Protezionismo vs globalismo
PROTEZIONISMO VS GLOBALISMO
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PROTEZIONISMO VS GLOBALISMO
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L’antagonismo odierno non si riduce più al vetusto fascismo-antifascismo, tuttora pretestuosamente sventolato, bensì a quello indicato nel titolo e tuttora ben rappresentato dall’altro antagonismo, che alcuni davano per morto, destra-sinistra. La sinistra, internazionalista per temperamento, ha abbracciato senza remore il globalismo, non rendendosi conto che in tal modo sarebbe confluita nella logica mercantilista, in un abbraccio mortale che ne avrebbe alterato la fisionomia. La destra, come ho già evidenziato in mio precedente scritto, sì è divaricata lungo due strade diverse: quella, tradizionale, mercantilista, che ha finito con l’occupare posizioni di centro, scalzata dalla destra sociale. La sinistra maggioritaria è oggi, come evidenziato dai programmi dei partiti raggruppati sotto un generico cappello di sinistra, l’unico schieramento che vuole più Europa, pur con le dovute modifiche, rimanendo in tal modo attaccata al modello capitalista classico, che non vuole limitazioni agli spostamenti di uomini, merci, e soprattutto soldi. Berlusconi e Renzi procedono l’uno verso l’altro, per incontrarsi in centro, Casini benedicente Diciamo dunque che tra sinistra odierna e destra mercantilista, migranti verso un rendez-vous in centro, non emergono significative differenze, come il plateale fallimento delle politiche sociali e fiscali degli ultimi anni ha messo in luce. Le residue frange di sinistra “vetero”, ultime a tener alta la bandiera rossa, hanno insignificanti rappresentanze elettorali. La destra sociale, peraltro, è dichiaratamente protezionista; ed ha ottime ragioni per esserlo. Tuttavia, sembra non voler vedere il lato negativo di una tale posizione e sposa, alquanto acriticamente, provvedimenti di altri governi, che vede come fari di saggezza dai quali lasciarsi illuminare. Quanto ho appena detto trova preciso riscontro nelle ultime mosse del “protezionista in capo”: Donald Trump, cui i nostri Salvini e Meloni guardano con entusiasmo. Nei suoi tentativi di riportare l’America ad essere first again, Trump ha dapprima alzato i dazi su prodotti made in China, come lavatrici e pannelli solari, ampiamente importati negli USA a tariffe agevolate; e in questi giorni ha inasprito le imposte doganali su acciaio ed alluminio. E nulla fa pensare che l’andazzo non si estenda a una varietà di altre materie prime e lavorate, nonché a prodotti di largo consumo, di fabbricazione perlopiù asiatica. Le “ottime ragioni” cui prima accennavo, che infiammano Lega e FdI, sono, da una parte, la concorrenza sleale, ad opera specialmente della Cina, nei confronti delle nostre industrie, col risultato di fallimenti, delocalizzazioni, disoccupazione, precariato e abbassamento dei livelli salariali e del welfare, per i calanti introiti statali; questi ultimi incorreggibili a causa della perdita della sovranità monetaria; e, seconda ottima ragione, l’asservimento dello Stato ai “mercati”, che invadono il campo politico, manovrando a proprio piacimento lo spread, ossia i costi del finanziamento dello Stato. Figurarsi se non condivido questa impostazione, dopo ormai 13 anni che la denuncio. Ogni azione, specie se unilaterale e provocante un impatto economico della portata dell’azione di Trump, determina però una reazione contraria. Vediamola. Inizia la guerra dei dazi tra Trump e Xi Jingping. L’acciaio prima mela della discordia.
Le misure di Trump sono state molto dibattute alla Casa Bianca, dove il Presidente aveva prima convocato i ceo (nostri ad) dei principali produttori di acciaio e alluminio, ricevendone l’ovvio plauso, ma scontentando all’opposto gli utilizzatori di questi metalli, che si vedranno costretti ad alzare i prezzi dei prodotti finiti, a tutto scapito degli utenti finali, con la conseguente compressione della domanda. Mentre è prevedibile che i Paesi esportatori faranno contromosse analoghe, alzando i dazi sulle importazioni americane. Dagli anni ’90 in poi gli USA, poi seguiti dai Paesi europei, Italia inclusa, hanno optato per la progressiva deindustrializzazione, lasciando che gran parte dei loro beni di consumo venisse fabbricata in Asia, trasformando quel continente nella “fabbrica del mondo”. Sembrava di aver scoperto il paradiso in terra: lasciar lavorare altri al posto nostro e puntare tutto sulla finanza, che rendeva mediamente assai più di uno stabilimento produttivo. I capitali, un tempo impiegati per investimenti nell’industria, furono dirottati nelle Borse. Qui da noi la “società liquida”, là il concreto schiavismo, con un brutale ritorno al passato. Nel contempo, il debito estero verso la Cina e simili cresceva a dismisura, permettendo loro di competere coi loro “clienti” sulle varie piazze del mondo, acquistando coi loro dollari ogni genere di asset. La situazione italiana è ancora più grottesca, in quanto, mentre si chiudono due occhi sul sistema schiavista e anti-ecologico che permette la produzione di merci a così basso costo, ci si lava la coscienza riempiendo le nostre residue fabbriche e, ancor più, le nostre piazze, di schiavi fuggiaschi. Ora Trump ha detto basta all’invasione incontrollata di clandestini. Ma per far questo deve trasformare l’America in una nuova Cina, togliendo di mezzo tutte le limitazioni ambientali che Obama aveva saggiamente varato. Si vuole avere più lavoro, più investimenti, più infrastrutture in un’America sinora più attenta all’ambiente che alle sue industrie e ai suoi lavoratori, ma “consumata” dall’uso e degradata (come l’Italia). Scellerata gara tra i big a chi estrae più petrolio, dimentichi dell’ambiente [da La Stampa] Allora, via tutti i vincoli, con trivellazioni ovunque. Trivellazioni deturpanti come quelle per ricavare petrolio dagli scisti bituminosi, pur di battere i milioni di barili al giorno di Russia e Arabia Saudita, molto più facili; e oleodotti devastanti come quello dal Nord Dakota verso sud. E gli esempi si potrebbero moltiplicare. Buche da una parte per colmarne altre. Trump punta dunque all’autosufficienza dell’America, come lo era, energeticamente, fino al 1971. Verso un’autarchia volontaria, insomma; a differenza di quella, imposta dalle sanzioni, durante il nostro Ventennio. A tale scopo, Trump non ha scrupoli ad estendere i dazi anche ai prodotti canadesi ed europei, che non tarderanno a varare analoghe contromisure verso gli USA. Si profila così una lotta ecocida tra i vari colossi a spese di Madre Terra. Con prospettive che il riscaldamento globale purtroppo non intimidisce: dopo di noi il diluvio. Si aggiunga a ciò la rinnovata corsa agli armamenti nucleari, sempre più sofisticati ed esiziali, e il quadro è a tinte tragiche. Quindi, portiamo un po’ d’ordine in una politica che, a prescindere dai palpiti ideologici, dovrebbe guidare l’economia, e non viceversa, come è stato sinora. Mentre leggete queste righe, gli italiani stanno scegliendo, forse senza accorgersene, tra globalismo e protezionismo. Nient’altro. La verità assoluta non sta presso nessuna delle parti in gioco: nessun elettore trova nel programma del partito che vota temi che condivide in toto. Della destra sociale condivido, anzi lo renderei più drastico, il tema monetario; ma non condivido affatto le missioni militari all’estero, il blando rilievo dell’ambiente, ecc. Ogni scheda una scelta netta, nonostante nessuna sia la panacea.
A quando il voto multiplo?
Purtroppo ogni elezione ci impone una scelta netta; mentre sarebbe auspicabile una scelta pluralistica, che funga da specchio di un compromesso in nome di un’Italia da difendere, oltre naturalmente agli italiani, che però ne siano i custodi e non gli assassini. Si dimentica spesso di sottolineare che il progresso materiale goduto negli anni del boom lo ha pagato la natura; mentre quello degli ultimi 30 anni lo hanno pagato gli italiani, e ancora la natura. E la produttività è cresciuta, grazie ai progressi tecnologici, ma i profitti sono andati in gran parte nelle tasche dei ricchi; e solo poche briciole agli “altri”, natura esclusa, tanto per non smentirci. La destra di Trump è un mix di sociale e mercantilista; e voler ripristinare, con i volumi di produzione odierni, l’America di ieri, comporta riportare in patria, non solo il lavoro, ma anche lo scempio dell’ambiente, che finora si era confinato in Asia. Non mi sento di fare previsioni, ma chiedo grande cautela ai nostri politici, chiunque prevarrà oggi nei seggi, in quanto il mondo è ben più complesso di quanto appare ad un esame superficiale. Marco Giacinto Pellifroni 4 marzo 2018 |