PARLA UNA PARTITA IVA

PARLA UNA PARTITA IVA

 PARLA  UNA  PARTITA  IVA 

Ho 24 anni e una laurea non importa in cosa, tanto non ha a che vedere con l’attività che ho dovuto intraprendere per procurarmi da vivere. L’alternativa era: aprire una partita Iva quale che fosse o ingrossare le fila dei disoccupati, dei lavoratori precari, part time, o a chiamata. Per la verità ci avevo provato, e la chiamata mi arrivava, dopo giorni di inattività, la sera prima per lavorare il giorno seguente, o magari due.

 I miei genitori soffrivano ancor più di me di questo mio limbo lavorativo, finché un giorno mio padre decise che forse la strada migliore era di rilevare un negozio. Naturalmente questa scelta richiedeva un capitale, piccolo in senso lato, ma molto oneroso per la nostra modesta famiglia, che possiede solo la piccola casa in cui viviamo.

Andammo in banca per ottenere il mutuo necessario; e come da prassi mi fu richiesta una garanzia in solido. Mio padre non esitò ad offrire in pegno la nostra casa, anche se a me sembrava assurdo: perché chiedono garanzie a me, non offrendone a loro volta quando sono io a prestar loro i miei soldi? Domanda un tempo solo provocatoria, finché nel 2007 cominciò ad apparire sempre più lecita. 

Comunque, ottenuto il mutuo, fui in grado di rinnovare il locale da cima a fondo e a guardare con speranza al futuro.

Le prime nuvole non tardarono però ad apparire. Lo Stato, che ingenuamente avevo immaginato incoraggiasse le nuove attività, si era invece subito rivelato, assieme agli altri enti pubblici, a cominciare dall’INPS, come un solerte esattore di imposte, contributi e sanzioni per ogni minima infrazione. Mi ero illuso che, per almeno i primi due anni, che sono i più duri perché devi importi sul mercato, non solo mi lasciasse in pace, ma addirittura mi venisse incontro con incentivi, esenzioni, finanziamenti agevolati. Invece vedevo il suo nome, o quello della ridda di enti collaterali, solo per esigere pagamenti per le voci più disparate, molte chiaramente pretestuose. Insomma, una continua vessazione.

Nel contempo la crisi, che il governo aveva ripetutamente detto essere soltanto all’estero, mordeva ogni giorno di più. I clienti avevano sempre meno soldi da spendere, la merce costava sempre di più, per cui se alzavo i prezzi calavano le vendite. Nel contempo  dovevo far fronte ad una concorrenza sempre più agguerrita di altri come me, in una guerra tra poveri in ultima analisi suicida. Infatti, mentre avrei dovuto vedere con egoistica gioia alcune serrande di concorrenti abbassarsi per sempre, in cuor mio presagivo che anche a me sarebbe toccata quanto prima la stessa sorte. Del resto, mi dicevano, “è il mercato”! Quello che fa piazza pulita dei piccoli, facendoli scannare a vicenda, per far emergere i grossi distributori, i supermercati, le multinazionali. A quel punto il mitico “mercato” viene a cessare, perché i “grossi” tra loro fanno cartello e la concorrenza svanisce. Insomma, un mercato che vale solo per i piccoli. E mi stona sentire in mille echi incitare alle liberalizzazioni, ossia all’acuirsi di questa fratricida situazione. Chi le predica sta sulla riva, ben pasciuto, a godersi lo spettacolo di tante barchette nella tempesta.

Infine arrivò il giorno in cui non riuscii a pagare i contributi INPS, belli tosti: del resto servono per pagare anche la pensione di mio padre. Il quale ne gira una parte a me, per permettermi di galleggiare. Quando però mi arrivò una multa salatissima e sproporzionata  alla colpa ebbi conferma che tutte le sanzioni che ci comminano vengono mascherate da prevenzioni di infrazioni, ma in realtà servono solo a far cassa. Sì, perché anche lo Stato e gli enti pubblici dicono di trovarsi nella mia situazione; e allora si scagliano su quelli come me, che non abbiamo però su chi rivalerci.

Dovetti pagare la multona, pena vederla lievitare di 4 o 5 volte, peggio degli usurai che ogni tanto quelle stesse istituzioni sbattono in galera con tanto di grancassa. Anche perché Equitalia mica scherza: se non paghi ti pignora l’auto, la moto, la casa. E questo mio padre proprio non se lo meritava: la casa se l’era sudata lavorando una vita.

 

Tacitata Equitalia, però, non riuscii a far fronte al rateo del mutuo. Cominciai a saltare una mensilità. Nei mesi successivi gli incassi continuavano a calare, mentre le spese fisse erano, appunto, fisse: se non paghi l’affitto del negozio, il proprietario ti sfratta senza tanti riguardi. E allora sì che sarebbe tragica: vuol dire fallimento. Idem se non paghi i fornitori: l’Enel ti taglia la luce, chi ti vende la merce non te la consegna più. Fine.

Un brutto giorno la banca mi chiama e mi dice: lei è diventato un cliente moroso e l’abbiamo iscritta nella Centrale Rischi per ripetute insolvenze. Significa che non potrò più fare assegni, ottenere crediti, insomma la mia attività potrà svolgersi soltanto pagando in contanti, ossia in quella forma monetaria che vogliono abolire per combattere il riciclaggio e l’evasione fiscale: sempre nobili intenti dietro scelte dai motivi inconfessabili. A proposito di evasione fiscale, noi negozianti siamo additati come la frangia più dedita all’elusione! Altra ipocrisia: si sa che se non si evade un po’ si chiude (e si chiude anche se si evade un po’!), ma si pretende che si paghino le tasse (quasi la metà del reddito, non siamo al 44%?) fino all’ultimo euro, attraverso mille fanfare sui media.

Ma torniamo in banca. Negli ultimi anni mi ero documentato un po’ sul funzionamento ombra delle banche, leggendo sotto una luce diversa i meccanismi del credito. Ultimamente le disposizioni di Basilea 3 hanno imposto alle banche di avere un patrimonio di 9 se prestano 100. Forte di questa certezza, ho contestato alla banca il ventilato pignoramento della mia casa. “Come potete, godendo del privilegio assurdo di prestarmi 100 quando avete in tasca 9, pretendere che io quel 91 di aria fritta ve lo restituisca in mattoni solidi?”. Mi ero limitato ad evidenziare il lato più plateale e visibile della truffa; ma anche senza arrivare alla concreta sottrazione di un bene concreto come la casa, già pagando le rate mensili avrei dovuto contestarne il 91%, perché stavo restituendo soldi buoni, guadagnati col mio lavoro, quindi contribuendo alla creazione della nuova ricchezza nazionale; insomma pagavo con soldi buoni un prestito di soldi falsi, perché inesistenti, o meglio esistenti solo dopo che il mio lavoro li avrà consolidati. Quei soldi falsi appaiono come buoni solo perché mi vengono dati, all’origine, sotto forma di un assegno circolare o di un bonifico, che le altre banche, per un accordo tra di loro, accettano per buoni, facendo un gioco di sponda. Quindi, non è grazie a loro che hanno valore, ma esclusivamente grazie a me, al mio lavoro successivo: insomma tutte le banche immettono nel circuito soldi fasulli, che saranno poi “riciclati al contrario”, diventando soldi veri grazie al successivo lavoro di tanti altri come me; entrano in circolo senza valore intrinseco, lasciando che siamo poi noi a darglielo, lavorando. Solo il lavoro produce ricchezza, non l’atto di emettere moneta, che si limita ad anticipare un valore futuro.

E così ho scoperto che viviamo tutti partendo da debiti, che in realtà tali sono, non già verso la banca, bensì verso la società futura, che ci anticipa quei soldi in attesa che li facciamo diventare reali. I veri prestatori di soldi siamo noi stessi con qualche o parecchi anni in più, a secondo della durata del debito; siamo noi che peschiamo dal nostro futuro, mentre le banche sono solo la ragioneria generale, il veicolo dei debiti tra noi e noi stessi futuri o tra noi e altri come noi. Quindi, non si meritano affatto la nostra casa (oltretutto esentasse, con un’evasione fiscale che anche un cieco vedrebbe) se non riesco a pagare un mutuo. Semmai, dovrebbe essere lo Stato, che rappresenta tutti gli altri rispetto a me, mutuatario insolvente, a incamerare quel bene. Così come dovrebbe essere lo Stato a stamparsi la propria moneta, e non un clan di privati banchieri, ai quali (o ai risparmiatori cui le banche “mollano” i titoli pubblici) lo Stato, cioè tutti noi, sborsa 90 miliardi l’anno di interessi, in un harakiri di massa di cui nessun talk show illustra il meccanismo reale.  

Testimonianza raccolta da:

Marco Giacinto Pellifroni                                    30 ottobre 2011

 

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