Pane senza

Pane senza
Una volta c’era solo il pane senza sale

Pane senza

 Una volta c’era solo il pane senza sale. Era ed è una caratteristica del pane toscano. Per il resto il pane era pane, ed ogni provincia, forse ogni paese aveva il suo. Volendo essere ancora più precisi ogni fornaio faceva “il suo” pane, “la sua” focaccia. E spesso c’erano famiglie che il pane se lo facevano, una volta alla settimana, mescolando farina acquistata con farina locale nello stesso paese.

  

Non c’era una forma uguale ad un’altra. Non c’era un’infornata di pane uguale alla precedente. E in effetti così dovrebbe essere, data la grande variabilità del prodotto di base (la farina), dell’acqua, del lievito, della mano che impasta e che forma, dal forno che cuoce.

Ma al libero mercato, ultimo sovrano delle nostre anime, non è mai piaciuta questa frantumazione, questa variabilità dei prodotti, questa localizzazione. Il Grande Mercato Libero predilige prodotti costanti, consistenti (ove per consistenza si intenda costanza dei parametri significativi) e il più possibile simili per forma, gusto, colore, prezzo.

Così il pane non è più un alimento quasi sacro, una sostanza con cui identificare il focolare, la mensa, la famiglia (“pane e lavoro”, “pane e rose”, “pane quotidiano”), ma è diventato (o sta per diventare) solo commodities, una merce uguale dappertutto, un valore di mercato.

Ma non può bastare tutto questo. Dopo aver passato anni a produrre del pane “diverso” (mi verrebbe da scrivere: “perverso”) con semi vari, olive, erbe rare, fiori, aromi inattesi, siamo arrivati a questi anni mai così tristi per la storia del pane: il gluten free e il carbone vegetale.


Dopo tutte le minchiate (mi si scusi il francesismo, ma non trovo un termine più adatto) su cui sedicenti gastronomi hanno esercitato la loro retorica, ora è il momento del pane medicamentoso. In realtà non si può dire, non si può scrivere (giustamente), ma c’è chi sostiene che il pane con aggiunta di carbone vegetale sia salutifero per via del potere adsorbente di questo additivo, prodotto per combustione di legna in assenza di ossigeno, e nominato nelle etichette come E153 (colorante naturale). Se uno fosse un po’ gonfio, o avesse un’attività gassosa intestinale troppo rilevante, ecco venire incontro la soluzione: il pane nero al carbone attivo.


Discorso diverso sul pane privo di glutine (o gluten free). Il glutine è una proteina che si forma durante l’impastamento di sfarinati di alcuni cereali (grano, farro, orzo, segale). Ce ne sono che non ne producono (riso, mais, manioca). C’è una malattia piuttosto rara che si chiama celiachia, chi ne soffre subisce reazioni molto violente di tipo allergico, anche in presenza di pochissimo glutine, ragion per cui i prodotti per celiaci vanno attentamente selezionati e lavorati in ambiente sicuro, assente da glutine. E poi ci sono anche gli intolleranti, più frequenti, ai quali il glutine può causare qualche fastidio. Secondo il dottor Alessio Fasano (gastroenterologo e nutrizionista pediatrico, Massachusetts General Hospital) troppe persone si fanno l’autodiagnosi per riconoscere l’intolleranza al glutine (non alla celiachia, altra malattia ben più seria) e basano la loro dieta su questa “assenza”. Ma il glutine serve al nostro metabolismo, così come serve una dieta bilanciata e varia, senza nevrosi, senza manie. Una quarantina d’anni fa, un’azienda produttrice di pasta lo aggiungeva, il glutine, a certe stelline o ditalini di uso comune da minestrine, trasformandola in un prodotto consigliato per gli ammalati, gli indeboliti in genere: la pasta glutinata. In quel momento il glutine era buono, oggi è cattivo.

 

 Il glutine (ma anche il carbone vegetale) non sono né buoni e né cattivi. Sono sostanze che possiamo ingerire senza danno (salvo per chi è realmente ammalato). Il glutine è propriamente una sostanza nutritiva, la seconda può essere utile ad assorbire gas e alcuni veleni ingeriti incidentalmente. Nessuna di queste sostanze compie miracoli, nessuna è letale per l’uomo.

La direzione in cui ci si deve incamminare per la ricerca di un pane buono, che ci faccia bene, che ci nutra, che non impoverisca la terra, che non sottragga l’acqua agli altri viventi, non è negli ingredienti che “ci sono” o “non ci sono”, ma è nella consapevolezza, nel buon senso, nell’interesse che possiamo metterci sul ciclo di produzione del pane che mettiamo in tavola.

Una farina di produzione locale (a proposito: tenete sempre d’occhio quanti campi di grano vedete in provincia di Savona) macinata con la pietra, di un tipo di grano antico, con poco glutine e piuttosto delicato, in cui non sono stati usati erbicidi o anticrittogamici, o sono stati usati con il buon senso di chi quel grano se lo mangia, per primo, lui e la sua famiglia, ecco, allora varrebbe la pena di interessarsi per bene, di essere disponibili anche a spendere il doppio per un pane così. E magari, di conseguenza, a sprecarne la metà (visto che si salva più a lungo e si può riciclare in altre ricette).

La risposta a questo punto è sempre la stessa: “Eh ma come si fa? Eh ma non ho mica tempo!”. Lo so, presi dagli impegni che altri ci prescrivono (ascoltare la tv, vestirsi in modo adatto, preoccuparci per cose che non ci riguardano, dare ascolto a persone pedanti…) lasciamo l’alimentazione come ultima preoccupazione, ma solo perché ci hanno educato così. È così bello e comodo prendere quello che ci serve da uno scaffale, pagarlo e portarselo a casa, senza farsi nessuna domanda. Oppure facendosi le domande che i media ci suggeriscono: farà bene? Sarà salutare? Mi farà ingrassare? Insomma, il soggetto è solo e sempre IO, perché “Io valgo” (“E voi non siete in cazzo”, per dirla col marchese del Grillo).


Ma ogni prodotto, soprattutto alimentare, non è SOLO un prodotto. Ma sono persone che fanno scelte, coltivano, trasformano, confezionano, trasportano. E a volte fanno scelte coraggiose. Non potremo mai metterle sullo stesso piano di una fabbrica, di una multinazionale del cibo (che produce unicamente per il fatturato) il produttore locale, la sua faccia (valida come documento di garanzia) e la buona volontà di fare un alimento buono per sé e per chi lo vuole comprare.

Con questo vorrei dire che è già molto difficile e non privo di insidie il trovare un fornaio che ci può dare un pane buono, fatto coscienziosamente, ad un prezzo equo.

Come potremmo mai aspettarci che la grande distribuzione o una multinazionale dotata di un potente megafono promozionale, ci consigli, per il nostro bene, cose di cui non abbiamo bisogno ad un prezzo esagerato?

Dal cibo non possiamo aspettarci miracoli o delitti. Dovremmo sforzarci di conoscerlo un po’ meglio, di non sprecarlo, di produrcelo ove possibile da noi medesimi, di acquisirne anche dalla produzione industriale, perché quest’ultima è utile, economica e igienicamente perfetta, ma senza inganni, senza farci convincere da nessuno, consapevoli della differenza di prezzo e di qualità. E soprattutto facendo a meno delle cose fuori posto, o che non servono, o che sono solo capricci per umani che hanno già di tutto e ancora non gli basta.

Alessandro Marenco

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