SANTI SUBITO

SANTI SUBITO
    In che cosa consiste la santità?
E che cosa distingue un santo da un povero diavolo?

SANTI SUBITO

    In che cosa consiste la santità? E che cosa distingue un santo da un povero diavolo?  La santità, propriamente parlando, appartiene soltanto a Dio e a tutto quello che gli si riferisce o che da Lui discende, come il suo Spirito,  il suo Figlio unigenito e la sua Chiesa, che, come recita il Credo, o Simbolo, Niceno-Costantinopolitano, è, oltre che una, cattolica, apostolica, appunto – e soprattutto – santa.


 

L’aggettivo “santo” (dal latino sanctum, part. passato  di sancire, cioè “rendere sacro”), di per sé, significa “intangibile, inviolabile, che deve essere rispettato e venerato in quanto sancito da una norma morale, civile o religiosa” (Zingarelli); di qui, per estensione, tutto ciò che si riferisce al divino e alla religione.  Secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica, la Chiesa è santa “in quanto Dio Santissimo è il suo autore”, non però direttamente ma per opera di suo Figlio Gesù Cristo, il quale “ha dato se stesso per lei, per santificarla e renderla santificante; lo Spirito Santo la vivifica con la carità”.

Grazie quindi al sacrificio della croce e alla presenza vivificante, rinnovatrice  e purificatrice dello Spirito, nella Chiesa troviamo “la pienezza  dei mezzi di salvezza” e il potere di santificare, vale a dire di riconoscere e dichiarare  santo o santa chi ancora non veniva o non viene riconosciuto come tale.. Il catechismo ci dice  anche  che la santità è “la vocazione di ogni suo  membro e il fine di ogni sua attività”; questo significa che tutti i cristiani che appartengono alla Chiesa cattolica (ma anche a quella ortodossa) sono chiamati alla santità, e che tutto quello che la Chiesa cattolica fa in questo mondo ha come unico  fine la salvezza e la santità  di tutti. Inoltre la Chiesa “annovera al suo interno la Vergine Maria”, e su questo, come sulla santità di Maria madre di Dio, non avevamo dubbi; ma il  catechismo ci dice anche che annovera  “innumerevoli Santi, quali modelli e intercessori”. Quindi alla domanda: quanti sono i Santi, il catechismo risponde “innumerevoli”, cioè così tanti che non si possono nemmeno contare, né tantomeno canonizzare (salvo  una improbabile canonizzazione erga omnes).


 

A questo punto si pone il problema del criterio con cui la Chiesa sceglie, tra gli innumerevoli Santi, quelli  degni di essere  innalzati all’onore degli altari.

Dato per scontato il fatto che la maggior parte dei santi è tale soltanto agli occhi di Dio ma sconosciuta a quelli delle gerarchie ecclesistiche e, di conseguenza, alle masse dei fedeli che accorrono acclamanti all’annuncio delle beatificazioni e canonizzazioni di nuovi (ma che tali erano anche da vivi, altrimenti come potrebbero esserlo anche, o solo, da morti?) santi.  Un criterio evidente è il martirio; non tutti i santi, però, sono  martiri, cioè morti di morte violenta per non abiurare e per rendere testimonianza della loro fede anche al prezzo della vita; un altro criterio è quello dell’Imitatio Christi, cioè nel considerare se e in quale misura una vita è stata vissuta sull’esempio di quella di Gesù Cristo. Un altro criterio, importante ma non decisivo, è la fama di santità e la venerazione tributata anche in vita a religiosi che si sono distinti per devozione, pietà, umiltà, amore per il prossimo, dedizione incondizionata ai poveri e ai sofferenti, e ai quali siano attribuiti miracoli o prodigi o siano stati portatori di segni e fenomeni inspiegabili (vedi le stimmate di Padre Pio e di  altre persone, siano esse consacrate o meno).

Il processo per la beatificazione, che prelude a quello della canonizzazione, non può tuttavia avere inizio, secondo le disposizioni postconciliari,  prima di cinque anni dalla morte della persona in odore di santità, salvo i casi in cui il Pontefice stesso non intenda derogare (come ha fatto papa Ratzinger per la beatificazione di papa Wojtyla).


Il processo deve comunque essere rigoroso e senza indulgenze (non per niente è prevista anche  la presenza  del cosiddetto “avvocato del diavolo”).  Giustamente, infatti, prima di beatificare e canonizzare una persona, sia pure ritenuta dalla vox populi già santa in vita, la Chiesa intende muoversi con prudenza e cautela, onde evitare il rischio di proclamare beato o santo un qualche astuto santone o falso profeta, o uno dei tanti guru oggi (come nel Medioevo) in circolazione, sedicenti guaritori e millantatori abilissimi nell’ingannare il popolino  (è pur necessario un ventilabro che separi il grano dalla pula spargendola al vento).

Nel secolo scorso, ad ogni modo, dopo il Concilio Vaticano II, la Chiesa ha posto l’accento, seguendo le indicazioni della Costituzione conciliare “Lumen Gentium”, sulla vocazione universale alla santità; difatti, a conclusione del paragrafo 40 della suddetta Costituzione, in cui si precisa che i seguaci di Cristo sono stati chiamati da Dio non per merito delle loro opere ma solo per grazia, e solo nel battesimo della fede sono stati resi figli di Dio, e come tali compartecipi della sua natura e quindi anche santi, leggiamo: “E’ dunque evidente per tutti, che tutti coloro  che credono nel Cristo di qualsisi stato o rango, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità e che tale santità promuove nella stessa società terrena un tenore di vita più umano. Per raggiungere questa perfezione i fedeli usino le forze ricevute secondo  la misura con cui Cristo volle donarle, affiché, seguendo l’esempio di lui  e diventati conformi alla sua immagine, in tutto obbedienti alla volontà del Padre, con piena generosità  si consacrino alla gloria di Dio e al servizio del prossimo.

Così la santità del popolo di Dio crescerà in frutti abbondanti, come è splendidamente  dimostrato nella storia della Chiesa dalla vita di tanti santi”.


 

Ora, ai tanti, se ne sono aggiunti due, entrambi papi: Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, canonizzati insieme nella basilica di San Pietro, con un’unica celebrazione, il 27 di aprile, la domenica successiva alla Pasqua; celebrazione officiata da altri due papi, uno in carica e l’altro emerito. Questo evento indubbiamente straordinario che, di per sé, riguarderebbe solo la Chiesa cattolica, la cui santità, come recita il catechismo, “è la sorgente della santificazione dei suoi figli, i quali, qui sulla terra, si riconoscono tutti peccatori, sempre bisognosi di conversione e di purificazione”, è avvenuto, grazie alla globalizzazione dei mezzi di comunicazione di massa, sotto gli occhi stupiti e commossi del mondo intero. Naturale che ci si interroghi sul significato non solo religioso di questo evento, a cominciare dalla sua necessità: era proprio necessario canonizzare insieme due papi, e in più così diversi uno dall’altro?

Che senso ha avuto una celebrazione, anzi, concelebrazione in cui due papi vivi hanno proclamato urbi et orbi  la santità di due papi morti, uno nell’ormai lontano 1963, l’altro appena nel 2005? Se era necessario, perché lo era? E, se non lo era, per quale motivo è stato voluto da papa Francesco? La cosa che ha lasciato perplessi molti osservatori, anche cattolici, è stata proprio questo strano abbinamento (oltre alla spettacolarizzazione mondiale di un evento così spirituale e, direi, crismale); il Papa lo ha così motivato: “San Giovanni XXIII e San Giovanni Paolo II hanno collaborato  con lo Spirto Santo per ripristinare e aggiornare la Chiesa secondo la sua fisionomia originaria, la fisionomia che le hanno dato i santi nel corso dei secoli”.

Non tutti i cattolici, per limitarci a chi professa la stessa fede, ritengono questa motivazione ineccepibile: i conciliaristi, ad esempio,  hanno avanzato dubbi sulla santità di un papa che ha preferito nascondere invece di affrontare con coraggio i vari scandali sessuali e finanziari che stavano pericolosamente minando la credibilità e l’autorità stessa delle gerarchie ecclesiastiche; di un papa  che, pur con i suoi “mea culpa”,  ha governato più come un monarca che come un primus inter pares, mortificando le indicazioni conciliari  sulla collegialità, sul decentramento e sull’’apostolato dei laici; di un papa che, in Cile,  si è affacciato sorridente al balcone insieme a un dittatore sanguinario come il generale Pinochet e che ha duramente redarguito, in pubblico, nel 1983, all’aeroporto di Managua, il poeta e teologo Ernesto Cardenal, il sacerdote sospeso a divinis per il suo impegno a fianco dei sandinisti in Nicaragua,  autore dello slogan “entre cristianismo y revolucion no hay contradicion”. Per contro  cattolici anticonciliaristi e tradizionalisti, come lo storico Roberto de Mattei, non sono per niente persuasi della santità di Giovanni XXII, un Papa che, secondo loro, ha gravemente contribuito alla crisi della Chiesa con l’indizione del Concilio Vaticano II, e con la deriva relativistica e modernista che ne ne è seguita.


E poi, siamo sicuri che tutti i santi abbiano “collaborato con lo Spirito Santo per ripristinare e aggiornare la Chiesa secondo la sua fisionomia originaria”? Anche San Roberto Bellarmino, il cardinale che cercò invano di convertire, o, per lo meno, di persuadere Giordano Bruno a fingere di rinnegare le sue più profonde convinzioni filosofiche per salvarlo dal rogo (impresa che invece gli riuscì con Galileo Galilei)? Anche San Gregorio Barbarigo, il cardinale che nel 1678 si oppose fermamente al conferimento della laurea in teologia alla studiosa di fama europea Lucrezia Cornaro da parte dell’università di Padova, con la motivazione che sarebbe stato “uno sproposito dottorar una donna” sproposito che avrebbe avuto l’effetto di “renderci ridicoli a tutto il mondo”? Anche San Pio X, il papa che, tra l’atro, scrisse l’enciclida Il fermo proposito (1905), con l’intento di favorire e promuovere  “quelle istituzioni che si propongono di ben disciplinare le moltitudini contro l’invadenza predominante del socialismo”? Ma lasciamo stare questi dettagli.

Che cosa significa piuttosto motivare in quel modo la cononizzazione congiunta dei quei due papi? Forse che Pio XII, Paolo VI, Giovanni Paolo I non hanno collaborato anch’essi, ciascuno a suo modo, con lo Spirito Santo per ripristinare e aggiornare la Chiesa secondo la sua fisionomia originaria? Parrebbe di no, altrimenti perché non sono stati canonizzati anch’essi insieme agli altri due? In che cosa ha demeritato, per esempio, papa Montini? E il povero papa Albino Luciani che cosa ha fatto di male per non meritare la santificazione canonica?


 

Difficile quindi fugare del tutto il sospetto che questa spettacolare canonizzazione congiunta del papa del Concilio Vaticano II e del papa venuto dall’est che tanto si è adoperato  per la caduta del Muro di Berlino e per il crollo dell’Unione Sovietica (peccato che non sia riuscito, malgrado le buone intenzioni, a sconfiggere anche la mafia!), ma anche contro la teologia della liberazione (come d’altronde il suo successore Benedetto XVI) abbia soprattutto il significato politico-mediatico-mondano, con un vago sentore paganeggiante e idolatrico, di celebrare la rinascita della Chiesa dopo il periodo buio degli scandali sessuali e finanziari e dopo la stagione dei corvi svolazzanti nelle segrete stanze vaticane.

Sia quel che sia, papa Francesco ha un modo sicuro per smentire in un colpo solo gli scettici, i perplessi, i malpensanti e i miscredenti: avviare subito il processo di canonizzazione anche per il vescovo Oscar Romero, per don Pino Puglisi e per don Giuseppe Diana, che hanno testimoniato con la loro vita e con la loro morte la loro fedeltà al vangelo di Cristo. Per la santificazione di tutti quei  credenti e non credenti, consacrati e non consacreti, dentro e fuori dai confini delle Chiese,  che hanno speso la loro vita a fianco degli ultimi, dei poveri e degli oppressi, magari lontano dai riflettori e dai mass media, convinti di compiere né più né meno  che il loro dovere di esseri umani senza aspettarsi niente in cambio, neanche il Paradiso, lasciamo fare al buon Dio.

Fulvio Sguerso

 

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