Qualcosa sulla ventesima Operetta: “Dialogo di Timandro e di Eleandro”

Timandro: quello che crede nell’uomo. Eleandro: quello che lo commisera.

Se vogliamo trovare  un concetto attorno al quale soprattutto ruota l’Operetta, esso è definito dal termine “edificante”.
Ecco, Timandro crede che si debba essere edificanti.
Eleandro, invece, che, senza essere distruttivi, non sia il caso di opporsi testardamente alla distruzione. La quale, infatti, fa parte in inevitabile simbiosi con la produzione, del ciclo eterno della Natura.
Chi fra i due esprima il pensiero di Leopardi è riconoscibilissimo anche perché, come lui, pratica l’arte di scrivere, ed è anzi a causa di essa che l’interlocutore lo accusa: scrivere è fissare le parole, che proprio per questo devono essere soppesate e ben valutate, e che si moltiplicano per quanti sono i lettori, e perciò non possono essere irresponsabili.
Timandro si sente il depositario di una morale definita e definitiva, tale per cui sente altresì di avere il diritto, anzi, il dovere di esprimere ad Eleandro la sua riprovazione morale.
Con ciò concede ad Eleandro l’onestà intellettuale di chi sostiene un modo, quello di deridere la specie umana, che è fuori moda; un’idea controcorrente, che non gli permetterà di aver né fortuna letteraria né séguito.

Eleandro, dunque, scrive quello che scrive seguendo la sua coscienza. Che ciò non giovi al mondo, non significa che lo danneggi.
Naturalmente qui si aprirebbe il tema enorme della bugia ( è ammissibile o addirittura encomiabile la bugia nella sua versione “pietosa”? ) se non fosse che Eleandro non lo considera. Sa infatti che egli non riuscirebbe a scrivere se cercasse di dire qualcosa di diverso da quella che intimamente sa essere la verità; neanche se fosse la verità che non ci sono verità.
Stimolare il mondo a procedere verso nuovi lidi, pungolare scienza e tecnica a nuovi traguardi, prospettare avveniristiche complete, permanenti e condivise felicità, non può fare il caso suo. E semmai lo volesse, non lo potrebbe. O forse sì. Ma solo attraverso qualcosa di diverso dai libri di morale richiesti da Timandro: attraverso i libri poetici, in senso lato, ovvero non necessariamente di versi ma, come i romanzi, anche in prosa. Purché stimolino l’immaginazione e da cui l’animo non possa scampare dall’essere convocato e scosso e fatto partecipe e ne possa uscire in poco o in tanto eccitato e nuovo.
Che si possa scrivere e sostenere pensieri non incoraggianti e positivi per la propria specie, per Timandro è inconcepibile. Tant’è che pur di trovarvi ragione, prova a indagare le passioni dell’interlocutore, che tuttavia lo blocca: non è la rabbia, o l’invidia, o i sogni di gloria, o i meriti non riconosciuti a non far unire la sua voce al coro generale.
Infatti è proprio facendo il contrario con l’andarlo ad ingrossare che se volesse dar corso al rancore e alla rivalsa potrebbe sperare di placare l’uno e di ottenere l’altra, non certo facendo da contraltare, che ne risulterebbe sommerso.

La spiegazione di Eleandro sembra convincere o quantomeno placare la foga stizzita e un poco inquisitoria di Timandro.
L’obiezione che fa seguire non è pretestuosa: gli pare che se Eleandro non ha motivi per odiare, allora sarebbe libero di amare. Perché non lo fa?
Conviene riportare direttamente uno stralcio del dialogo in cui viene data la risposta e introdotto un argomento collegato:

Eleandro – Sentite, amico mio. Sono nato ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva. Oggi, benché non sono ancora, come vedete, in età naturalmente fredda, né forse anco tepida; non mi vergogno a dire che non amo nessuno, fuorché me stesso, per necessità di natura, e il meno che mi è possibile. Contuttociò sono solito e pronto a eleggere di patire piuttosto io, che essere cagione di patimento agli altri. E di questo, per poca notizia che abbiate de’ miei costumi, credo mi possiate essere testimonio.

Timandro – Non ve lo nego.
 
Eleandro –  Di modo che io non lascio di procurare agli uomini per la mia parte, posponendo ancora il rispetto proprio, quel maggiore, anzi solo bene che sono ridotto a desiderare per me stesso, cioè di non patire.

Timandro – Ma confessate voi formalmente, di non amare né anche la nostra specie in comune?
 
Eleandro – Sì, formalmente. Ma come tuttavia, se toccasse a me, farei punire i colpevoli, sebbene io non gli odio; così, se potessi, farei qualunque maggior benefizio alla mia specie, ancorché io non l’ami.
 
Timandro – Bene, sia così. Ma infine, se non vi muovono ingiurie ricevute, non odio, non ambizione; che cosa vi muove a usare cotesto modo di scrivere?

Eleandro risponde che sono diverse cose a spingerlo. E le elenca in un elenco che, succinto, riportiamo così:

– La prima consiste nel non sopportare simulazione e dissimulazione.
Le circostanze della vita non permettono sempre di evitarle, ma almeno un poco ci possiamo perdonare perché spesso non siamo noi a scegliere quelle circostanze.
Ma quando si scrive, lo si fa deliberatamente. Mentire non ha scuse. La maschera del vivere sociale lì deve cadere. Che è come dire uscire da un dramma trasformatosi in commedia, perché altro non si può considerare il fatto che tutti con studio ed impaccio fingano reciprocamente sapendo d’esser parte della finzione, se non del ridicolo.

– La seconda, nel denunciare ciò a cui, manifestamente ontologico, malvolentieri si allega il postulato di evidente verità solo perché risulta troppo incomodo il digerirla: l’infelicità necessaria di tutti i viventi. Così evidente e intrinseco che se essa non fosse vera, allora tutto sarebbe falso, e ogni velleità di qualunque discorso con un capo e una coda verrebbe meno.
Scrivere, e quindi denunciare nero su bianco come si autoinganni l’uomo esitando di ammettere tutto ciò, è dimostrare che almeno si può salvare la dignità e darne esempio invece di fuggirla.

– La terza, nel porre rimedio un poco all’infelicità umana, sia provocata agli umani dal Fato che agli umani dagli umani, dolendosene col riderne; che è gran arte e unica di conforto a chi la pratica ma provvida anche al suo prossimo, non dovendo così questo e quello assommare una tristezza ulteriore rappresentata dal piangersi addosso o sulla spalla del malcapitato vicino, con contumelie e lamenti che intanto non sollevano l’anima e non tolgono il male dal corpo se ne fosse piagato.

– La quarta, nel chiarire che come tutti desidero il bene della mia specie in universale, ma non riesco a sperarlo perché non mi lascio all’inganno di consolazioni artefatte che comprimono il vero e, come fanno i filosofi del nostro celebrato diciannovesimo secolo, farne raffinate costruzioni per convincere e convincersi che il male non è poi così male e serve per il bene che sarà.
Convinto fermamente di questo, non m’abbandono ai sogni e di questo parlo; che, d’altra parte, se non m’attenessi alla mia cruda verità e volessi zuccherare la medicina amara, non saprei trovare estro ed ardire che mi guidassero a spacciar bene la mercanzia e non scriverei nulla che valesse la pena d’esser letto.

Timandro ribatte che tutto s’appianerebbe se il falso giudizio in cui lui, Eleandro, crede, venisse finalmente rovesciato e perciò inverato.       
Un argomento che non regge neppure per un battito di ciglia.
E’ facile ed immediato a Eleandro, vero come la pena che ha ad aver ragione, dire che la sua infelicità, non perché appaia ingiustificata, non sia.
Giusta o sbagliata, è. E insomma a uno che si sente infelice non glielo si può negare perché i motivi di essa infelicità sono troppo pochi e troppo esili.
Timandro così comincia a cedere ( lo si percepisce chiaramente sebbene non lo dichiari mai ) dicendo che tutti si è infelici, perché ci sentiamo imperfetti; ma è pur vero che l’uomo è un essere capace di migliorarsi; basta dare uno sguardo al cammino fatto dai primordi della specie, e che se alla perfezione non c’è ancora giunto, è perché gliene è mancato il tempo.
Cosa che prevedibilmente innesca l’ironia dell’interlocutore:

Eleandro – Né io ne dubito. Questi pochi anni che sono corsi dal principio del mondo al presente, non potevano bastare; e non se ne dee far giudizio dell’indole, del destino e delle facoltà dell’uomo: oltre che si sono avute altre faccende per le mani. Ma ora non si attende ad altro che a perfezionare la nostra specie.

Timandro mostra di non accorgersi d’essere motteggiato, e perciò tutto compreso nella sua prospettiva, continua a lodare i passi da gigante fatti dalla scienza e gli esiti straordinari e ultimativi che avranno da lì a poco, senza rendersi conto di inanellare i termini di una preterizione talmente ingenua da sollevare Eleandro dalla fatica di intestarsene l’elencazione:

Timandro – Però se fu mai dannoso e riprensibile in alcun tempo, nel presente è dannosissimo e abbominevole l’ostentare cotesta vostra disperazione, e l’inculcare agli uomini la necessità della loro miseria, la vanità della vita, l’imbecillità e piccolezza della loro specie, e la malvagità della loro natura: il che non può fare altro frutto che prostrarli d’animo; spogliarli della stima di se medesimi, primo fondamento della vita onesta, della utile, della gloriosa; e distorli dal procurare il proprio bene.

Un’elencazione, comunque, così appropriata che Eleandro capisce come sia il momento di far uscire  l’oppositore allo scoperto affinché scopertamente dichiari se ciò che egli dice circa l’infelicità degli uomini sia vero o falso.
Di fronte a ciò Timandro, il quale non si vuol dare per vinto come apparirebbe se con coerenza rispondesse, sposta la questione sull’alternativa tra il vero e il falso e cioè se sia opportuno sempre e per tutti il vero, mettendo a nudo come sia stata la paura, quella di un’utopia riconosciuta luogo irraggiungibile a negare l’ottimo no, ma il meglio, per abbandono preventivo, la molla della sua iniziale indignazione.
C’è bisogno insomma di pietose bugie.
Lasciarne senza l’uomo, vuol dir lasciarlo solo e nudo. E anche questa è una verità. Non dell’essere, ma dell’anima e del cuore.
Con questo Timandro sembrerebbe aver pareggiato il conto.
Invece dà il destro a Eleandro per un affondo che non lascia più spazio a nessuna sortita retorica. Infatti questi gli fa notare che da quel che lui, Timandro, ha appena detto, se ne trae che l’ignoranza è più preziosa della conoscenza, ma che senza conoscenza non si progredisce verso la perfezione. Per cui, delle due l’una: o si procede verso la perfezione con scienza del mondo e coscienza di come si abbia a interpretarlo, rendendoci più infelici, o ci si arresta nella beata ignoranza dell’infelicità consueta ed acquisita e poi si muore.
Preso atto di come questa sia la condizione umana, quali strumenti ha in serbo l’uomo per vincere la partita?

Timandro – Molti, e di grande utilità: ma l’esporgli vorrebbe un ragionamento infinito.
…Che è un modo come un altro per trarsi d’impaccio. Non: “non li so”; ma: “ne so così tanti che mi manca il tempo”…!
Ad ogni buon conto a Eleandro non importa mettere l’altro al mentire. Finge di credergli e lascia correre e procede anzi con un improvviso quanto inaspettato capovolgimento di fronte.
Adesso è lui che vuole affidarsi a

quelle opinioni, benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi, ed utili al ben comune o privato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che danno pregio alla vita; le illusioni naturali dell’animo; e in fine gli errori antichi, diversi assai dagli errori barbari; i quali solamente, e non quelli, sarebbero dovuti cadere per opera della civiltà moderna e della filosofia.

Ma perché Eleandro sconfessa ora ciò che finora ha sostenuto?
Perché cambiando il  modo cambia il senso: le dolci illusioni e le immaginazioni “belle e felici” di Eleandro fingendo di dar corso alla speranza non vogliono conquistare il futuro dell’umanità, ma soltanto alleviarle un poco il presente. Come se fosse sabato.

Fulvio Baldoino            

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