ORA ET LABORA
ORA ET LABORA “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro” “Il pieno sviluppo della persona umana” “Il diritto alla felicità” Ho sempre trovato questi articoli e locuzioni della nostra avanzatissima costituzione non privi di incongruenze. Personalmente detesto vivere in una Repubblica fondata sul lavoro. Ne farei volentieri a meno. Del lavoro intendo (infatti ho sempre lavorato il meno possibile, e sempre seguendo i miei ritmi, la mia vocazione, i miei talenti, la mia volontà). Vivo il lavoro come un obbligo, e se un diritto alla “felicità” esiste (come la costituzione sostiene ed io con lei) per quello che mi riguarda non ha nulla a che vedere con l’occupazione imposta a chi non può proprio farne a meno (pena la totale indigenza). Il pieno sviluppo della persona umana? Sacrosanta. Ma ha a che fare col lavoro? Sostengo di no, anzi. Vivere felici è vivere disoccupati, lontani da ogni incombenza, liberi di aderire a un proprio intimo sentire, a una pulsione po-etica radicale. Avere il coraggio di sostenere che il lavoro è negazione del diritto alla felicità, significa sottrarre a tutto l’impianto della costituzione italiana la sua base, le sue fondamenta, la sua pietra angolare. Ma forse no. Forse abolire l’articolo 1 provocherebbe l’imprevisto perfezionamento di una carta fra le più avanzate del mondo. Potrebbe suonare così il nuovo articolo 1 della nostra costituzione: “l’Italia è una libera repubblica fondata sulla felicità di uomini liberi”. Ma aggiungerei: “è vietato ogni sorta di lavoro imposto che impedisca all’uomo di conquistare quella felicità che gli spetta di diritto”. Il tempo dedicato al lavoro è tempo sottratto al pensiero, alla relazione sana coi figli e con gli amici, al conseguimento di alti ideali, alla cultura, alla lettura, all’approfondimento interiore, alla preghiera, al viaggio, al divertimento…alle cose inutili e sane. Il lavoro crea disuguaglianze (datore di lavoro/operaio, ricchi/poveri), il lavoro corrompe (idolatria del lavoro, del successo ad ogni costo, della carriera), il lavoro distrae (dai veri valori della vita, dalle cose necessarie, dagli affetti, dal gioco), il lavoro inganna (fa credere agli uomini che non vi sia la morte ad attenderli, in una sorta di processo anestetizzante che impedisce di guardare in faccio alla “vera” realtà), il lavoro usura (piega i corpi e stanca le menti), il lavoro inquina (guardiamole bene le città ricche di posti di lavoro e di mezzi e strumenti per conseguirlo!), il lavoro spesso porta privilegi, conflitti, competizione, scontri, guerre. Detesto il lavoro. Lo trovo antiquato, svilente, faticoso, inutile. Propongo di sostituire il termine “lavoro” col termine “vocazione” (come del resto già suggerito da certa tradizione religiosa nella quale, col beneplacito del Vaticano, un’intera nazione si è sempre riconosciuta, anzi un’intero continente, l’Europa, anzi, l’intera civiltà occidentale). Ma una vocazione vera intendo, quella sottratta alle egocentriche ambizioni umane e restituita all’intima propensione “a fare cose”, retribuita o no, conformemente al proprio carattere, alla propria indole, al proprio desiderio intimo, privo di ambiguità, sottratta all’ambizione e all’obbligo, alla coercizione, alle forzature psicologiche della famiglia e della società. Aboliamo il lavoro, istituiamo la società dell’avvenire e della crescita, quella umana però, non quella economica di una società costretta all’espansione senza limiti, stretta nella morsa dello sviluppo indiscriminato. Decrescere significa aderire a un modello armonico di perfezionamento, naturale, organico, non violento, umanissimo. Rinunciamo agli sprechi, al consumo, al lavoro. Accettiamo l’imponderabile, la fine di tutto: della vita, di un modello ormai desueto, di un sistema, di una Storia. Torniamo a scrivere, pensare, meditare, viaggiare (a piedi). Torniamo a noi: uomini pieni, autentici, disoccupati. Torniamo a pensare, a vivere, ad amare. Riscriviamo la costituzione, riscriviamo i nostri sogni, riscriviamo noi stessi. S.C. (alias M.F.)