Renzo De Felice e le interpretazioni del fascismo

 
Renzo De Felice
e le interpretazioni del fascismo

Renzo De Felice
e le interpretazioni del fascismo

 L’intento dichiarato e programmatico degli studi e delle ricerche storiografiche del professor Renzo De Felice su Benito Mussolini e il fascismo, a cominciare dalla sua monumentale biografia del Duce – che tante critiche e reazioni ha suscitato non solo in ambito accademico e specialistico – è quello di descrivere e narrare gli eventi sulla base della documentazione disponibile, senza usare occhiali (o cannocchiali) ideologici, senza le lenti deformanti della passione o del risentimento, o, peggio, della convenienza della propria parte politica.


Come ha precisato egli stesso, non senza una punta di legittimo orgoglio,  all’inizio del capitolo su “La  vergogna della razza” in Rosso e Nero (Baldini & Castoldi, Milano, 1995): “Sono stato il primo studioso ad affrontare l’antisemitismo fascista; nessuno, sino a quel momento, aveva osato trattare le vicende dell’ebraismo italiano durante il Ventennio fascista facendo parlare gli archivi e mettendo a tacere emozioni, pregiudizi, convinzioni ideologiche e politiche, indignazione morale e considerazioni etiche per stabilire la verità dei fatti e far luce sulle loro motivazioni”.

De Felice fa riferimento alla sua Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo (Einaudi,1961) che, appena pubblicata “fu subito maltrattata da destra a sinistra, da cattolici e laici con gli argomenti più disparati e contraddittori”. Ma di quali accuse si lamenta lo storico reatino? “Nicola Tranfaglia e Luciano Canfora mi hanno accusato di voler negare il carattere antisemita del fascismo, di enfatizzare la distinzione ‘impropria’ fra razzismo e antisemitismo, di minimizzare il significato delle manifestazioni antiebraiche di Mussolini sin dalla gioventù.


Come prova storica, Canfora ha citato un articolo antiebraico del 1908, quando il futuro duce del fascismo aveva venticinque anni ed era socialista. Tutto vero”. Se questi fatti sono veri, perché De Felice respinge quelle accuse? Perché “quell’articolo nasceva, basta leggerlo per rendersene conto, sotto l’influenza di Nietzsche e di Bakunin, era tipico della cultura elementare della sinistra europea a cavallo del secolo.

 Ma anche della cultura dei socialisti francesi, ai quali Mussolini si sentiva più vicino, così venata di antisemitismo che in un primo momento fu anti-dreyfusarda”. Queste manifestazioni antiebraiche del futuro duce, dunque, non ci autorizzano a parlare di un suo antisemitismo analogo a quello dei
nazisti: “Ve lo immaginate Hitler che ha una relazione con un’ebrea? Due furono invece le amanti ebree di Mussolini…Quanto poi all’accusa di non
aver capito che il fascismo fu antisemita sin dal principio, mi pare che i fatti parlino chiaro.
Giovanni Preziosi

Da un lato ci sono i tanti ebrei che furono fascisti e i molti che furono vicini a Mussolini, da un altro lato ci sono i pochi, e per anni scarsamente influenti, esponenti antisemiti del regime. In primis il famoso Giovanni Preziosi, convinto antisemita direttore della “Vita italiana” durante il Ventennio (non a caso un ex prete), che cercò poi di essere l’ideologo delle leggi razziste della Repubblica sociale”. E tanto basti a confutare le accuse di Nicola Tranfaglia, Luciano Canfora, Sergio Luzzatto et alii che, secondo il De Felice, non vanno tanto per il sottile  nell’accomunare razzismo e antisemitismo, leggi razziali fasciste e soluzione finale nazista, Risiera di San Sabba e Auschwitz-Birkenau; mentre il compito, anzi, il dovere dello storico è quello di vagliare documenti e testimonianze sine ira ac studio, poiché  “Quando uno studioso si trova di fronte realtà così complesse e drammatiche come il razzismo e l’antisemitismo – il discorso vale anche per altre realtà a cominciare dal fascismo e dall’antifascismo – deve avere il coraggio di sfuggire le scelte di campo e le prese di posizione emotive: i rifiuti moralistici sono privi di senso e di efficacia. Rabbia e risentimento, indignazione e condanna sono sentimenti che, al pari della partecipazione militante, deformano la corretta interpretazione storica, inibiscono la ricostruzione dei fatti, impediscono di mettere a fuoco le motivazioni di accadimenti nella fattispecie così mostruosi da sembrare inconcepibili”.

Questo discorso presuppone che nella historia rerum tutto abbia un senso (o più sensi) e una motivazione (o più motivazioni), e che il lavoro dello storico onesto consista proprio nel mettere in chiaro i veri  sensi e le vere motivazioni anche – anzi, soprattutto – di quei  comportamenti umani e di quegli avvenimenti che sembrano a prima vista incomprensibili, assurdi, immotivati, aberranti, irrazionali, o addirittura demoniaci… Ma tant’è, lamenta De Felice “Che rendere intellegibile un fenomeno storico, affrontandolo nella sua complessità, non voglia dire giustificarlo o assolverlo, è un concetto che stenta ancora per certi temi, in particolare per chi ne tratta con intenti ‘pedagogici, a essere accettato.


 Il razzismo e l’antisemitismo – che, non cesserò mai di dirlo, sono fenomeni storicamente diversi – vanno studiati, come tutti gli altri, indagandone le origini e seguendone le trasformazioni, confrontando le testimonianze con i dati di fatto disponibili, pensando le intenzioni in relazione alle situazioni. Formule come ‘male assoluto’ o ‘follia storica’, oggi tanto di moda, non spiegano nulla e non hanno neppure una funzione pedagogica. Credere che una società più giusta possa por fine alle aberrazioni umane è ingenua utopia”. Qui si potrebbe obiettare al De Felice che anche la sua polemica culturale contro le rappresentazioni oleografiche o ad usum Delphini dell’antifascismo e della Resistenza ha una sua valenza pedagogica, in quanto obbliga gli studiosi e chi ha la funzione di educare e di far conoscere ai giovani le tragiche vicende  della seconda guerra mondiale e degli infiniti lutti causati dagli errori strategici di Mussolini (ma anche, sia chiaro, del Re e di Badoglio) a non accontentarsi della vulgata storiografica, o meglio, mitografica che ha caratterizzato la narrazione  del Ventennio e della Resistenza da parte soprattutto degli intellettuali “organici” al Partito comunista.

 Il De Felice si è assunto l’ingrato compito di demolire alcuni miti storiografici fondativi di quella che viene ormai impropriamente denominata Prima Repubblica. Tra questi vi è il mito dell’unità delle forze che combatterono contro il nazifascismo, e la stessa nozione di nazifascismo viene messa in discussione dallo storico, in quanto questa categoria “fu inventata dalla propaganda politica per battere il comune nemico. Fu un’invenzione degli Alleati negli anni della guerra, adottata fra le parole d’ordine della Resistenza, da lì passata nel linguaggio comune e giunta fino a noi”. Se a questo si aggiunge che nel quarto volume della sua biografia di Mussolini, edito nel 1974, De Felice parla per la prima volta del “consenso” delle masse al regime, si possono ben capire le reazioni dell’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia.

Guido Quazza

La rivista dell’Istituto, “Italia contemporanea”, diretta da Guido Quazza, pubblicò un editoriale non firmato con il titolo Una storiografia afascista per la “maggioranza silenziosa” in cui viene denunciata e rifiutata “qualsiasi operazione politico-culturale di mimetismo che sconfina, consapevolmente o inconsapevolmente, in posizioni qualunquistiche, poiché simili posizioni finiscono con il diventare oggettivamente filofasciste e in ogni caso esercitano una funzione tipicamente diseducatrice”.

E qui sarebbe il caso di precisare se la “funzione tipicamente diseducativa” è più esercitata da chi parla di “attacco alla storiografia antifascista” (Giorgio Rochat) e, in seguito all’ Intervista sul fascismo, pubblicata da Laterza nel 1975, di “pugnalata dello storico” (Nicola Tranfaglia), oppure da chi, come Rosario Romeo, ritiene naturale che la storiografia sul fascismo superi “l’unilaterità e l’esclusivismo dei protagonisti, tesi anzitutto ad assicurare il trionfo della propria causa e del proprio ideale, o come Giorgio Amendola che, pur dichiarando di non condividere le posizioni del De Felice, criticò le “reazioni indignate e moralmente esasperate” aggiungendo che “In realtà, sotto il disgusto morale ad affrontare la storia del fascismo si avverte spesso l’imbarazzo a fare la storia dell’antifascismo, che è la storia di un movimento che ebbe, accanto a momenti di alta tensione morale e politica, brusche cadute.

Si preferisce ignorare tali limiti e debolezze per mantenere una versione di comodo, retorica e celebrativa, che non corrisponde alla realtà”. Come si può constatare anche da questi brevi accenni alle controversie e alle reazioni (non solo accademiche, De Felice fu  contestato dagli studenti estremisti e subì persino un attentato, per fortuna senza conseguenze) provocate dalle tesi defeliciane, i temi del fascismo e dell’antifascismo e, in seguito, del comunismo e dell’anticomunismo, della guerra civile e della guerra patriottica, del 25 luglio e dell’8 settembre, continuano ancora oggi a dividere la memoria degli italiani (naturalmente di quelli che non l’hanno persa).


Evidentemente le ferite aperte dalla seconda guerra mondiale non si sono ancora rimarginate, di conseguenza anche le interpretazioni storiche ne risentono – per la verità sempre meno, e proprio per merito (altri direbbero per colpa)  del “revisionismo”  defeliciano, che nulla ha a che vedere, sia chiaro, con le interessate “revisioni” neofasciste – (di cui stiamo assistendo al preoccupante e virulento proliferare nei social e nei siti web “nostalgici” e dichiaratamente apologetici del Ventennio fascista e del Dodicennio nero hitleriano).

Certo è che nessuno, prima del De Felice, aveva posto in modo così sistematico e “scientifico” il problema delle varie interpretazioni del fascismo, o meglio, aveva studiato il fenomeno fascista anche come problema interpretativo.

L’indagine del De Felice (Le interpretazioni del fascismo, Laterza, 1969) è suddivisa in due parti; nella prima vengono esaminate le interpretazioni definite “classiche” (Il fascismo come malattia morale, come prodotto logico e inevitabile dello sviluppo storico in determinati paesi, come prodotto della società capitalista o come reazione anti proletaria e anti bolscevica);  quelle definite “minori” degli anni trenta-sessanta (come manifestazione del totalitarismo novecentesco e come fenomeno transpolitico); quelle elaborate dalle scienze sociali e dalla psicoanalisi.

 La seconda parte è tutta dedicata alle interpretazioni italiane del fascismo e al dibattito dopo la Liberazione. Bene. Ma quale conclusioni possiamo trarre alla fine di questa ampia e approfondita rassegna delle interpretazioni del “fenomeno” fascista?

Angelo Tasca

Come avverte lo stesso De Felice nella sua “Conclusione”: “Chi scrive è convinto, insomma, che – come affermava Angelo Tasca – definire il fascismo è anzitutto scriverne la storia. Ed è convinto che anche su questa strada, quella cioè della concreta ricostruzione storica dei vari fascismi,

se – soprattutto negli ultimi anni – parecchio e bene si è lavorato, molto ancora c’è da fare”. Su questo non c’è alcun dubbio. Come è ormai acquisita la differenza  tra fascismo italiano e nazionalsocialismo tedesco, oltre che tra i “vari movimenti e regimi conservatori e autoritari che lo precedettero, lo accompagnarono e lo hanno seguito…I regimi conservatori e autoritari classici hanno sempre teso a demobilitare le masse e ad escluderle dalla partecipazione attiva alla vita politica offrendo loro dei valori e un modello sociale già sperimentati nel passato e ai quali viene attribuita la capacità di impedire gli inconvenienti e gli errori di qualche recente parentesi rivoluzionaria. Al contrario il fascismo ha sempre teso (e da ciò ha tratto a lungo la sua forza) a creare nelle masse la sensazione di essere sempre mobilitate, di avere un rapporto diretto col capo (tale perché capace di farsi interprete e traduttore in atto delle loro aspirazioni) e di partecipare e contribuire non ad una mera restaurazione di un ordine sociale di cui sentivano tutti i limiti e l’inadeguatezza storica, bensì ad una rivoluzione dalla quale sarebbe gradualmente nato un nuovo ordine sociale migliore e più giusto di quello preesistente. Da qui il consenso goduto dal fascismo.

De Felice con L’editore Laterza

Un consenso che, peraltro, può essere veramente capito e valutato solo se si mettono in luce i valori eticopolitici che lo alimentavano e l’ordine sociale ipotizzato che lo sosteneva: gli uni e l’altro tipici dei ceti medi e di quei limitati settori del resto della società sui quali l’egemonia culturale dei ceti medi riusciva in qualche misura ad operare. Un consenso, dunque, vasto ma non vastissimo, facile ad infrangersi sulle secche di una troppo prolungata stasi del progresso sociale e che – in mancanza di questo – poteva essere alimentato solo con il ricorso a succedanei irrazionali e proiettati al di fuori della società nazionale, quali, in Germania, il mito della superiorità della razza ariana e, in Italia, quello dei diritti della nazione ‘proletaria’ e ‘giovane’ da far valere contro le nazioni “plutocratiche” e ormai “vecchie”: non a caso, tutti e due miti tipicamente piccolo-borghesi”. Già, peccato (o fortuna) che anche questi miti si siano infranti prima a Stalingrado per i tedeschi, e poi, per noi italiani, tra il 25 luglio e l’8 settembre del 1943. Ma non sarà un mito anche quello di una historia rerum gestarum completamente “oggettiva” e del tutto “spassionata”? Certo è che i culti della personalità e la divinizzazione dei capi carismatici sono sempre stati nefasti per i popoli e per gli stessi dittatori, prima idolatrati e poi, dopo i disastri causati dai loro deliri di grandezza, odiati da quelle stesse masse che ne avevano entusiasticamente sostenuto l’ascesa e il potere totalitario. Questa, fino a prova contraria, è la dura lezione della storia. Almeno per chi la conosce e per chi non sia accecato da odio ideologico o da fanatismo pseudoreligioso.

 FULVIO SGUERSO 

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