Scattare tante fotografie fa perdere la memoria

Scattare tante fotografie 

fa perdere la memoria

Studio Usa dimostra che il cervello di chi immortala tutti gli eventi non conserva traccia degli stessi.  E i selfie danneggiano l’identità

 Scattare tante fotografie fa perdere la memoria

Studio Usa dimostra che il cervello di chi immortala tutti gli eventi non conserva traccia degli stessi.

E i selfie danneggiano l’identità

 

Il peggior nemico del cervello è la fotocamera del cellulare: fai una foto e dimenticherai per sempre tutto quello che c’è attorno.

Secondo i più recenti studi sulla memoria, infatti, “la nostra ossessione di scattare unque ci troviamo, in un museo, o al ristorante, ai concerti, in vacanza, fino a inquadrare quotidianamente la nostra faccia per i selfie, è la principale causa di perdita di memoria. Non solo: genera conflitti per la nostra identità.

 Nel primo caso, secondo una ricerca di tre professori di psicologia a Stanford e Princeton e pubblicata sul Journal of Experimental Social Psychology, passare il proprio tempo a fotografare un evento piuttosto che immergersi in esso, lascia nella mente un ricordo molto più sfumato: dopo aver messo in atto tre esperimenti, gli studiosi hanno ricavato, attraverso test di memoria e racconti dei partecipanti – tutti mandati ad assistere a un concerto – che le persone a cui veniva tolto il cellulare hanno ricordato la loro esperienza in modo nettamente più preciso rispetto a quelli che hanno usato telefoni e social per registrare o condividere. La conclusione?  «L’uso dei media può impedire alle persone di ricordare gli eventi che stanno tentando di preservare».

 

O meglio: non c’è nessuna ragione scientifica per credere che uno smartphone riduca la capacità del nostro cervello di imparare, ma quando si intromette, distrae. Già nel 2017, uno studio inglese dimostrava come la semplice presenza del proprio smartphone riducesse la capacità cognitiva: anche quando riusciamo a concentrarci su un libro, o su un film, dobbiamo però impegnare parte del cervello per evitare di cedere alla tentazione di controllare il telefono, lasciando meno risorse disponibili per svolgere appieno ciò che stiamo facendo.

 


 

L’ARCHIVIO ESTERNO

“Ma torniamo allo studio americano: quando fotografiamo usiamo il nostro smartphone come se fosse un archivio di memoria. Certo, potremmo pensare che sia solo un cambiamento di mezzo: l’uomo, anche quello delle caverne quando dipingeva graffiti, ha sempre usato dispositivi esterni come aiuto per fissare la conoscenza. La scrittura, per esempio, assolve a questa funzione, dal diario segreto fino ai registri storici, che sono come “memorie esterne” collettive. Sempre di più, però, tendiamo a dedicare pochissimo tempo a prenderci cura della nostra memoria e mandiamo tutto nel cloud (letteralmente “nuvola”, si tratta di quello spazio di archiviazione accessibile in qualsiasi momento e in ogni luogo a patto di avere una connessione Internet). Siamo stati a un matrimonio? Ci ricordiamo che cosa abbiamo mangiato? No, ma di sicuro abbiamo sul telefono immagini delle portate.

Siamo andati a una mostra? Facilmente abbiamo fotografato un quadro, ma non ne ricordiamo l’autore. 

L’utilizzo sfrenato dello smartphone, insomma, diminuisce la nostra attenzione al contesto e, di conseguenza, sua alla memorizzazione.

La memoria, “d’altronde, lavora come un muscolo: per funzionare, dev’essere esercitata regolarmente.

Inoltre, se un’immagine può farci ricordare un frammento di un episodio, questo è a scapito di tutti gli altri. La ricerca americana, infatti, rileva che le immagini possono aiutare le persone a ricordare qualcosa, ma non lasciano traccia di ciò che è stato detto durante quell’episodio; eliminando così uno degli aspetti fondamentali di un’esperienza. Già nel 2017, uno studio della New York University, aveva constatato come l’acquisizione di foto, cioè l’attenzione visiva, eliminasse completamente l’attenzione per gli aspetti uditivi.

 

DANNI ULTERIORI

I rischi, però, non si limitano all’amnesia dei dialoghi, ma si ripercuotono sulla nostra identità: quest’ultima, infatti, è il risultato di ciò che ci è stato insegnato, delle nostre esperienze, accessibili attraverso i ricordi. La memoria, cioè, ci rende ciò che siamo.

La costante documenta- zione fotografica delle esperienze di vita, quindi, altera anche il modo in cui vediamo noi stessi? Sì, dicono ancora da Stanford, troppe immagini ci fanno ricordare un passato statico e impediscono “l’incursione” di altri ricordi: rendono la nostra mente me- no malleabile e meno adattabile ai cambiamenti generati dalla vita, congelando così la nostra identità. Proprio quello che un “normale” funzionamento della memoria eviterebbe: essa cambia con noi, seleziona e crea un racconto non contradditorio di noi stessi, che siamo tutto tranne che immutabili. Se non siamo in grado di cambiare il modo in cui ci vediamo nel tempo, ciò potrebbe compromettere seriamente la nostra salute mentale.

 Non è finita qui: l’assenza di spontaneità dei selfie – pianificati, in pose ridicole, che riportano un’immagine innaturale e distorta del sé – genera immagini che non riflettono realmente chi siamo: sono scatti generati da tendenze narcisistiche, manipolati, che riflettono ciò che vogliamo mostrare agli altri di noi stessi. Promuoviamo noi stessi. Oltre all’immagine distorta, avremo quindi un ricordo altrettanto distorta.

 

COSTANZA CAVALLI   Libero

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