile nel futuro.

Cosa siamo, oggi? Non più polo chimico, non di coloranti, di concimi, di fotografie. Il museo ci racconta di persone vive, attrici per quanto possibile del loro destino, portatrici di sogni e bisogni, non solo economia e non solo immaginazione.

Il museo è un segno che dice: “Noi siamo arrivati fin qui”, come quando nei paesi si metteva una pietra con un segno a indicare dove era arrivata la piena della Bormida. Memento: vuol dire che per caso o per volontà potreste pure tornarci. Siate pronti a far di meglio.

Ecco i credits del museo:

Regione Liguria. Comune di Cairo Montenotte. Fondazione 3M – Presidente onorario Antonio Pinna Berchet. Con il contributo di: Fondazione De Mari, Ferrania Technologies.

Allestimento e direzione artistica: Marco Ciarlo Associati. Direzione lavori: Studio Dedalo. Progetto grafico: Sebastiano G. Rossi Creative Work. Coordinamento tecnico: Danilo Manassero. Restauro reperti: Istituto Secondario Superiore di Cairo Montenotte. Multimedialità: Lampo Tv – DLQ Creative Factory.

Curatela: Gabriele Mina. Collaboratori: Alessandro Bechis, Andrea Biscosi, Alberto Manzini, Alessandro Marenco. Interviste video: Laboratorio audiovisivi Buster Keaton, Università di Genova. Traduzioni: Maurizio Boni – The Language Company.  

  ALESSANDRO MARENCO

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