Qualcosa sulla diciannovesima Operetta: “Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco”
L’Operetta è divisa in tre parti.
La prima non arriva alla mezza pagina, ed è il preambolo con cui Leopardi ci informa di aver tradotto per passatempo dal greco al volgare un frammento di un codice che si trovava fino ad alcuni anni addietro custodito presso i monaci del Monte Athos.
Non sta a spiegare come gli sia giunto tra le mani.
Non sarebbe stato utile né alla tessitura né alla finalità del contenuto.
Deve invece spiegare, allo scopo di non creare incongruenze, che le parole “Frammento apocrifo” compaiono nel titolo perché nel frammento si trovano scritte cose, quelle relative alla parte della fine del mondo, che non potevano risalire al filosofo Stratone, vissuto trecento anni avanti Cristo.
A quell’epoca infatti non si era ancora arrivati a certe conoscenze di cui tuttavia si tratta.
Perciò il codice o è stato elaborato da Stratone limitatamente al primo capitolo, e allora la mano di un altro redattore greco ha scritto il rimanente in tempi molto più recenti, oppure è interamente di un altro.
Con questa introduzione Leopardi si garantisce che la cronologia non intralci la logica del testo: fingere che i pensieri espressi nell’Operetta siano di un filosofo materialista ma non suoi, gli spiana la strada da ogni obiezione al riguardo.
La seconda è intitolata “Della origine del mondo”, e la terza e ultima “Della fine del mondo”. Vediamole:
Della origine del mondo
Leopardi sente il bisogno di dare una veste scientifica ancorché miniaturizzata alla sua concezione filosofica e poetica. Perciò attribuisce a Stratone, scienziato-filosofo di epoca alessandrina, materialista come lui, il suo pensiero sulla origine ( e nel secondo capitoletto, sulla fine ) del mondo.
E’, questo di servirsi di un personaggio antico, un escamotage che assolve a più funzioni:
– Investire il discorso dall’autorevolezza di aver resistito ai secoli.
– Mantenersi nell’alveo del genere letterario del breve resoconto senza tracimare in quello del saggio, per quanto potesse essere breve anch’esso.
– Avere una certa libertà di “manipolazione”: gli scritti scientificamente improntati di un personaggio più recente non avrebbero lasciato “margini di manovra” e zone in chiaroscuro su cui innestarsi.
Oltre ad esse, ve ne è un’altra, di natura eminentemente pratica, utile a non esporlo in modo troppo palese e diretto alle forbici della Censura che, in piena attività dal 1559, avrebbe potuto pretendere dei tagli, o delle modifiche, o persino decidere tout court di destinare l’elzeviro all’ “Index Librorum Prohibitorum”.
Ciò che infatti vi si dice è cosa che è facile immaginare sgradita alla Chiesa. Più ancora, forse, di ciò che è detto in altre Operette anch’esse poco edificanti. A cominciare dall’affermazione che le cose, tutte, hanno un inizio e una fine, diversamente dalla materia che le costituisce.
Esse sono i modi che la materia ha di manifestarsi.
Nascono, si corrompono col tempo, e muoiono o, per dir meglio, si trasformano in altro spinte da una forza interna.Ma la materia in questo loro mutamento continuo non sottostà al tempo ed è perciò eterna. Che tradotto in termini religiosi, significa come non sia stata creata, e pertanto non vi sia un Creatore.
L’eco di Spinoza, nonché del Principio di Lavoisier per il quale in natura nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma, sappiamo non mancherà, in compagnia di altri concetti poco ortodossi e molto presenti nell’arco del libro delle Operette, di rendere la loro pubblicazione a dir poco travagliata.
E a questo punto finalmente si tratta proprio della origine del mondo, cioè dell’origine della pluralità di modi di essere della materia che si autorelaziona in generi e specie.
1) Rispetto ai modi delle singole cose di ciascun regno della natura ( minerale, vegetale ed animale )che si trasformano in altre.
2) Rispetto ai modi degli stessi tre regni della natura che si trasformano in altri mondi, perché la relazione che li lega è soggetta essa medesima al mutamento.
Ne deriva che il mondo, eterno poiché non essendoci nessuno che vi ha dato inizio non potrà vedere nessuno che potrà porvi fine, è in realtà uno dei tanti possibili, in successione ma eventualmente in contemporanea, se si riuscisse a vedere più in là negli spazi siderali.
Della fine del mondo
L’uomo ha una vita troppo limitata per accorgersi del venir meno del ( suo ) mondo. E se non ci fossero delle prove scientifiche a dimostrarlo, continuerebbe a reputarlo eterno e unico.
Esse ci vengono fornite soprattutto dall’astronomia. E in seno ad essa, principalmente dalla scoperta che il moto di rotazione delle stelle e dei pianeti per la forza centrifuga che provoca in corrispondenza della loro linea equatoriale, tende a renderli sempre di maggior circonferenza, fino a mutarli in una ciambella; e deprimendoli dall’un polo e dall’altro, in un disco e infine a renderli così sottili da indebolirli e sgranarli come un’ostia, fino a e disperderli nel cosmo.
La Terra, così, fatta a pezzi, finirà assorbita dal sole o inglobata da qualche pianeta più grande.
Tutte cose che Leopardi si può anche permettere a buon diritto di ipotizzare ( mantenendovi però una qualche dose di canzonatura ) se ci ricordiamo che a soli 15 anni scrisse una apprezzata “Storia dell’astronomia” di quasi 500 pagine.
Non solo. Le estende, a quel punto senza fallo, anche a tutti i corpi celesti esterni al nostro sistema solare e a quello delle stelle di altre galassie; sicché ciascuno o prima o poi sarà fagocitato dalla sua stella, cioè da quella che fino a quel momento ha provveduto a tenerlo in vita.
Neanch’essa tuttavia immune, per essere fatta di fuoco, dal ruotare attorno al proprio asse e dal disperdersi nello spazio.
Ma la materia, quella, resterà al di là del trasformarsi dei suoi propri modi; siano quelli del nostro mondo, o siano quelli di pianeti e soli di altri mondi. Quali e quanti non sappiamo.
O forse sì, solo se in essi ricompariremo in guisa di una nuova specie fatta onnisciente.