PAREGGIO DI BILANCIO E CRESCITA

PAREGGIO DI BILANCIO E CRESCITA

PAREGGIO  DI  BILANCIO  E  CRESCITA

Ovvero il diavolo e l’acqua santa. Pareggio di bilancio significa che tante devono essere le uscite altrettante devono essere le entrate. Ma non dovrebbe essere una prassi normale? Lo è in una famiglia, lo è in un’impresa, ma non nella contabilità di uno Stato. O meglio, in uno Stato che largheggia nelle spese, nei privilegi ai suoi dirigenti, nella corruzione dei suoi appalti. Un tempo lo Stato si stampava la moneta necessaria per turare le falle, e andava incontro all’inflazione; mentre oggi i soldi li fa stampare dalla Banca Centrale (BC), che poi glieli presta, a interesse, in cambio di Titoli di Stato, o li mette direttamente in circolazione, drenando denaro dai cittadini, italiani ed esteri.

 In ambedue i casi, lo Stato si indebita, con l’aggiunta di una penale: l’interesse. Sembra una differenza da poco, eppure è a causa di questo interesse che il capitale dovuto cresce negli anni in maniera esponenziale, perché esponenziali  sono gli interessi, in quanto sono soldi “che non esistono” e devono essere creati ad ogni scadenza. Qualcuno ha paragonato l’interesse al sale che, aggiunto all’acqua offerta da bere all’assetato, gli moltiplica la sete, anziché estinguerla.

Fermo restando il biasimo per uno Stato sperperone e corrotto, il primo caso è decisamente preferibile al secondo, come è facile dimostrare.

Infatti, se lo Stato non dovesse pagare gli interessi sul debito, sarebbe già in pareggio di bilancio, anzi in avanzo. Basta guardare i rendiconti finanziari degli ultimi anni pubblicati dal Ministero dell’Economia.

Pur conoscendo benissimo questo non trascurabile particolare, la BCE, nonostante la smentita di Trichet, ha mandato al governo una lettera esortandolo ad adoprarsi per raggiungere il pareggio di bilancio entro il 2013, beninteso incluso il pagamento degli interessi che continuano a maturare. E il governo s’è affrettato a fare una manovra da € 54 miliardi per accontentarla. Ove si tenga presente che gli interessi ammontano a € 85-90 miliardi l’anno, a fronte di un debito di oltre € 1900, c’è da chiedersi come sia credibile che la promessa possa essere mantenuta.

Al fine di “onorare” questo impegno, che si traduce in una resa incondizionata di chi lavora a chi prospera sul lavoro altrui, si chiede a gran voce “la crescita”, ossia che “si lavori di più” e che cresca la produttività del lavoro, onde far crescere il PIL. Si dà il caso che quest’ultimo sia stimato crescere quest’anno di un misero 0,5%, rispetto ai ca. € 1500 miliardi del 2010. Tradotto in cifre: il PIL crescerà di ca. € 7,5 miliardi, cioè meno di un decimo degli interessi che la BCE e gli acquirenti dei Titoli di Stato, incamerano! Ma questa striminzita crescita non è incolpabile ai lavoratori che battono la fiacca, bensì al fatto che i “datori” di lavoro chiudono perché strozzati dal concorso di magri affari e tasse rovinose.  

 

Ma non basta: Trichet esorta anche a restituire alla BCE parte della montagna debitoria suaccennata, di oltre € 1900 miliardi, per arrivare al dimezzamento del debito pubblico, dall’attuale 120% al 60% del PIL, sull’esempio dei Paesi più “virtuosi”; insomma, € 950 miliardi che lo Stato dovrebbe versare alla BCE mettendo alla frusta il mondo del lavoro per chissà quanti anni a venire.

Affidarsi alla crescita per soddisfare l’ingordigia dei banchieri centrali è assolutamente velleitario: è come pretendere che un uomo che sale lungo una scala mobile alla velocità di 5 km/h ne raggiunga la cima mentre la stessa scende alla velocità di 50 km/h, fissandogli per giunta l’ora di arrivo.

Ci vuole forse un genio matematico per capire che è tutta una farsa?

Cui si aggiunge anche la beffa dell’aumento dell’1% dell’Iva. Oddio, un suo modesto contributo alla crescita del PIL questo balzello in più lo dona, perché più alte sono le tasse e maggiore è il PIL! Peccato che siano la componente frenante del PIL stesso, visto che più crescono le tasse, maggiori sono i prezzi finali dei prodotti, minori le vendite e il numero delle aziende che riescono a restare in piedi, con tasse più alte e vendite in calo.

Ma è il bello della deindustriazzazione, no? La finanza ci ha regalato questa nuova visione del mondo: perché affannarsi a guadagnare denaro producendo merci, quando si può accollare al denaro il compito di produrre altro denaro? Le tecnologie falcidiano il numero di occupati? Niente paura, si impiegheranno nel terziario. Peccato che il nuovo terziario sia fatto di pochi manager strapagati ed eserciti di miserabili che contano solo al momento di votare chi quei manager li supporta nelle aule parlamentari (e spesso anche giudiziarie). Ma questa è la democrazia, in stile XXI secolo. Che, guarda caso, oggi a difenderla è rimasta solo la minoranza che ci ingrassa: casta e ricconi. Altro che governo dei più!

Con ciò la democrazia è rimasta ingessata nei testi scolastici, abdicando ad una oligarchia finanziaria, ricca soltanto di denaro virtuale, che è riuscita a far prevalere sul denaro reale, ossia proprio su quelle banconote su cui il sistema bancario, attraverso i soliti lacché politici, si sta accanendo da anni per farlo scomparire, col pretesto del riciclaggio, per rendere tutte le transazioni, dai mille euro in su, “tracciabili”. Hanno persino indetto il 20 giugno NO CASH DAY, sponsorizzato dalla Presidenza del Consiglio e dal Ministero per lo Sviluppo economico! Come se i trilioni di euro che si muovono giornalmente al clic dei computer in giro per il mondo non avessero canali privilegiati, che sfuggono ad ogni controllo, al pari delle transazioni fuori mercato (OTC), non computate a bilancio (off sheet) dalle banche, e dei derivati, fortemente voluti dalla deregulation neoliberista, e dieci volte maggiori delle transazioni registrate e del PIL mondiale. Insomma la tracciabilità vale solo per i cittadini normali e per importi modesti; per i big e i loro miliardi si chiudono due occhi.  

Marco Giacinto Pellifroni                                        11 settembre 2011

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