RISPOSTA A UNA BESTEMMIA ESTETICA …

RISPOSTA A UNA BESTEMMIA ESTETICA
DI SGARBI SU BERLINO

RISPOSTA A UNA BESTEMMIA ESTETICA
DI SGARBI SU BERLINO
Qual è il criterio, quale il il metro o la pietra di paragone per giudicare della bellezza o della bruttezza di una città? Nel Rinascimento si disegnavano e si progettavano città ideali (da L. B. Alberti, Francesco di Giorgio Martini, il Filarete, il Vasari…) secondo schemi prevalentemente geometrici, in cui era essenziale la simmetria e l’armonia dei pieni e dei vuoti, degli esterni e degli interni, la misura delle basi e delle altezze, dei piani e dei volumi,  e dove la funzionalità degli edifici e degli spazi urbani coincideva con la forma, cioè con la bellezza, così dei particolari come dell’insieme, e  le proporzioni degli edifici erano calcolate  sulla base della sezione aurea e in rapporto al corpo umano.
In altri termini: tutto doveva corrispondere a un’idea  di città perfetta, in cui niente fosse lasciato al caso o all’arbitrio di un singolo cittadino (almeno sulla carta). Un riflesso di questa concezione “umanistica” e “principesca” lo si può trovare ancora  nei centri storici di città come Urbino, Ferrara, Mantova, Pienza, Sabbioneta, Palmanova, Vigevano, o in una piazza come quella del Campidoglio, disegnata da Michelangelo. Ma oggi che cosa sono diventate le città?  In un  mondo ormai (quasi) del tutto globalizzato – se non altro da Internet e dal flusso ininterrotto di informazioni che viaggia  nell’etere – in cui i centri urbani sono in continua trasformazione sotto la spinta della mobilità pubblica e privata, in cui si moltiplicano i “non luoghi” come le stazioni sotterranee delle metropolitane, i supermercati, gli snodi autostradali, i parcheggi interrati o in periferie a perdita d’occhio, si parla di “città diffusa” (cfr.  Francesco Indovina, La città diffusa, DAEST, Venezia, 2002), di “città-regione”, di “megalopoli”, di città “postmoderne”,  e  l’archistar giapponese Arata Isozaki progetta addirittura una  “invisible city” (forse ispirato dalle Città invisibili di Italo Calvino) e  Toyo Ito, altra archistar giapponese, che  per integrare gli edifici con l’ambiente li riveste di superfici riflettenti e luminose e che  progetta una “città simulata”, in cui lo spazio fisico si connetta a quello virtuale per mezzo della rete elettronica. In questo quadro in perpetuo movimento è inevitabile che mutino anche i tradizionali criteri estetici e che si modifichino (d’altronde come è sempre avvenuto nella storia dell’arte e del costume) i concetti stessi di bello e di brutto, senza nulla togliere, sia chiaro, alla particolare sensibilità e ai gusti di ciascuno riguardo, nella fattispecie,  agli ambienti e ai paesaggi urbani. E tuttavia ci sono, o dovrebbero  pur sempre esserci, dei limiti oggettivi alle oscillazioni soggettive del  gusto e del disgusto estetico: come si fa a definire una grande e complessa  città-laboratorio culturale e artistico, ricca di teatri e sale da concerto; una prestigiosa città univesitaria, con le sue accademie, le sue biblioteche, i musei, le gallerie d’arte, le chiese, i monumenti restaurati e quelli nuovi, come quello alle vittime dell’olocausto, dell’architetto statunitense ebreo Peter Eisemann, formato da 2711 blocchi rettangolari di calcestruzzo, di varie dimensioni, sistemati a griglia, in modo da simulare un cimitero;  una città-stato  uscita distrutta e sfigurata dalla seconda  guerra mondiale, ma che oggi è un esempio mirabile di città in gran parte riedificata secondo criteri urbanistici esemplari quanto alle relazioni tra spazi pubblici e privati e allo spazio tra gli edifici,  tra i luoghi  di lavoro e di svago, tra costruzioni avveniristiche e memorie storiche come Berlino “un cesso di città”?
Berlino Quartiere Mitte
Eppure proprio così l’ha definita il noto critico e storico dell’arte, nonché rissoso polemista televisivo, Vittorio Sgarbi, nella puntata del 28 marzo di “Servizio Pubblico” su La 7; una vera e propria bestemmia, tanto più inescusabile in quanto pronunciata da chi è ritenuto (o si ritiene)  un esperto di cose artistiche. A smentire Sgarbi basterebbe una visita all’Isola dei Musei, nel quartiere Mitte, o il nudo elenco di nomi dei grandi architetti che sono intervenuti nell’opera di riassetto e ricostruzione dell’area in cui sorgeva la vecchia Potsdamer Platz, rasa al suolo dai bombardamenti e rimasta una desolata “terra di nessuno” (immortalata da Wim Wenders nel film Il cielo sopra Berlino, del 1987) fino alla caduta del Muro:
da Renzo Piano e Richard Rogers al su ricordato  Arata Isozaki, da Steffen Lehmann a José Rafael Moneo, da Hans Kollhoff a Helmut Jahn, l’autore del mirabolante Sony Center (un complesso di edifici prevalentemente in vetro e acciaio, intorno a un Forum che conserva al suo interno alcune parti del vecchio Hotel Esplanade, tra cui la Kaisersaal, il tutto  coperto da una grandiosa  cupola a ombrello, fissata con giganteschi tiranti a un enorme anello d’acciaio poggiante sugli edifici circostanti), considarato un capolavoro dell’arte e della tecnica delle costruzioni. Ma questi non sono argomenti che possano impressionare il nostro irascibile polemista, per niente sensibile al fascino delle archistar: in una puntata de “L’ultima parola”  di Gianluigi Paragone, si era scagliato contro Massimiliano Fuksas, definendolo “distruttore fascista”, contro Gae Aulenti (che archistar non voleva proprio essere) e contro Zaha Hadid (vincitrice nel 2004 del premio Pritzker, il più importante premio internazionale per l’architettura) definendola garbatamente “troia irachena”! No,  Sgarbi l’architettura contemporanea proprio non la regge, tanto che, sempre in quella puntata di “Servizio Pubblico”,  dopo la bestemmia su Berlino, ha inveito contro Massimo Cacciari, presente in collegamento (che ha abbandonato nauseato la trasmissione),  colpevole di essere stato sindaco di Venezia all’epoca della costruzione  del famoso e famigerato Ponte della Costituzione, che collega piazzale Roma alla zona della stazione di Santa Lucia, il cui progetto era stato regalato alla città lagunare   da Santiago Calatrava, altra archistar internazionale invisa al critico ferrarese. Ora tutto si potrà dire di quell’elegante ponte a campata unica e senza nessun supporto visibile, struttura in acciaio, parapetti in vetro con corrimano d’ottone, pavimentazione in vetro della Saint Gobain, pietra d’Istria e Trachite Grigia classica di Montemerlo, meno che stoni in quel  paesaggio e che non sia un’opera d’arte in sé.

E’ stato un vero peccato, a mio parere, che Cacciari,  per anni titolare della cattedra di estetica presso la facoltà di architettura di Venezia, abbia ceduto a un comprensibile moto di disgusto  e se ne sia andato via con gran dispitto lasciando campo libero  a quel tronfio personaggio affetto da un clamoroso disturbo istrionico di personalità e che non si perita di citare l’”Io so” di Pasolini, ma in tutt’altro senso e approfittando  del fatto che Pasolini non gli può rispondere se non dalle pagine dei suoi libri, là dove parla dei teppisti culturali. Pagine che Sgarbi si guarda bene dal citare…

 

FULVIO SGUERSO

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