Perché la scuola italiana è un disastro

“La scuola italiana è un disastro perché è una scuola che istruisce ma non educa”. Un’affermazione che ci si aspetterebbe da un nostalgico del regime fascista o da un ammiratore del progetto politico, chiamiamolo così, di Pol Pot. Invece è uscita dalla bocca di Galimberti, qualificato come filosofo e psicanalista (se Sigmund avesse immaginato che con la sua creatura invece di far crollare il muro di ipocrisia della morale borghese avrebbe dato la stura a un fiume di banalità sicuramente avrebbe continuato a fare il medico e lasciato Breuer a occuparsi di Anna O.). Il nostro filosofo e psicanalista da buon intellettuale ha imparato che l’usignolo dell’imperatore può cimentarsi con qualunque nota, anche la più stonata, e cantarla in qualunque contesto. Si presenta così in veste di pedagogista sul solco sessantottino della scuola che mette al centro il bambino e i suoi bisogni, tracciato da quel Don Milani che ha fatto alla scuola più danni di un esercito di cavallette.

Umberto Galimberti

La scuola italiana è un disastro ma non per le ragioni indicate dal filosofo psicanalista politologo e pedagogista. È un disastro non perché incapace di educare (e meno male!) ma perché è incapace di istruire. E quello di istruire è per l’appunto il compito della scuola. Incapace di istruire perché è un edificio rattoppato e con le fondamenta minate da continui interventi demolitori, sospeso fra formazione che non forma e cultura evanescente, con un corridoio che collega l’asilo nido al liceo ma con la porta sbarrata all’università e operatori smarriti che vi si aggirano senza sapere qual è il loro ruolo e il loro obbiettivo. Come un bambino un po’ così che maneggia un giocattolo troppo complicato per lui e finisce per romperlo i nostri politici a forza di mezze riforme, riformine e ritocchi hanno distrutto l’impianto di un sistema perfettamente funzionante e flessibile, capace di adattarsi benissimo ai cambiamenti. Era una scuola classista, tuonavano i compagni mobilitando il gregge degli studenti con i cani da pastore delle loro organizzazioni giovanili. Non era vero, anzi era lo strumento per rompere gli steccati di classe, il migliore ascensore sociale, come icasticamente dimostra la vicenda personale e familiare di molti illustri protagonisti della nostra storia. Una scuola selettiva e meritocratica, spauracchio per i figli della borghesia che si vedevano tarpare le ali e dovevano riparare in compiacenti scuole private o in Svizzera e insieme l’unica opportunità per il figlio dell’artigiano o dell’operaio per accedere a professioni di prestigio facendo valere la propria intelligenza e la propria determinazione.


Ma era anche una scuola che sapeva formare buoni tecnici e lavoratori specializzati, una scuola che rispettava le vocazioni del territorio (ricordo che a Marina di Campo, paese allora di pescatori e marinai, prima dell’introduzione della scuola media unica esisteva l’ avviamento nautico). Ma si dovevano impedire scelte troppo precoci, discriminanti e razziste come se per il figlio di una terra poverissima com’era l’isola d’Elba non fosse un’opportunità prendere la via del mare con tutte le carte in regola per fare carriera nella marina mercantile o realizzarsi come pescatore con una barca propria. Quello che, a parole, si presentava come il partito dei lavoratori, il partito della classe operaia, il Pci, in realtà odiava il lavoro e disprezzava gli operai, carne da cannone elettorale, e mirava solo ad appiattire e annacquare tutto il sistema formativo. Quindi licei delicealizzati, istituti professionali deprofessionalizzati: meno torni e più chiacchiere, meno traduzioni e più chiacchiere, il trionfo del metalinguaggio e per tutti socialità, dialogo, comprensione.

E, contemporaneamente, insegnanti tuttofare, laureati in geologia mandati a insegnare matematica, laureati in lingue riciclati per lettere, recupero sistematico dei bocciati negli esami di abilitazione e nei concorsi, finché non si impose l’evidenza dell’inutilità dei primi e dei secondi, nati per selezionare e inserire nell’insegnamento solo chi fosse in grado di insegnare. Un piano inclinato che è diventato un precipizio col governo Renzi, grazie al quale anziane casalinghe o commesse hanno tirato fuori dal cassetto un diploma triennale di scuola magistrale e si sono inserite in graduatorie a esaurimento in barba, oltretutto, alla carta costituzionale, che impone il concorso per accedere a pubbliche funzioni. Si è così formata una tenaglia che ha stritolato la scuola: strutture zoppicanti, programmi sfocati, indicazioni contraddittorie da un lato, personale insegnante improvvisato e impreparato dall’altro. Uno sfacelo mascherato da pedagogismo d’accatto, da retorica buonista del genere “star bene a scuola”. A scuola non si deve star bene: a scuola si deve studiare, faticare, superare frustrazioni e imparare a confrontarsi con i propri limiti, si deve crescere, maturare, diventare responsabili attraverso il sapere, diventare altro nella competenza, nel possesso di strumenti per imporsi nella società e nel mondo del lavoro. Ai malati di pedagogismo farei leggere un sonetto giovanile di Alessandro Manzoni, che la scuola probabilmente l’ha odiata ma con la quale ha contratto un debito di riconoscenza per quello che essa ha contribuito a farlo diventare ciò che è stato.

Umberto Galimberti

Post scriptum
Galimberti però è una fonte di ispirazione che non si limita alla scuola ma si estende alla politica e ai suoi protagonisti. Per non dilungarmi troppo mi limito ad un accenno. Nella stessa occasione (In Onda dell’11 settembre), di fronte alla prospettiva, per me terrificante, che l’Italia si trovi la Meloni alla guida di un governo di centrodestra, mi sarei aspettato che ne rilevasse la scarsa caratura politica, la sostanziale incompetenza, la labilità delle posizioni. Niente di tutto questo: al contrario, il personaggio meriterebbe rispetto per il presunto spessore e soprattutto plauso per la fedeltà agli Usa e la conversione europeista. Tuttavia, dice l’illustre filosofo, psicanalista etc., continua a far paura: non per l’eventualità che da una sua metamorfosi venga fuori il Duce, per carità, ma perché con lei sono a rischio i diritti, e uno soprattutto: il diritto all’aborto. Capito? L’aborto non è più una scelta dolorosa e sofferta che pesa esclusivamente sulla donna e sulla quale nessuno deve interferire; l’aborto per l’illustre psicanalista è un diritto. Ma via…
Quella scelta, ripeto, dolorosa, è stata per troppo tempo sottratta all’ambito privato in forza del mix micidiale fra dottrina cattolica e morale borghese, che ne ha fatto addirittura un reato penale. In Italia la legge 194 – oggetto delle improvvide e improvvisate riflessioni della Meloni – ha posto fine, con colpevole ritardo e seppure con qualche residua ambiguità, a una tale aberrazione giuridica e ha depenalizzato l’interruzione volontaria della gravidanza.

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Che rimane, com’è giusto che sia, una libera determinazione della donna, padrona, e non potrebbe essere altrimenti, del proprio corpo. La donna che deve essere consapevole della vita che pulsa dentro di lei: consapevolezza che fa dell’aborto una scelta dolorosa anche quando soggettivamente necessaria e inevitabile; sempre però assolutamente lecita, a meno di considerare la donna una fattrice al servizio della società. Scelta lecita, libera, personale ma che niente ha a che fare con i diritti, che sono altra cosa e hanno una connotazione positiva e non negativa: i diritti corrispondono ai valori e non si dica che l’aborto è un valore su cui non si discute o che sia, come sono i diritti autentici, alla base del patto sociale. Dalle parti del Pd, ma più in generale del conformismo di regime, c’è un po’ di confusione intorno alla sfera dei diritti, alla libertà di opinione e alla soggettività dei riferimenti valoriali. Mi fa specie che di questa confusione sia vittima uno che per mestiere dovrebbe essere un profondo conoscitore dell’anima umana ma vi trovo una conferma in più della pessima opinione che, da psicologo, mi sono fatto sullo statuto della psicologia come scienza e come approccio terapeutico.

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One thought on “Perché la scuola italiana è un disastro”

  1. Bravissimo professore, ottimo articolo sulla scuola. Se le “perle” di Galimberti le dicesse una persona qualunque verrebbe additato come ignorante e becero e invece le dice un filosofo del pensiero unico e allora tutti sono ad esaltarlo

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