Paese dove la politica è assente ma…

Paese dove la politica è assente
ma imperversano i politici

(e ci si consola con i gadget della nostalgia)

Paese dove la politica è assente ma imperversano i politici

(e ci si consola con i gadget della nostalgia)

 La politica è insieme teoria e pratica del governo, che in democrazia si presenta come partecipazione, coscienza civica, coinvolgimento, con un insieme di circuiti di retroazione in forza dei quali quella teoria e quella pratica vengono elaborate, aggiustate e rese coerenti dal basso. La res publica, la cosa, e la casa, di tutti, risulta quindi guidata dalla sommatoria delle volontà individuali, rovesciando il rapporto hegeliano fra società civile e Stato. Se è così, in Italia la politica non esiste, come non esiste democrazia. Non esiste perché non c’è né arte né scienza del governare né c’è il pilota – gubernator – che segni e segua la rotta di una navigazione che abbia un senso. Né esiste perché non c’è feedback, non c’è coinvolgimento, manca qualsiasi forma di autentica partecipazione che consenta il formarsi di una coscienza civica. E, per aggiungere al danno la beffa, il popolo italiano, storicamente spogliato della sua sovranità a partire dal momento in cui si proclamava di avergliela restituita, è tacciato di qualunquismo, spagna o franza purché se magna, quando è semplicemente vittima di bande di sopraffattori, rossi e neri, neri, si badi bene, per il colore della tonaca, e come si azzarda a cercare di far sentire la sua voce scatta l’anatema: populismo!, fascismo! (ora anche sovranismo!, che non so che cosa sia ma certamente deve essere qualcosa di molto brutto).


Bene, per un paradosso tutto nostrano, da noi, dove la politica non esiste, imperversano però i politicanti, imperversano i partiti, che secondo l’ipocrisia dominante sarebbero espressione della democrazia mentre sono solo accolite di singoli individui, bande e vere e proprie associazioni per delinquere sul modello del partito egemone, che controlla tutti i gangli vitali del Paese e invade, guastandoli, settori di squisita competenza tecnica. Lo vediamo nel sistema finanziario, nella sanità, nella scuola, nelle infrastrutture, nella tutela dell’ambiente, nel corto circuito fra partito e magistratura. Dove dovrebbe esserci il meglio delle competenze che il Paese può offrire si sono installati personaggi grigi, cresciuti nel chiuso delle federazioni e dei circoli del partito, abituati a parlare di tutto senza sapere nulla di nulla, privi di quel minimo di onestà che di fronte a un compito superiore alle loro capacità dovrebbe consigliare loro di farsi da parte o quanto meno di servirsi di consiglieri qualificati. Invece no, anche il loro staff è a loro immagine e somiglianza, trionfo dell’incompetenza, della chiacchiera, delle frasi fatte, degli ideologismi astratti e degli interessi concretissimi.


 Ho ascoltato con disagio il sindaco di Livorno discettare sull’arancione o il rosso dell’allarme meteo in polemica con la protezione civile, per altro indifendibile. E, fra la disputa sul mancato allarme e sui colori, ciò che è emerso sono settanta anni di incompetenza e di improvvisazione. Il disastro, con Giove pluvio, checché ne dicano i catastrofisti e i contaballe, innocente come l’acqua di cui è portatore perché non c’è stata nessuna città sommersa , è stata una sorpresa per la maggioranza degli stessi livornesi e circoscritto ai quartieri esposti alle cause che l’hanno provocato: assenza di alvei capaci di incanalare l’acqua dalle colline, torrenti deviati, interrati, intubati, intasati per l’incapacità e l’idiozia di falsi tecnici protrattasi per decenni, per la miopia di dirigenti che di fronte ad un problema sistemico mettono una toppa nel punto in cui l’abito si è scucito e fingono di non vedere che è tutto marcio, per la regola ferrea che ha trasformato tutti i settori della pubblica amministrazione in stipendifici e in scranni dirigenziali per gli scarti della politica.


Non nascondo la mia simpatia per il movimento Cinque stelle ed auspico da tempo una saldatura fra tutti i movimenti che esprimono la rabbia e il disgusto popolari per il gruppo di potere che ha fatto naufragare il Paese. Ma la mia simpatia va agli elettori e all’ispiratore del movimento, non agli eletti, nella quasi totalità furbastri senz’arte né parte che con poche centinaia di voti si sono assicurati una bella rendita e hanno superato rapidamente il disagio iniziale e la coscienza della propria inadeguatezza. La speranza era che con loro si potesse almeno ottenere questo risultato: che la politica, questa caricatura italiana della politica incarnata dai politici di mestiere, facesse un passo indietro e cedesse il ponte di comando alla società civile, con umiltà e in spirito di servizio. Nemmeno per sogno. I nuovi inquilini del palazzo sono la fotocopia dei vecchi, tant’è che l’apparato dirigenziale, partorito dai vecchi inquilini, si è trovato perfettamente a suo agio con i nuovi. A suo tempo apprezzai molto il modo in cui Letizia Moratti, nell’accingersi come ministro dell’Istruzione a mettere le mani sulla scuola, si affidò ad una commissione di esperti indipendenti dai partiti. La composizione della commissione era pletorica, quindi, di fatto, inefficiente, i criteri con cui i suoi componenti erano stati scelti misteriosi ma sicuramente sballati, e anche questo la rendeva inefficiente, trapelava una certa concessione agli interessi della scuola privata, mancava una personalità in grado di indicare un percorso chiaro e distinto; ma il metodo era corretto e l’intenzione lodevole. Non si sono più ripetuti né in ambito scolastico né in altri campi.


Più si dà spazio alle periferie, più si decentra il potere di amministrare la cosa pubblica, più si diffonde il morbo di questa degenerazione della politica. L’inefficienza e la corruzione rimbalzano dal centro alla periferia, le autonomie locali agiscono come loro moltiplicatore e di fatto impediscono che se ne venga a capo. Tutti i corpi dello Stato ne sono infettati, il Paese appare marcio fino al midollo, quello che in un sistema sano è respinto ai margini occupa stabilmente il centro e ai margini è respinto quel che resta di sano. In situazioni di emergenza si richiede un raccoglimento e un impiego razionale delle energie disponibili, un rafforzamento del potere centrale, il commissariamento di una democrazia disarticolata e in stato confusionale. Ma non se ne intravede la possibilità e allora ci si rifugia nel sogno. Quella in cui stiamo vivendo è una terribile emergenza, di cui l’invasione è solo l’aspetto più immediatamente evidente. Un’emergenza che crea sfiducia, inquietudine, un diffuso malessere e una palpabile avversione per le istituzioni: ci si sorprende per la fortuna che hanno i gadget ispirati al ventennio? Ma quello è solo l’epifenomeno di un atteggiamento ben più diffuso. Non si sa nulla del ventennio mussoliniano ma più viene ufficialmente esecrato più si ha la prova che l’Italia è stata e, di conseguenza, potrebbe di nuovo essere diversa e, quindi, migliore. Non è più la nostalgia né il reducismo delle vecchie destre: è disgusto del presente, si guarda indietro perché non si riesce più a vedere niente davanti, si è arrivati al punto di invidiare ai francesi il pupazzo che rinnova il mito bonapartista scambiandolo per l’uomo forte che vorremmo per noi. Qualcuno, illudendosi, l’uomo forte l’aveva visto in Berlusconi, altri, sembra incredibile, nel parolaio fiorentino. Certo, se ci si guarda d’intorno, c’è da rabbrividire; e da capire anche qualche patetico revival.


 Berlusconi l’abbiamo già provato. Dice di essere stato imbrigliato da Fini e da Casini ma un vero capo non si fa imbrigliare così facilmente, e poi da chi? Ora l’hanno tirato a lucido e rimesso al centro della scena proprio quelli che ne avevano celebrato il de profundis e tanto basterebbe per insospettirci. Nella prospettiva di un’affermazione grillina, che sarebbe travolgente se si creasse un fronte comune con la Lega, Berlusconi serve per far vincere una destra annacquata, sfigurata, tartufesca, indistinguibile dalla sinistra. Leader autentici, già bell’e pronti, non ce ne sono. C’è solo da sperare che lo scettro del potere si trasformi in una bacchetta magica e tiri fuori il principe dal brutto anatroccolo. Da una parte Salvini, della cui effettiva caratura si sa poco, dall’altra Di Maio, che, dicono, studia e piano piano sta imparando, io non che cosa. Non ci resta che credere nei miracoli e nelle bacchette magiche. Quel che è certo è che rimediare alla catastrofe che i compagni hanno provocato sarà dura.

Pier Franco Lisorini

 Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

 

 

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