RACCONTO GOTICO

RACCONTI GOTICI di  Franco Ivaldo

IL CLOWN

RACCONTI GOTICI di  Franco Ivaldo

IL CLOWN

La grande carovana variopinta era giunta a Greencity: tre operai per alzare e smontare il grande tendone con le bandierine multicolori, una cassiera, Judite. Ed, infine, quella che era veramente la grande attrazione di quel circo equestre: i clowns.

Le fortune del circo Omega riposavano soprattutto sui quattro pagliacci, George, Ludovic, Pablo, Cecil. Dopo un’ ultima tournée negli Stati del Sud, si era aggiunto un quinto clown, Pierre Valois, che alla Nuova Orleans era riuscito ad ottenere un ingaggio.

Era molto buffo. Al proprietario era piaciuto subito e l’aveva assunto in prova. Pierre era bilingue: parlava inglese come ogni buon americano, ma anche il francese essendo discendente di coloni francesi, anzi liguri di Sanremo che prima si erano trasferiti a Mentone, prima di varcare l’Oceano per andare a cercare lavoro in America.

Se non era sotto i riflettori, Pierre era piuttosto taciturno e cosa per nulla strana per un clown, non era per niente allegro. E’ risaputo che, a volte, i grandi umoristi sono solitari ed hanno caratteri chiusi e abbastanza cupi. La malinconia gli si leggeva negli occhi. Gli altri quattro l’avevano notato subito, ma conoscendo altri colleghi dello stesso umore non vi avevano badato molto, lasciandolo in pace.

Il circo si era stabilito sulla piazza principale di Greencity, attorniato dalla solita folla di curiosi che si aggira puntualmente attorno alle tende multicolori e alle gabbie, dove ruggiscono senza troppa convinzione e con una certa pigrizia,vecchi leoni stanchi e ormai pensionati. I bambini correvano per ogni dove come impazziti dalla gioia, pregustando l’inizio dello spettacolo serale. Le massaie guardavano, inquiete, l’orologio del campanile della chiesetta poco distante. Bisognava rientrare a casa e preparare la cena per i laboriosi mariti, di ritorno dai campi. Poi chissà, forse si poteva andare a vedere lo spettacolo equestre, sempre che agli stanchi mariti ne rimanesse la voglia e cedessero per una volta al volere dei più piccoli, impazienti di correre a sedersi attorno alla pista di sabbia dorata, per vedere da vicino tutte quelle meraviglie che i manifesti affissi a Greencity promettevano senza risparmio di iperboli, da parecchi giorni, prima che la carovana multicolore arrivasse nel paesetto e alzasse le tende.

Nei rispettivi tendoni, gli artisti del circo ripassavano mentalmente la loro parte, divenuta col tempo semplice routine.

C’erano i due trapezisti, Margaret Ford e John Lee, che facevano coppia fissa ormai da cinque anni, quando Margaret aveva esordito, mentre John era già un personaggio dei circhi equestri. Vi era nato in un circo. Aveva fatto il lanciatore di coltelli con altre carovane itineranti, il cantante e, infine, essendo un tipo longilineo e muscoloso con un corpo d’atleta, era diventato bravo al trapezio. Il loro numero riscuoteva, ad ogni rappresentazione, scroscianti applausi e suscitava enorme entusiasmo per l’audacia delle figure. Margaret si lanciava nel vuoto e John, sul trapezio antistante era pronto ad afferrarla con rara maestria.

C’era il domatore, Henry Pinkerton. Lavorava con un gruppetto di leoni che ormai trattava come vecchi gatti, amici per la pelle. Aveva “trattato” anche le tigri, ma da quando Senegal, una tigraccia del Bengala a momenti se lo divorava vivo, Henry aveva preferito limitarsi al re della foresta. Se l’era cavata con una zampata di striscio, ma c’erano voluti parecchi punti e un mese di ospedale.

Il direttore e proprietario del circo Omega (si chiamava così), era un robusto texano, Mike Woods, cresciuto nelle praterie, che per non essere da meno faceva, assieme alla moglie Marie, l’addestramento di una quadriglia di splendidi cavalli, ormai più che ammaestrati e comunque domati.

E poi, il personale che non si esibiva. Anche durante lo spettacolo, non vi era coordinamento tra Pierre ed i quattro. Lui andava a ruota libera per conto suo. Era una gag vivente, ma appartata e lanciava di tanto in tanto un’occhiata ai quattro che portavano avanti il loro spettacolo in modo, per così dire, più tradizionale. C’era un Pierrot, l’ Auguste. Insomma, classica esibizione di clowns. Pierre era il jolly. E quel suo recitare isolato accresceva l’effetto comico di tutto il gruppo, per cui i suoi colleghi gliene erano grati. La loro esibizione veniva sottolineata da quel pagliaccio isolato che ne faceva e diceva di tutti i colori. E li fissava, fornendo loro insperati spunti comici e battute a volte improvvisate.

Quella sera, a Greencity, si era iniziato con i pagliacci in pista per distendere l’atmosfera e far ridere il pubblico di semplici contadini, accompagnati da famiglie numerose e felici, robusti villici e matrone cariche di marmocchi.

Poi dopo l’esilarante esibizione dei pagliacci, il rimbombare dei tamburi e il direttore dell’Omega aveva annunciato, trionfante:” Ed ora i doppi salti mortali di Margaret e John”.

Era stata la volta dei due trapezisti. Evoluzioni spettacolari , applausi scroscianti, entusiasmo alle stelle. I due trapezisti, la donna davanti e l’uomo a seguirla subito dietro stavano rientrando nei loro camerini sotto le ovazioni, quando il clown Pierre si avvicinò a John. Da lontano, il pubblico li vide parlottare, in modo sempre più concitato. I pagliacci che erano vicini alla pista udirono che Pierre diceva al trapezista, mostrandogli una foto: “La riconosci ? Dì, la riconosci ?”

E John che, pallido in volto, rispondeva: “Ester !”

E il clown: “Sì, Ester, colei che tu, maledetto ubriacone, hai ucciso lanciandole un coltello in pieno petto, durante una delle tue rappresentazioni. Non sei mai tu che rischi la pelle…Ma adesso…”

Pierre aveva estratto un pugnale ed aveva colpito ripetutamente il trapezista che era crollato a terra. John era morto subito, mormorando: “Ester.. Ester, un incidente, solo un incidente”.

Una scena fulminea che tutti avevano potuto seguire dai loro posti , incapaci di articolare una parola o di fare un gesto. Il pubblico fino all’ultimo aveva creduto ad una “gag” improvvisata.

I quattro pagliacci non si aspettavano l’esito cruento e si erano limitati a rimanere fermi impietriti a seguire il dialogo concitato ad alta voce tra Pierre e John e poi il fulmineo epilogo, che li aveva presi completamente alla sprovvista. Margaret era stata l’unica che, voltatasi indietro, aveva cercato di frapporsi tra il clown ed il suo compagno, correndo incontro ai due. Ma troppo tardi. Il direttore del circo dal suo palco aveva urlato “No! Fermati!” nel microfono quando aveva visto Pierre Valois estrarre il pugnale. poi si era precipitato sulla pista. Pierre non aveva fatto storie aveva porto il pugnale a Mike Woods, con un gesto rassegnato ed un mesto sorriso sulla maschera di clown. Tanto aveva ormai portato a termine la sua vendetta. Aveva vendicato sua sorella Ester.

II

Era stato lo sceriffo della contea, Alan Parker, che era presente allo spettacolo circense, a mettere le manette ai polsi all’omicida e ad accompagnarlo nella vicina prigione di Greencity.

La confessione, data l’evidenza, era stata completa e senza riserve.

L’avrebbe pubblicata con un titolone in prima pagina il “Greencity Times”, il giorno successivo al delitto.

Ecco il racconto di Pierre Valois.

“Vivevamo alla Nuova Orleans, mia sorella Ester ed io, dopo la morte dei nostri genitori che ci avevano lasciato una casetta in periferia. Una sera, andammo al circo equestre, non ricordo come si chiamava quel circo, ma proprio lì conoscemmo il lanciatore di coltelli al bar del circo, durante una pausa dello spettacolo. Era John Lee, il quale anche attratto dalla bellezza di Ester, le propose di diventare la sua partner, asserendo che la sua compagna, una brunetta della California, Lily mi sembra, aveva deciso di ritirarsi, perché aveva trovato marito. Io, di fronte a quell’incredibile proposta fatta a mia sorella, dissi subito che poteva scordarselo. Che tutto poteva fare mia sorella meno che il bersaglio ad un lanciatore di coltelli. Che non avrei acconsentito mai.

Ester non lavorava, ma faceva i lavori di casa. Io mi ero trovato un posto da contabile in una banca della città e non ce la passavamo affatto male. Naturalmente, Ester aspirava ad una vita sua. Non poteva rimanere eternamente con me, suo fratello maggiore, io questo lo capivo benissimo. Aveva ventiquattro anni. Io avevo passato la trentina. Scapolo impenitente, e lo sono rimasto, anche perché tanto in casa a quell’epoca, c’era lei. Mi sentivo, però un vero egoista fatto e finito, e , forse, anche per questo non riuscii a dissuaderla, quando, qualche settimana dopo, mi annunciò che aveva deciso di diventare la partner di quel John Lee.

Il circo era rimasto in città per un soggiorno piuttosto lungo. Tanto alla Nuova Orleans gli spettatori non mancavano.

Seppi che si erano rivisti dopo quella sera. Nacque anche un flirt. Insomma, per bizzarra e strana che la situazione fosse, non riuscii ad impedire il destino cui Ester andava incontro.

Mia sorella si era innamorata di quel tizio. Era evidente e questo condizionava la scelta che fece. Non l’avrei mai creduta capace di tanto. Ma visto che il mestiere di quell’uomo era quello del lanciatore di coltelli a Ester sembrò del tutto naturale seguirne la carriera e condividerne in prima persona i rischi. Rischi che lei minimizzò. Ma per carità, mi disse, è una cosa sicura. Sa quello che fa, stai tranquillo. Io non ho paura. Mi ha proposto di sposarlo e diventerò la sua partner. Che male c’è ? Insomma, divenne la sua partner. Io protestai fino all’ultimo, mi opposi fino all’ultimo. Andai persino da un avvocato, il quale mi sconsigliò una causa, perché disse, la perderebbe di certo. Se sua sorella che è maggiorenne vuole così ha il diritto di farlo e lei non può farci nulla.

“Posso prenderlo a pugni!” gridai.

“Questo sì – rispose l’avvocato – ma nei guai ci andrebbe lei!”

Per farla breve, Ester seguì quel John Lee, quando la carovana del circo levò le tende per una tournée negli Stati del Sud. Figuravano entrambi sui cartelloni, tra le massime attrazioni dello spettacolo. E andavano di città, in città. Nelle prime cartoline che mi inviava, Ester parlava di successi di applausi, di notorietà. Trascorsero due anni. Io rimasi nella vecchia dimora e conservai il mio impiego in banca.

Partecipazioni di nozze non ne ricevetti. Segno che Ester e John, in fin dei conti, non si erano sposati. Lui non aveva tenuto parola. Quel che è peggio, un brutto giorno ricevetti una lettera da mia sorella, da Dallas. Mi diceva che John Lee aveva preso il brutto, e rischioso vizio di bere. Mi scriveva che intendeva lasciarlo. E che sarebbe tornata alla Nuova Orleans, per rifarsi una vita. Non ne ebbe il tempo. Una tragica sera di rappresentazione, fu l’ultima. Un pugnale lanciato da quel miserabile la colse in pieno petto, togliendole la vita. John Lee venne arrestato. Ma non risultò affatto ubriaco. Era sobrio la sera dell’incidente, non aveva bevuto. Però aveva sbagliato la mira, uccidendo mia sorella. Mi precipitai a Kansas City, dov’era avvenuto il fatto. Mi costituii parte civile. Ma il processo fu un disastro. Un avvocato riuscì a dimostrare che, in fondo, si era trattato di un incidente. Omicidio colposo. Il dannato assassino fece pochi mesi di carcere oltre a quelli già scontati in attesa del processo. Insomma, fu libero. Ma io decisi che per lui era finita.

L’avrei inseguito per tutti gli States. Immaginavo, poiché all’uscita di prigione, era sparito facendo perdere le sue tracce, che sarei riuscito a ritrovarlo prima o poi. E dove se non in un circo ? E come avrei potuto scovarlo ed avvicinarlo, se anch’io non fossi entrato a far parte del mondo delle carovane ? Così, lasciai il mio posto di contabile alla banca e diventai un clown. Semplice, no?

Di circo, in circo. Sapeste quanti ce ne sono negli Stati Uniti…Di città in città. Ero tornato, dopo una miriade di ingaggi e di posti che avevano lasciato non trovando John Lee, alla Nuova Orleans, quando ecco che arriva in città il circo Omega. Non lo conoscevo, vado a vedere lo spettacolo e chi trovo sui trapezi ? Proprio lui.

A giudicare dai primi spettacoli che avevo visto, potei capire che quel bell’imbusto si era fatto passare il vizio di bere, ma aveva provocato la morte di Ester e non poteva passarla liscia. Così riuscii a farmi assumere come clown. E il resto lo conoscete. Un paio di tournée. Il mio aspetto era cambiato. Non mi riconobbe. Per lui ero uno dei clown, non fece attenzione a me. Ed io ho aspettato il momento giusto qui a Greencity. Giustizia è fatta !”

FRANCO IVALDO

 

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